22 novembre 2011

L’orologio. Ai tempi del Papa-re, quando le ore erano solo sei.

Orologio a 6 ore Torrino del Quirinale Nulla è stato in passato più mutevole e opinabile del tentativo di scandire il tempo. Nonostante che l’orologio portatile, individuale, si fosse diffuso in tutt’Europa a partire dal Seicento, fino agli inizi dell’800 la stessa divisione in ore del quadrante di un orologio non era per niente una regola esatta.

Intanto, mancavano o erano rarissimi gli orologi meccanici pubblici. Nei Paesi più arretrati, come lo Stato pontificio, erano ancora visibili sulle mura esterne e nei cortili dei palazzi signorili le antiche e tradizionali meridiane, con un’assicella che proiettava l’ombra su una scala graduata a seconda delle stagioni.

Del resto, nei Paesi cattolici le autorità religiose facevano di tutto per imporre al posto dell’orologio della torre municipale, tipica dei Comuni liberi e dei Paesi liberali, la campana del campanile della chiesa parrocchiale.

Altrimenti le autorità religiose e i vecchi nobili, se avevano bisogno, molto di rado, di una sorta di cronometro “esatto” per un periodo da qualche minuto ad alcune ore (in questo caso rovesciandola più volte), usavano l’antichissima clessidra a sabbia, indispensabile anche per le misurazioni rituali e legali (assemblee, cerimonie, contratti ecc).

Orologio da tasca Andreas Mahl 1710 chiuso (a cipolla)Fatto sta che nessuno sapeva mai l’ora esatta: le chiese suonavano le campane per dare il mezzogiorno, ma ognuna col tempo suo. Avevano il quadrante “all’italiana” o “all’antica”, cioè diviso in sei ore, più o meno come gli antichi Romani (quello a 12 ore era detto “alla francese”. Per cui il popolo diceva: “Ci vediamo sul tardi, alla quart’ora”. Poi, come ricorda Vacca più avanti commentando la battuta d’uno svizzero registrata dal Belli, le lancette dei rari orologi sulle chiese o altri edifici residenza di religiosi (come quello del torrino sul Quirinale, residenza del Papa, v. immagine in alto) non corrispondevano al numero dei tocchi delle campane. E i pochi orologi personali non avevano un segnale orario di riferimento. Con immaginabili inconvenienti. Per ovviare al problema e uniformare il segnale di mezzogiorno dato dalle campane, a Roma papa Pio IX decise di far sparare un colpo di cannone a salve da Castel S.Angelo, in modo che lo sentisse tutta la città e tutti potessero regolare il proprio orologio su quel segnale univoco. Si iniziò il I dicembre 1847:

«A maggior comodo del pubblico, affine di ovviare al disordine che può non di rado arrecare il diverso andamento di tanti orologi in questa Capitale, per ordine superiore cominciando da domani  1.o dicembre un colpo di cannone tirato dal forte S.Angelo annunzierà ogni dì alla popolazione il vero istante e preciso del mezzogiorno, quale appunto dovrebb'esser in par tempo indicato da tutti gli orologi ben regolati della città» (Diario di Roma, 30 novembre 1847).

Ma chi aveva un orologio? Solo i ricchi o benestanti. Purché fossero contemporaneamente modernisti, non avari, un po’ eccentrici ed esibizionisti. Pochi possedevano le grandi e rumorose pendole con scappamento a pesi, pochissimi addirittura un orologio personale da tasca.

Orologio da tasca Andreas Mahl 1710 aperto (a cipolla)Orologio che fino alla giovinezza del Belli, visto il conservatorismo o la povertà del poeta, poteva benissimo ancora essere uno di quelli grossi e spessi tipici del ‘700, a causa delle dimensioni del meccanismo interno. Meccanismo a cui si accedeva aprendo strati successivi (di qui, sia per gli strati, sia per la grossezza dello spessore, il nomignolo di “cipolla”).

Questi vecchi “orioli” dovevano costare poco, ormai, verso la metà dell’800, tanto da essere caratteristici di vecchi avari o persone all’antica. Il Belli, così passatista in molte cose, diventa modernista riguardo agli orologi, e in un sonetto prende in giro un tradizionalista che usa ancora uno di questi apparecchi pesanti e ingombranti, oltreché imprecisi. Arnesi fatti apposta, si direbbe, per scivolare fuori dal taschino del gilet o dei pantaloni, e cadere dove meritavano, cioè,  nella puzzolente “seggetta”, il recipiente di ceramica del cesso. Tipica caduta comica belliana.
E questo accadeva ancora agli inizi del secolo “della scienza e della tecnica”, cioè il XIX.

Ma i contadini, così come i tanti tradizionalisti, per vendicarsi, andavano dicendo che l’orologio “non serviva a niente”, e che dovevano essere un po’ matti quei signori che per sapere che tempo faceva guardavano anziché in alto verso il cielo, in basso, in un apparecchio estratto dal taschino.

Orologio da carrozza Robert & Courvoisier 1800 ca (Museo Naz Sci Tecn. Milano)Marchingegno che al popolino, così come ai preti, doveva apparire misterioso e diabolico. A loro, invece, bastava guardare il sole, o ascoltare i rintocchi delle campane. Su quelle regolavano le semplici fasi della loro vita e perfino i lavori agricoli. Campane, però che cambiavano ritmo a seconda delle stagioni, se è vero che i rintocchi dell’Ave Maria, sul far della sera, potevano variare tra estate e inverno anche di più di un’ora.

Il Belli nei suoi sonetti ha un curioso e un po’ maniacale rapporto con l’orologio. Intanto nei suoi frequenti viaggi in diligenza avrà dovuto portarsene appresso uno da taschino, necessariamente, visto che nei suoi resoconti (vedi le sue Lettere a Cencia) è così pignolo sugli orari di viaggio, di arrivo e partenza, tra locande, stazioni di posta e dazi. Ecco, perciò, la foto di un grosso orologio “da carrozza”, coevo del Belli giovane, per metà rivestito in pelle, quindi protetto dagli urti del viaggio, ma anche adatto ad essere maneggiato dal freddolosissimo poeta nelle giornate d’inverno.

Sul poeta romanesco e gli orologi, pubblichiamo un articolo che abbiamo avuto l’onore di ricevere dal grande scrittore scientifico e futurologo Roberto Vacca, lo stesso poi pubblicato nel maggio 2007 sulla rivista L’Orologio. Vacca – pochi lo sanno – registrò nel 1997 una sua conversazione sul “Progresso scientifico e tecnico nei sonetti di G.G.Belli” (con tanto di declamazione di 12 sonetti), ora raccolta in un disco cd che può essere richiesto all’autore. Complimenti all’amico Vacca.
NICO VALERIO

OROLOGI IN CERTE POESIE CURIOSE: IL BELLI

Orologio di Isaac Soret (Ginevra, 1770-80 ca) “Oh, Griste sante! Segnar quattro, sonar tiece e star fentitue!”
(Oh, Cristo santo! Segna le quattro, suona le dieci, ma sono le 22!)

Questa lamentela pronunciata con accento tedesco da uno svizzero del papa, fu registrata dal poeta Giuseppe Gioachino Belli nel 1846  a commento del suo sonetto del 22 ottobre, “L’orloggio”.

Per capirla bisogna sapere che fino a quell’anno il grande orologio del Palazzo Pontificio al Quirinale [v. immagine in alto, NdR] e quelli installati sui campanili romani avevano quadranti divisi solo in 6 ore invece che in dodici. Il primo giro finiva alle 6 del mattino – e la campana batteva sei colpi. Il secondo a mezzogiorno – dodici colpi. Il terzo alle 18 – sei colpi di nuovo - e, 4 ore dopo, mentre le lancette segnavano le 4, la campana batteva 10 colpi per le 10 di sera – che gli svizzeri contavano come le 22. Da qui l’esclamazione stupita della guardia svizzera: “Oh Cristo santo! L’orologio segna le quattro, la campana batte dieci colpi e sono le ventidue!”

Pare che i quadranti con dodici ore fossero stati introdotti a Roma al tempo di Napoleone. Con la Restaurazione si era tornati a 6 ore, ma nell’autunno del 1846 papa Pio IX (Giovanni Mastai, incoronato il 21 giugno) stabilì di nuovo che i quadranti fossero organizzati all’astronomica – o alla francese – e i francesi venivano ancora chiamati giacobini. Il Belli fa parlare un popolano romano che rimpiange il sistema tradizionale e dice:

……er zanto padre ha la corata
D’arimette l’orloggio a la francese
Un papa ammalappena ar quarto mese
Der papatico suo! Brutta fumata!
Disse bene er decan de Lambruschini
Ar decan de Mattei: “Semo futtuti
Qua torneno a regna’ li giacubbini!”
‘Sto sor Pio come voi che Dio l’ajuti
Quanno ce vie’ a imbroja’ per li su’ fini
Sino l’ore, li quarti e li minuti?

Versione. Il Santo Padre [Pio IX] ha il cuore (coraggio) di rimettere il quadrante degli orologi alla francese. Un papa a mala pena al quarto mese del suo papato! Che brutta fumata (elezione)! Disse bene il cameriere decano (anziano) del card. Lambruschini [che, particolare non secondario, aveva conteso l’elezione a Pio IX] al decano del card. Mattei: “Siamo rovinati, qua tornano a regnare i giacobini!” Questo signor Pio, come vuoi che Dio lo aiuti, quando ci viene a imbrogliare per i suoi scopi perfino sulle ore, i quarti e i minuti?

Nei sonetti del Belli gli orologi appaiono spesso come oggetti rubati e il poeta non disapprova molto i ladri. Il 24 ottobre 1835 scrive:

Perché quello va in chiesa la mattina
Rubanno qualche orloggio o fazzoletto
C’entra da staje a fa’ tanta marina?
Bisogna compatillo, poveretto.
Come dice er proverbio, sora Nina?
“Ama l’amico tuo cor su’ difetto”

Versione. Perché quell’uomo va in chiesa al mattino per rubare qualche orologio o fazzoletto, dobbiamo poi condannarlo duramente? Bisogna compatirlo, poveretto. Come dice il proverbio, signora Nina? “Ama il tuo amico col suo difetto”.

Il Belli nomina anche gli orologi come sintomi o indicatori della ricchezza notevole di chi li sfoggiava. Sembra che venissero offerti anche come ex voto per grazie ricevute e appesi alle statue della Madonna. Nel sonetto del 2 febbraio 1833 descrive la statua della Madonna col bambino, (opera di Jacopo Sansovino nella chiesa degli Agostiniani):

“  …..la Madonna de Sant’Agustino,
quella ch’Iddio je le dà tutte vinte.
Tra du’ spajere de grazzie dipinte
Se ne sta a sede co Gesù bambino
Co li su bravi orloggi ar borsellino
E catene e scioccaje e anelli e cinte.

Versione. La Madonna di Sant’Agostino, quella a cui Dio esaudisce tutte le richieste, tra due spalliere di Grazie dipinte se ne sta seduta con Gesù bambino, con i suoi bravi orologi al borsellino, e catene e pendenti e anelli e cinture.

Il poeta doveva anche tenersi informato sul valore delle varie marche. Varie volte cita come esempi di perfezione gli “orioli” prodotti a Ginevra dal famoso  Isaac Soret del quale storpia il nome alla romana. Nel sonetto del 19 aprile 1834, un ebanista descrive due scatole intarsiate che si accinge a produrre e ne giustifica il prezzo elevato assicurando il cliente che saranno perfette. Saranno:

          du’ cose arissettate
Come du’orloggi de Sacchesorette

Due cose rimesse in sesto come due orologi di Isaac Soret

Naturalmente il poeta romano, così attento alle ansie e alle paure di una popolazione che non viveva in situazione prospera e che aveva una speranza di vita alla nascita pari a poco più di metà di quella di oggi, non manca di interpretare l’orologio in modo pessimista e rassegnato come simbolo del tempo che passa e del fato inevitabile che incombe su ciascuno di noi.

La morte sta anniscosta in ne l’orloggi
E gnisuno po’ dì “domani ancora
Sentirò batte er mezzogiorno d’oggi”.

Versione. La morte se ne sta nascosta negli orologi. E nessuno può dire: “Domani ancora sentirò battere il mezzogiorno”.

ROBERTO VACCA

IMMAGINI. 1. Orologio “italico” o “all’italiana” a sei ore (contrapposto a quello di 12 ore, detto “francese”) sul Torrino del palazzo del Quirinale, oggi residenza del Presidente della Repubblica, ma ai tempi del Belli sede del Papa. 2-3. Orologio da tasca di Andreas Mahl (1710) chiuso e aperto. Rappresenta il tipico orologio che nell’Ottocento apparirà antiquato, ingombrante, di grosso spessore e con più coperchi, perciò detto “a cipolla”. 4. Orologio da carrozza di Robert & Courvoisier (1780-1800) con chiavetta di carica (Museo Nazionale Scienza e Tecnica “Leonardo da Vinci”, Milano). 5. Orologio da tasca di Isaac Soret (Ginevra 1770-80), nome che per deformazione popolare il Belli fa diventare “Saccherosette”.

AGGIORNATO IL 16 APRILE 2014

4 settembre 2011

Fontana del Moro. Se piazza Navona è in balia dei vandali.

Fontana_del_Moro Avesse lasciato, papa Innocenzo X, parente e anche amante (sussurravano monsignori e popolino) di Donna Olimpia), la cancellata attorno alla fontana del Moro! I vandali non avrebbero potuto danneggiarla, come invece è accaduto.

Piazza Navona, per chi vi entra da Campo de’ Fiori superando il monumento a Marco Minghetti e costeggiando palazzo Braschi, si presenta all’improvviso con un primo piano eccezionale: la bella e curiosa statua del Moro, un omaccione nerboruto con la faccia dai tratti forti e il naso camuso (un mitologico “tritone”, ma il popolo pensò che si trattasse di un “moro”, cioè d’un negro, e il soprannome è rimasto) che trattiene per la coda un piccolo delfino.

La fontana del Moro fu commissionata da papa Gregorio XIII nel 1574 all’architetto Giacomo Della Porta. Per la decorazione furono utilizzati i quattro tritoni grotteschi che due anni prima erano stati scolpiti per la fontana di piazza del Popolo, con l’aggiunta di due mascheroni ornati da delfini. Proprio su uno di questi mascheroni (quello in primo piano a sinistra, nella foto in alto) si è accanito un folle vandalo armato di una pietra, colpendo ripetutamente – come ha mostrato la telecamera di controllo – fino a decapitare i due draghi alati (v. foto in basso).

Nel 1651 papa Innocenzo X affidò a Bernini il rifacimento della fontana, con l’eliminazione dei gradini e della cancellata (che errore, visto quello che è successo!) e la costruzione di una vasca esterna più grande della stessa forma di quella interna. Al centro il Bernini aveva scolpito una grossa conchiglia con tre delfini, che però non piacquero al Papa, che li fece togliere. Come “prova d’appello” il Bernini si inventò la figura maschile, a cui lo scultore G.A. Mari aggiunse il delfino che getta acqua dalla bocca.

Il gruppo marmoreo della fontana del Moro, pur così composito, piacque molto, ed è diventato il secondo simbolo di piazza Navona, dopo la fontana centrale con l’obelisco, detta “dei Fiumi”. Tanto che il Belli immagina che una ricca turista inglese, forse invaghita dalle robuste forme del “selvaggio”, abbia chiesto la statua al Papa, a qualunque costo. Avendone, ovviamente un netto rifiuto:

ER MORO DE PIAZZA NAVONA  
Vedi llà cquela statua der Moro
c’arivorta la panza a Ssant’aggnesa?
Ebbè, una vorta una Siggnora ingresa
la voleva dar Papa a ppeso d’oro.
Ma er Zanto Padre e ttutto er conciastoro,
sapenno che cquer marmoro, de spesa,
costava piú zzecchini che nun pesa,
senza nemmanco valutà er lavoro;
je fece arrepricà ddar Zenatore
come e cquarmente nun voleva venne
una funtana de quer gran valore.
E cquell’ingresa che ppoteva spenne,
dicheno che cce morze de dolore:
lusciattèi requia e scant’in pasce ammenne.
25 agosto 1830

Versione. Il Moro di piazza Navona [“piazza-Navona” nel testo originale]. Vedi là quella statua del Moro [negro] che rivolta la pancia verso la chiesa di S.Agnese? Ebbene, una volta una signora inglese la voleva acquistare dal Papa a peso d’oro. Ma il Santo Padre e tutto il Concistorio [voleva dire Curia], sapendo che quel marmo, di spesa, costava più zecchini di quanto pesasse, senza neanche valutare il lavoro [esagerazione popolaresca]; le fece rispondere dal Senatore [equivalente del sindaco], come e qualmente non voleva vendere una fontana di quel gran valore. E quella inglese che poteva spendere dicono che ci morì dal dolore. “Luceat eis, requiescant in pace, amen”.

Fontana-del-Moro mascherone danneggiato Allora, come si vede, il Senatore, l’equivalente del nostro sindaco, aveva molto a cuore l’arte, e difese la statua dalle voglie d’una turista. E forse anche i capo-rioni addetti alla polizia urbana nelle varie zone storiche del Centro avrebbero vigilato, pur nella pigrizia e sonnolenza dei burocrati della Roma papalina, magari messi sull’avviso dai soliti monelli sempre a piedi nudi, che sapevano tutto e correvano ad avvertire in cambio d’una moneta le guardie di qualunque cosa accadesse in città. Oggi, invece, ben altri sindaci, ben altri caporioni!

Anzi, forse oggi è peggio che ai tempi del Belli, fatte le debite proporzioni e visti i mezzi tecnologici a disposizione (perfino la televisione a circuito chiuso). E nonostante ben otto corpi di polizia – dai Vigili Urbani alla Guardia di Finanza – che sembrano ostacolarsi a vicenda e che ci costano un occhio della testa, non si riesce a prevenire incidenti simili. Così, l’ennesimo gesto folle d’un maniaco  che si è accanito contro le decorazioni e il delfino della fontana del Moro, rischia di rovinare per sempre uno dei più famosi monumenti di Roma. Fortuna che i “cherubbigneri” (carabinieri) hanno sùbito acciuffato il vandalo, mostrandosi più efficienti nelle indagini delle famigerate Guardie Civiche del Papa, su cui ironizzava spesso il Belli, o i teatrali “cherrubbigneri” di allora, armati più di baffoni che di carabina, che al massimo spaventavano i gatti dei vicoli. Ma per i monumenti, è inutile intervenire “dopo” il fattaccio: in molte piazze di Roma ricche di monumenti  ci vorrebbe una prevenzione capillare: vigili o altre forze di polizia dovrebbero stazionarvi in permanenza, a scopo deterrente.

Utilizzando i pezzi dei delfini ritrovati a terra, i restauratori sono già al lavoro. E poi, fortuna nella sfortuna, pochi sanno, forse solo i tecnici e gli storici della Sovrintendenza (e perciò questa apparirà a molti una rivelazione), che i gruppi marmorei decorativi della fontana del Moro furono sostituiti nel 1874, perché molto rovinati, da copie perfette. Allora – bei tempi – esistevano ancora ottime scuole di scultori copisti. Quindi il vandalo che ha martoriato la fontana ha preso un abbaglio storico-artistico. A molti piacerà questa rivelazione, e tireranno un sospiro di sollievo, ma ad altri romani dispacerà (“Ma guarda un po’, con tutte queste imitazioni, non bastavano i cinesi: oggigiorno neanche la fontana del Moro è vera!”).

IMMAGINI. 1. La fontana del Della Porta, detta “del Moro”, col tritone al centro (scolpito dal Bernini) che regge per la coda un delfino. 2. Il mascherone della fontana mutilato dal vandalo psicopatico armato di pietra. Una volta tanto, il restauro (perfetto e invisibile) è stato completato in pochissimi giorni.

PER SAPERNE DI PIU’. Su piazza Navona, la sua storia curiosa, le sue fontane, Donna Olimpia, papa Innocenzo X, il palazzo Pamphili, il “lago” estivo, e altro ancora, si veda lo speciale articolo dedicato.

27 agosto 2011

Tasse, Governo ladro! I tempi in cui ti frugavano sotto i vestiti

Bando gabella di un quattrino per foglietta di vino Stato Pontificio A chi si lamenta delle tasse e della crisi finanziaria, e s’illude che sia esistita una qualche felice “età dell’oro” senza tasse, con Governi ricchi, onesti e illuminati, e dai bilanci in pareggio, bisogna proprio far leggere i sonetti del Belli sulle “gabelle” (tasse sui consumi di merci e scambi) e sulle finanze dissestate dello Stato Pontificio. Ma anche qualche saggio di storici dell’economia sembra voler dire agli scontenti di oggi, fatti i debiti confronti: “Macché, piuttosto ringraziate Iddio!”

A proposito, non c’era cosa più odiosa, dice il Belli, che vedersi rubare i soldi in nome di Dio, come facevano alcuni preti intraprendenti (La penale, 1832):

Li preti, ggià sse sa, ffanno la caccia
a ’ggni sorte de spesce de cuadrini.
Mo er mi’ curato ha mmesso du’ carlini
de murta a cchi vvò ddí ’na parolaccia.

[I preti, si sa, vanno a caccia di quattrini con ogni pretesto. Ora il mio parroco si è inventata una multa di due carlini a chi dice una parolaccia.]

Ma le finanze del Governo Pontificio versavano in una situazione ben peggiore di quella degli altri Stati. Le cause sono note: le ruberie di funzionari, monsignori, cardinali e degli stessi Papi, la corruzione generalizzata, gli sprechi dell’amministrazione centrale e locale, le pensioni e le donazioni elargite come elemosine ai tanti raccomandati o poveri questuanti, le truffe di artigiani e impresari, ma anche le spese per mantenere il capillare apparato di controllo politico, di delazione (le spie erano numerose) e di consenso sociale in tutto lo Stato della Chiesa.

20 baiocchi argento Pio IX Ecco perché l’amministrazione pontificia, dal ministero delle finanze (la Reverenda Camera Apostolica), fino all’ultimo camerlengo di paese (una sorta di segretario comunale addetto alle finanze e ai conti), trovavano più conveniente spillare soldi ai più poveri con gabelle sui generi di prima necessità che, almeno, assicuravano un largo e sicuro gettito.

Fatto sta che lo Stato della Chiesa era sempre in deficit, tanto che la Repubblica Romana napoleonica che ne ereditò per poco le finanze (1798-1799) fu costretta ad emettere anche a Roma gli assegnati francesi o “cedole”. Una carta moneta tendente a deprezzarsi, pezzi di carta buoni per soffiarsi il naso, ironizza il conservatore Belli in un sonetto “preventivo”, cioè nel timore che per i traumi politici e finanziari del 1831 anche Papa Gregorio XVI volesse reintrodurla nello Stato Pontificio:

CIAMANCHEREBBE QUEST’ANTRA
Semo fritti, o rreggina: er zor Grigorio
vò arimette le scedole de carta:
eppoi nun lo mannate a ffasse squarta
co ttutto er zu’ piviale e ’r fardistorio!
Si ha bbisoggno de noi, pisscia risorio
e cce fa ttutti cavajjer de Marta;
ma un po’ c’aridà ssú, vviè e cciaribbarta
pe ffijji de Pasquino e de Marforio.
Eh a sta maggnèra cqui ttutti sò bboni
a ppagà cchi ha d’avé, ssenza ch’aspetti:
che bbella forza de li mi’ cojjoni!
Una risma de carta a scaccoletti,
e ecco le mijjara e li mijjoni
pe sserví da quadrini e ffazzoletti.
16 ottobre 1833

Versione. Ci mancherebbe anche questa! Siamo spacciati, o regina [il Belli rifà il verso al “Siam traditi, o Regina” dell’opera “Didone abbandonata” del Metastasio, come fa notare il Vigolo che era anche grande musicologo], il signor Gregorio [papa Gregorio XVI] vuole rimettere in circolazione le cedole di cartamoneta: e poi non lo mandate a farsi squartare con tutto il suo piviale e il faldistorio? Se ha bisogno di noi, piscia rosolio e ci fa tutti cavalieri di Malta; ma per poco che si riprenda, viene e ci rinnega come figli di Pasquino e di Marforio [note statue di personaggi irriverenti]. Eh, a questo modo tutti sono buoni a pagare i creditori, senza che aspettino: che bella forza dei miei coglioni! Una risma di carta tagliata a quadratini, ed ecco le migliaia e i milioni per fare da quattrini e fazzoletti [per pulirsi il naso].

Certificato Rendita Debito Pubblico Stato Pontificio 1829Tutto si risolse, invece, col solito prestito su prestito che rimandava alle calende greche la restituzione del debito pubblico. Soldi e interessi altissimi, oltretutto, buttati in un vuoto assistenzialismo – nota D.Felisini (Le finanze pontificie e i Rothschild, ESI 1991) – senza nessun investimento o tentativo di modernizzare lo Stato stimolando la nascita di una moderna borghesia, come si faceva al Nord. Anzi, le poche fabbriche erano al livello del Medioevo, povere di macchine, e per lo più arcaiche, e ricche di manodopera a bassissima produttività.
Fatto sta che nel 1870 il Tesoro della Chiesa – rivela Felisini – stava proprio per andare in “default”, si direbbe oggi, cioè sull’orlo della dichiarazione d’insolvenza, o impossibilità di restituire il Debito Pubblico ai sottoscrittori, se i bersaglieri e l’Italia liberale non avessero “per fortuna” anche della Chiesa conquistato Roma il 20 settembre, togliendo ad un papa così ottuso e testardo come Pio IX le castagne dal fuoco. Ma oggi, per le nuove crisi finanziarie, non possiamo più sperare nei bersaglieri, conclude con ironia D.Velo (Sole 24 Ore, 8 dic.1991) presentando il saggio.

E’ poi davvero curioso che i papi, che umiliavano gli ebrei richiudendoli nel ghetto, vietando loro studi e professioni, e condannandoli a fare gli stracciaroli, poi dovevano ricorrere ai prestiti della banca parigina dell’ebreo Rothschild (cfr. il sonetto Er Giubbileo III, del 1832, col solito tono anti-giudaico). Nèmesi dell’economia!

Eppure, lo Stato Pontificio non mancava di ingegni: sarebbe bastato ascoltarli. Fu proprio un suddito del Papa, il liberale bolognese Marco Minghetti, a portare le finanze del nuovo Regno d’Italia al bel traguardo del pareggio del bilancio (1875), grazie ai tagli delle spese statali inutili e ad una politica di severa tassazione, compresa l’impopolare “tassa sul macinato”. In precedenza, nel 1847, illudendosi sulla personalità di Pio IX, Minghetti aveva accettato la carica di ministro laico dei Lavori Pubblici nella Consulta romana, lasciandola però quando si accorse che a contare in realtà era solo la reazionaria componente ecclesiastica, contraria anche alle timide aperture papali.

Così, Porta Pia salvò il Papato tre volte: ridandogli un minimo di quella credibilità religiosa e morale persa col potere temporale (cfr. famosa dichiarazione di Paolo VI papa Montini), scaricando l’enorme disavanzo pontificio, compreso i buoni del Tesoro, sul nuovo Regno dell’Italia unita, e infine giù, giù, “per li rami” della Storia, donandogli sulla carta oltre 3 milioni di lire (13 milioni di euro al 2009) con la legge, non accettata, delle Guarentigie del 1871, e poi gli accettatissimi milioni e poi miliardi con i Concordati concessi per cinico calcolo politico dai due socialisti e atei Mussolini e Craxi. Che fortuna, nella sfortuna! Basti pensare che di solo “8 per mille”, una tassa abusiva esistente solo in Italia, pagata anche dai non cattolici e da chi non vuole destinare proprio nulla alla Chiesa, la Chiesa cattolica oggi riceve dallo Stato italiano, cioè dai cittadini, circa 1 miliardo di euro all’anno (2010). Diciamo la verità: a qualunque staterello sarebbe piaciuto “perdere” così la guerricciola simbolica del 20 settembre 1870!

Assegnato Repubblica Romana paoli 10Ma torniamo alle tasse. Ai tempi del Papa-re gravavano sui beni di lusso (cavalli, botteghe, carrozze, case, terreni ecc) o che si volevano moralisticamente scoraggiare (sigari, carte da gioco, calendari da barbieria, riviste straniere ecc), ma soprattutto sui beni di prima necessità, più importanti nel bilancio della povera gente che se le ritrovava comprese nel prezzo (grano, farina, pane, vino, olio, sale, carni conservate ecc), perché davano un gettito totale più alto. Così le tasse le pagavano soprattutto i poveri, lamenta un Belli travestito da moderno sindacalista:

LE GABBELLE
Ah, ddunque, perché nnoi nun negozziamo
e nnun avémo manco un vaso ar zole,
lei vorebbe cunchiude in du’ parole
che le gabbelle noi nu le pagamo?
Le pagamo sur pane che mmaggnamo,
sur panno de le nostre camisciole,
sur vino che bbevémo, su le sòle
de le scarpe, e sull’ojjo che llogramo.
Le pagamo, per dio, su la piggione,
sur letto da sdrajacce, e su li stijji
che ssèrveno a la nostra professione.
Le pagamo (e sta vergna è la ppiú ddura)
pe ppijjà mmojje e bbattezzà li fijji
e pper èsse bbuttati in zepportura.
5 aprile 1836

Versione. Le tasse. Ah, dunque, perché noi non facciamo contratti e non abbiamo neanche un vaso al sole, lei vorrebbe concludere in due parole che le gabelle noi non le paghiamo? Le paghiamo sul pane che mangiamo, sul panno delle nostre camicie, sul vino che beviamo, sulle suole delle scarpe e sull’olio che consumiamo. Le paghiamo, per Dio, sulla pigione, sul letto sul quale ci sdraiamo, e sugli stigli (mobili e arredi) che servino alla nostra professione. Le paghiamo (e questa iattura è la piú dura) per prendere moglie e battezzare i figli e per essere gettati in sepoltura.

Tasse indirette, quindi, non esistendo allora la dichiarazione personale dei redditi (introdotta in Italia solo nel 1974), che finanziavano gli stipendi degli impiegati statali, i servizi, le opere pubbliche, ma anche le spese pazze, le ruberie, e per fortuna anche le bellissime opere d’arte commissionate dalla Casta politica pontificia. Per esempio, la fontana dei Fiumi, inaugurata nel 1651 in piazza Navona, era stata finanziata con nuove imposte sui proprietari delle case prospicienti e con impopolarissime nuove tasse su pane, vino e altri generi alimentari, che colpirono la povera gente.

Editto gabella di un quattrino per libbra di carne Stato PontificioMa non era finito: essendo vietata la libera circolazione delle merci, su una grande quantità di beni, alimentari e no, gravavano i dazi, somme che una speciale polizia esigeva all’ingresso delle città a chiunque passava, fosse pure in carrozza. Quasi sempre bauli e valigie venivano aperti e spesso le persone perquisite. I dazi, dunque, non corrispondevano alle Dogane, ma erano anche interni ad uno stesso Stato e perfino alla stessa provincia. Tutte le città italiane hanno ancora le caratteristiche pedane a bilancia

Narrano i cronisti dell’epoca che nell’800 pre-liberale viaggiando o spedendo merci da Roma a Milano bisognava sottostare ad oltre una ventina di stazioni di dazio. Era dinque una pessima idea portare in regalo un salame ai parenti abitanti in una città lontana: con quello che avreste speso in dazi plurimi, i parenti avrebbero potuto acquistare magari cinque salami locali. E al dazio i dazieri si permettevano di mettere le mani addosso, frugando tra le vesti anche delle donne, con la scusa di cercare un salame di sanguinaccio. A proposito, qui il dazio col daziere ladro che si impossessa del salume senza stendere verbale, simbolo perfetto della corrotta Roma papalina, era sulla via Nomentana, proprio davanti a quella Porta Pia che avrebbe ridato libertà e dignità a Roma:

LA GABBELLA DE CUNZUMO
Fu inzomma che ar partí da Stazzanello
la sora Pasqua la commare mia
me diede un zanguinaccio, e Nnastasia
se lo vòrze agguattà ssotto ar guarnello.
Ce ne venímio1 bberbello bberbello,
quanno propio a l’entrà de Porta Pia,
fussi caso o cc’avessimo la spia,
ce vedemo affermà dda un cacarello.
Lui, visto er bozzo, schiaffò ssotto un braccio
e ll’aggnéde a ttastà ddove capite
co la scusa de prenne er zanguinaccio.
Come finí? ffiní sta bbuggiarata
ch’io perze tutto, e ppe nnun fà una lite
me portai via mi’ fijja sdoganata.
1° dicembre 1834

Versione. La gabella sul consumo. Accadde insomma che al partire da Stazzanello [località nei pressi di Palombara Sabina] la signora Pasqua, mia madrina, mi regalò un sanguinaccio [salume di sangue di maiale], e Anastasia volle nasconderselo sotto il guarnello [semplice abito-grembiule bianco da lavoro o da casa tipico delle popolane, v. immagine]. Ce ne andavamo bel belli [sulla via Nomentana] quando proprio all’entrata di Porta Pia, che fosse il caso o colpa d’una spia, ci vediamo fermare da un ometto. Lui, visto il rigonfiamento, infilò sotto il braccio e andò a tastare dove potete immaginare, con la scusa di prendere il sanguinaccio. Come finí? Finì questa buggeratura che io persi tutto, e per non fare una lite mi portai via mia figlia sdoganata [doppio senso umoristico: sta anche per “sverginata”].

E, con la corruzione che c’era, spinti dalle tasse esose, sai quanti preferivano far scivolare qualche moneta nelle tasche del daziere, per passare di contrabbando, nonostante le gabelle sulle stoffe e le lane, l’intero guardaroba di “Giuseppe ebreo”, che più che un famoso ricco mercante di abiti, sembra un personaggio proverbiale messo lì solo per fare rima:

ER FRUTTO DE LE GABBELLE GROSSE
Capite voi? Pe ccressce la gabbella
fanno cressce li fraudi e ’r contrabbanno.
Capite voi che ppo’ de bbagattella
tre scudi a ccanna de laumento ar panno?
È un affare de venti in ventun anno
ch’io sò ccapo-facchino in doganella;
e ’r fatto sta, ccapite voi?, che cquanno
cressce un dazzio, oggni ggiorno una quarella.
Dico pe cquello che sse scopre: eppoi
sc’è ttutto quanto er resto che ddich’io,
ch’è ccento vorte ppiú: capite voi?
Tre o cquattro piastre in faccia a un proposèo,
e vve fanno passà mmagaraddio
tutti li panni de Ggiusepp’ebbreo.
6 settembre 1835

Versione. Il frutto delle gabelle grosse. Capite? Per aumentare la tassa fanno aumentare le frodi e il contrabbando. Capite che bagattella siano 3 scudi a canna [unità di misura dei tessili pari a m.2,23] di aumento sul panno? È dall’epoca dei miei 20-21 anni che io sono capo-facchino alla Doganella [prob. l’ufficio doganale di porto di Ripetta]; e il fatto è – capìte? – che quando aumenta un dazio, ogni giorno c’è una denuncia. Dico solo per quello che si scopre; e poi c’è tutto il resto, che è cento volte di più, capite? [Voi date] tre o quattro monete in faccia a un soldato di dogana, e vi fanno passare magari tutti i panni di Giuseppe ebreo.

Dazio pontificio sulla lanaSul vino, a parte che si era reso necessario, vista la disonestà diffusa degli osti, creare appositamente la misura standard in vetro trasparente, la mitica foglietta con la linea del bordo obbligatorio (fojetta), poi comunque vanificata dal trucco dell’aggiunta di acqua già nei barili, gravava un’altra odiosa gabella, argomento di malcontento e ironia nelle osterie degli sfaccendati, che il Belli affronta però in modo laterale e imprevedibile facendo straparlare a ruota libera un popolano davanti alla sua fojetta, un po’ come certi discorsi che oggi ascoltiamo al bar:

LA GABBELLA DER VINO
L’entrata c’hanno messo a le cupelle
ve lo dich’io ch’edè: ttutto un ripicco
der Tesoriere, perché nun c’è er micco
che jje dà aggratis da rempí la pelle.
Ma ssi sto grillo in testa io me lo ficco,
lui da mé nun ce pijja bbaiocchelle:
ché a la fine er Governo è ttanto ricco
da fregasse de tutte le gabbelle.
Se sa, vvanno a pportà ste grazzianate
a li piedi der Papa, e ’r Papa appizza,
perché li strozzi nun zò mmai sassate.
Er Papa è un cane avanti de ’na pizza:
si sse la maggna, con chi la pijjate?
O ccor cane, o cco cquello che l’attizza.
24 dicembre 1832

Versione. La tassa sul vino. Il dazio di entrata che hanno messo a le coppelle [misura del vino, frazione del barile di legno] ve lo dico io che cosa è: è tutta una vendetta del ministro delle Finanze, perché non c’è lo stupido che gli dà qualcosa gratis tanto da riempirsi la pancia. Ma se mi ficco questo grillo in testa, lui da me nun prende più un baiocco, perché in fin dei conti il Governo è tanto ricco da poter fare a meno di tutte le gabelle. Si sa, vanno a portare ai piedi del Papa questi gesti per ingraziarselo, e il Papa accetta, perché gli strozzi [denaro per corrompere] non sono mai sassate. Il Papa è come un cane davanti ad una pizza: se se la mangia, con chi ve la prendete? O col cane o con chi lo provoca.

Un prosciutto paga ben 3 giuli di dazio? Non è meglio, allora, dice il popolano belliano, che il ministero delle Finanze, cioè la Reverenda Camera Apostolica, si mangi tutto il grasso? Ma in tal caso sarebbe stata una… Camera Dietetica. Perché il grasso, a quei tempi, a differenza di oggi, era non solo considerata parte prelibata, ma anche completamente calorico essenziale in una dieta popolare spesso poverissima e carente. Insomma, la “Reverenda Cammera Apoplettica” [gioco di parole satirico per Apostolica] non può andare avanti un’altra settimana. Fa troppi angherie: è troppo prepotente e poco cristiana:

LA GABBELLA DE LA CARNE SALATA
Cqua er Governo nun vò mmette ggiudizzio,
perché de noi nun je ne preme un’acca.
Cqua er male nostro nun è mmal de bbiacca,
e sse va de galoppo ar priscipizzio.
Un vizzio suo è cche ar pijjà ss’attacca
a li ferri infocati: e un antro vizzio,
che fforzi fa ppiú ppeggio preggiudizzio,
è cche nun paga, o vvò ppagà a la stracca.
Un presciutto tre ggiuli de dogana!
E nun era un’idea meno bbisbetica
de maggnasse la grasscia sana sana?
La Reverenna Cammera Apopretica
nun pò annà avanti un’antra sittimana.
Fa ttroppe tirannezze: è ttroppa eretica.
18 gennaio 1835

Guarnello, semplice veste popolare da lavoro o da casa Roma 800Versione. La gabella della carne salata. Qua il Governo non vuole mettere giudizio, perché di noi non gli preme affatto. Qua la nostra malattia non è il mal di biacca [saturnismo da idrossido di piombo, colorante bianco] e si va di galoppo al precipizio. Un vizio suo è che in quanto al prendere si attacca ai ferri infuocati [cioè vuole prendere subito], mentre il secondo vizio è che in quanto al pagare fa peggior danno nel non pagare o nel pagare tardi.

In tempi di deficit di bilancio e crisi economica, per colpa anche allora della Casta dei privilegiati, in quel caso di cardinali e monsignori (“settaccia indegna”, brutta setta indegna, nel sonetto Lo stato dello Stato), il Papa è costretto a inventarsi i più diversi rimedi: leggi, aperture e chiusure di imprese, appalti, affidamenti, privatizzazioni e “cartolarizzazioni”, diremmo oggi. Ma non funziona:

LO STATO DE LO STATO
È vvero che nnoi semo sderelitti,
ma ccosa ha dda fà er Papa co sta freggna
de debbiti, de smosse e dde delitti
tutto pe vvia de sta settaccia indeggna?
Dico, cos’ha da fà? Pprova, s’ingeggna,
va ttra una goccia e ll’antra, attacca editti,
opre e sserra bbottega, impeggna e speggna,
s’ajjuta co l’apparti e cco l’affitti.
Però, ppe quanto dichi e cquanto facci,
pe cquanto s’arranchelli a ddà la leva,
la pietra nun ze move, e ssò affaracci.
Ah! ddisse bbene un omo che ddisceva
c’oggi l’editti cqua ssò ttutti stracci
che un Papa mette e un stracciarolo leva.
28 dicembre 1832

Versione. Lo stato dello Stato. È vero che noi siamo prostrati, ma che cosa deve fare il Papa con questo flagello di debiti, commozioni e crimini, tutto per colpa di questa setta indeggna? Dico, che cosa deve fare? Prova, s’ingegna, affronta la pioggia senza riparo, affigge editti, apre e chiude imprese, impegna e riscatta, si aiuta con gli appalti e gli affitti. Però, per quanto dica e faccia, per quanto si sforzi sulla leva, la pietra non si smuove, e sono problemi gravi. Ah! disse bene un uomo che sosteneva che oggi le leggi qui sono tutte stracci [senza valore] che un Papa mette e uno stracciarolo leva.

Bando pontificio per la gabella sui cavalli Perciò, si ricorre alla riduzione degli stipendi degli impiegati dello Stato, anche i subalterni, misura iniqua tipica delle dittature, infatti fu replicata solo dal Fascismo. E si ricorreva anche al “teatrino della politica”, cioè alla comunicazione manipolata, al far vedere, dando in pasto all’opinione pubblica, allora più sprovveduta e ingenua, i gesti simbolici virtuosi degli Alti Gradi. Proprio come oggi? No, anzi, come veniva ordinato di fare ai gerarchi fascisti. Infatti, scrive in nota lo stesso Belli: “Nell’Ordine Circolare, dato il 20 dicembre 1832 sotto il N.30571 dalla Segreteria di Stato a tutti i Capi-di-ufficio, onde avvertissero i loro impiegati subalterni della diminuzione degli stipendi, era espresso che l’alto Clero era spontaneamente andato ad offerire i suoi emolumenti ed averi pei pubblici bisogni”. Così, cardinali e monsignori avidi fanno mostra di apparire all’improvviso economi e virtuosi agli occhi del Papa e dei sudditi che li criticano. Così, è tutta una corsa a dirsi disposti a privarsi di qualche bene o a promettere di donare qualche possedimento alle finanze dello Stato. Non sappiamo poi, quanti di quei “risparmi” abbiano avuto davvero corso, ma che fosse una “favola” per i gonzi il Belli lo dice nel titolo del sonetto e poi nell’accenno satirico al giornale ufficiale equiparato agli oroscopi:

PARE UNA FAVOLA!
Appena er Papa disse chiaramente
che, ssenza arimedià ssubbito ar male,
la Santa-Sede annava a lo spedale,
cuanno nun je pijjassi un accidente;
de posta oggni prelato e ccardinale,
oggni patrasso e oggnantra bbona ggente,
cùrzeno tutti cuanti istessamente
co la lingua de fora ar Qui-orinale.
E ttutti, incomincianno dar Vicario,
disseno ar Papa: «Io do la mi’ abbazzia
pe rriempicce er vòto de l’orario».
Cuest’è una storia che nnun è bbuscía.
Sor Indovinagrillo der Diario,
dite la vostra, c’ho ddetto la mia.
28 dicembre 1832

Versione. Sembra una favola! Appena il Papa disse chiaramente che se non si fosse posto rimedio subito al male [il debito di Stato] la Santa Sede sarebbe andata all’ospedale, se non fosse addirittura morta [non avesse dichiarato bancarotta], di corsa ogni prelato, cardinale, ogni padre graduato e ogni altra buona gente, si precipitarono tutti quanti con la lingua di fuori al Quirinale [residenza del Papa]. E tutti, cominciando dal Vicario, dissero al Papa: “Io do la mia abbazia per riempire il vuoto dell’erario”. Questa è una storia vera, signor Indovinala-grillo del “Diario” [gazzetta ufficiale di Roma], dite la vostra che ho detto la mia [cioè, fine della favola].

Ma allora, tanto vale fare come i musulmani, visto che a questo Governo ormai gli manca solo il nome di turco, dice un francese di Roma che ha viaggiato: pagare con una apposita tassa addirittura il prolungamento della propria vita, ogni sei mesi. Nella speranza che l’attuale ministro delle Finanze non ami il Belli, e quindi non ci legga: non vorremmo dargli un’idea:

LE GABBELLE DE LI TURCHI
Un tar munzú Ccacò, cch’è un omo pratico
e Ddio solo lo sa cquanti n’ha spesi
pe vviaggià ddrent’ar reggno musurmatico
dove nun ce commanneno Francesi,
ricconta che in sti bbarberi paesi
’ggni sei mesi sc’è un uso sbuggenzatico
che sse paga sei mesi de testatico
pe pprologà la vita antri sei mesi.
Dunque disce er Francese che ssiccome
ar Governo der Papa indeggnamente
nun j’amanca de turco antro ch’er nome,
c’è ggran speranza che jje vienghi in testa
de mette sopra er fiato de la ggente
’na gabbella turchina uguale a cquesta.
19 novembre 1836

Versione. Le gabelle dei Turchi. Un certo monsieur Cacò [il Belli e i romani non possono soffrire i francesi, e quando possono li ridicolizzano], che è un uomo pratico e Dio solo sa quanti anni ha speso per viaggiare nel mondo musulmano, dove non comandano i francesi, racconta che in quei barbari paesi ogni sei mesi c’è un uso burgensatico [termine legale tedesco medioevale: in orig. diritto di proprietà borghese, qui suona come sproloquio] per cui si pagano sei mesi di imposta pubblica per prolungare la vita di altri sei mesi. Dunque, dice il Francese, poiché al Governo del Papa, indegnamente [intercalare di modestia, qui caricaturale], non gli manca di turco altro che il nome, si spera che gli venga in mente di mettere sulla testa della gente una gabella turca uguale a questa.

IMMAGINI. 1. Bando pontificio di tassa di un quattrino per “foglietta” (fojetta) di vino. 2. Moneta di 20 baiocchi di Pio IX (1860). 3.Certificato nominativo di Debito Pubblico dello Stato Pontificio (1829). 4. Boiglietto “assegnato” da paoli 10 della Repubblica Romana napoleonica del 1798-99, precursore dei biglietti di banca che tanto preoccupavano Belli e i romani. 5. Editto pontificio di una gabella sulla carne. 6. Notifica del Tesoriere Generale (ministro delle Finanze del Papa) sulle tasse sui tessuti di lana. 7. Il guarnello, semplice abito da lavoro o da casa delle donne del popolo. Ma per quando fosse ampio, non era facile nascondervi oggetti, come il sanguinaccio del sonetto, senza che la mano avida ed indiscreta del gabelliere delle stazioni di Dazio li raggiungesse. 8. Bando per la tassa sui cavalli.

3 luglio 2011

Confidenze delle ragazze: è vera ignoranza del sesso o malizia?

Ragazze all'altalenaLa sessualità è un aspetto importante dell’affresco dal vivo che il Belli dipinge dei popolani romani nell’ultimo secolo dello Stato della Chiesa. Ai nomi stessi (numerosi e coloriti i sinonimi romaneschi) dell’organo maschile (“Il padre de li Santi”) e dell’organo femminile (“La madre de le Sante”), il Belli dedica due separati sonetti, preziosi per la storia del lessico, che riferiscono anche nomi oggi sconosciuti. Noi, da parte nostra, abbiamo presi a pretesto quei due sonetti osé, partendo proprio da quei nomi impronunciabili in un salotto “perbene”, per ricercare nella storia della lingua italiana (e perfino nel teatro inglese elisabettiano) sia l’antichissima, strana origine, sia le alterne fortune e gli usi, addirittura presso i più insospettabili personaggi della cultura, da Machiavelli a Leopardi!

Ecco qui, intanto, un’eccezionale suite di otto sonetti (Le confidenze de le regazze), un divertissement, una sorta di gioco o scherzo in otto quadri scritto di getto con la frenesia nevrotica del rimatore seriale, il 10 dicembre 1832, giornata di furia compositiva senza pari, visto che oltre agli otto sonetti il Belli ne scrisse altri tre di argomento diverso:  dunque ben 11 sonetti in un solo giorno.

E’ il racconto, non facile da interpretare oggi, delle prime curiosità sessuali e addirittura anatomiche di due ragazze molto giovani, poco più che bambine all’inizio dell’adolescenza, che pone al lettore moderno qualche problema di comprensione, vista l’incredibile ignoranza dell’anatomia sessuale maschile manifestata da almeno una delle due ragazze.

In tempi e luoghi (l’ottusa e reazionaria Roma papalina) in cui, d’accordo, l’unica educazione delle fanciulle era il catechismo, unici maestri erano preti e suore, ma, insomma, le bambine dovevano pur giocare tra loro in casa e in strada, e in tutte le abitazioni povere – e non solo – la promiscuità era un dato costante, a cominciare dal rituale bagno una tantum (c’è chi dice mensile…) e coram populo, cioè di fronte a tutti, nella tinozza… Senza contare l’osservazione dei tanti animali.

Insomma, stavolta il Belli non può darcela a bere con tanta facilità. A meno che non si fosse imbattuto in un caso limite degno di essere riferito ai posteri, la gustosissima serie di sonetti risponde subito al dilemma solo teorico se fosse credibile davvero una simile ignoranza tra ragazzine perfino impuberi in piena città, sia pure la più arretrata, oppure se l’autore – come è altamente probabile – abbia voluto giocare sul presunto candore infantile per imbastire maliziosamente una storiella grottesca di grassa e irresistibile comicità, ad uso dei vecchi monsignori e marchesi amici dell’Accademia Tiberina, suoi ascoltatori privilegiati.

In altre parole, il gioco intrigante tra ingenuità e malizia esibizionistica c’è, eccome, ma a giocare è il Belli col lettore di ieri e di oggi, non sono le due ragazze. Un pretesto letterario geniale, il suo, anzi, un invito a nozze per la sua vena comica sempre a caccia di temi nuovi, che faceva sghignazzare l’uditorio – come ricorda il testimone Gogol – al quale l’autore recitava nei salotti con un’aria di seriosa gravità che aumentava l’effetto umoristico i sonetti prodotti giorno dopo giorno. 

Giovane italiana con melangole (K.Makovskij, dopo 1870)La facilità stessa, l’immediatezza, diremmo, con cui la più ingenua o la più bambina delle due ragazze trova subito il giovane più grande e furbo pronto a darle dimostrazione anatomica e a soddisfare immediatamente la sua curiosità sessuale, è la dimostrazione di quanto al contrario erotismo e sesso fossero quotidianamente presenti e diffusi – sarà stato per compensazione naturale della povertà e della oppressione dei preti? - nella Roma papalina poverissima dove non si produceva nulla, dove tutto era corrotto, dove soprattutto i preti pensavano solo al sesso, anzi, dove solo i migliori di loro “andavano a donne” (i peggiori preferendo il sedere dei bambini). Una città insomma in cui la vendita del proprio corpo doveva essere una scelta presa in considerazione – visti i tanti esempi che offriva la realtà del vicinato – da molte donne giovani, e neanche belle, fin dalla primissima adolescenza. Nonostante l’occhiuto controllo del parroco, il vero commissario del Buon Costume nel rione, le tante spie dislocate in ogni vicolo e le possibili denunce al monsignor Vicario.

Tutto ha inizio dal candore di Tuta (diminutivo di Geltrude), probabilmente una bambina, che si rivolge all’amica del cuore Agata, forse poco più grandicella. Della serie di otto è il sonetto I:

Aghita, senti: da un par d’anni bboni
l’ommini io ppiú li guardo e mmeno pòzzo
arrivajje a ccapì cche ssii quer bozzo
che ttiengheno tramezzo a li carzoni.
Pare, che sso... ’na provatura... er gozzo
che cciànno drent’ar petto li capponi...
o cquer coso che ppènne a li craponi...
oppuro er piommo de la molla ar pozzo...
Ma appena viè er cugnato de la sposa
a accompaggnà la sora Bbeatrisce,
propio je vojjo domannà sta cosa.
Ccusí bbon giuvenotto è cquer Felisce,
che, vvedennome a mmé ttanta curiosa,
si cquarche ccosa sc’è, llui me la disce.

Versione. Agata, senti, da più di due anni più guardo gli uomini e meno riesco a capire che cosa sia quel bozzo che hanno in mezzo ai calzoni. Pare, che so, come una scarmorza, il gozzo che hanno nel petto i capponi, o quel coso che pende ai caproni, oppure il piombo della corda al pozzo. Ma appena viene il cognato della sposa ad accompagnare la signora Beatrice, proprio gli voglio domandare questa cosa. E’ così bravo giovane quel Felice che vedendomi tanto curiosa se qualche cosa c’è lui me la dice.

La risposta del Felice, ovviamente, arriva subito, col sonetto II:

Àghita, sai? je l’ho ggià detto a cquello:
e llui s’è sbottonato li carzoni,
e mm’ha ffatto vedé ccome un budello
attaccato a ddu’ ova de piccioni.
Quer coso disce che sse chiama uscello,
oppuro cazzo, e ll’antri dua cojjoni.
Io je fesce: «E cch’edè sto ggiucarello?
E sti du’ pennolini a cche ssò bboni?».
Mo ssenti, Àghita mia, quello che rresta.
Disce: «Fa ddu’ carezze a sto pupazzo».
Io je le fesce, e cquello arzò la testa.
Perantro è un gran ber porco sto sor cazzo,
perché ppoi, strufinannome la vesta,
ce sputò ssopra, e mme sce fesce un sguazzo.

Madre con due bambini e una ragazzetta (part)Versione. Agata, sai, io l’ho già detto a quello, e lui si è sbottonato i calzoni e mi ha fatto vedere come un budello attaccato a due uova di piccioni. Quel coso dice che si chiama uccello, o cazzo, e gli altri due coglioni. E io dissi: è che cos’è questo giocarello, e questi altri pendolini a che servono? Ora senti, Agata mia, quello che resta [da dirti]. Dice: fa due carezze a questo pupazzo. Io le feci, e quello alzò la testa. Peraltro è un gran porco questo signor cazzo, perché poi strofinandomi la veste ci sputò sopra e mi ci fece uno sguazzo.

Dopo l’incidente-rivelazione Agata così risponde all’amichetta Agata (sonetto III):

Tuta, io da un pezzo lo sapevo quello
c’all’omminì je sta nne li carzoni,
pe vvia che ttra li vetri e lo sportello
li guardavo piscià pe li cantoni.
Oh, cche ppoi se chiamassi o ccazzo, o uscello;
che cciavessi attaccati sti cojjoni;
e cche sti cazzi sò ttanti porconi,
io nun potevo, Tuta mia, sapello.
Come torna Felisce, dijje, Tuta,
pe cche raggione quanno se strufina
sto cazzo o uscello su le veste, sputa.
Perch’io stanno a gguardalli la matina
piscià ar cantone, nun j’ho mmai viduta
sta sputarella, ma ’ggnisempre urina.

Versione. Tuta, io già da un pezzo sapevo quello che gli uomini hanno nei calzoni, perché tra i vetri della porta li vedevo urinare ai cantoni [delle strade]. Oh, che poi si chiamasse cazzo o uccello, che ci avesse attaccati questi coglioni, e che questi cazzi sono tanto porconi, io non potevo, Tuta mia, saperlo. Quando torna Felice, digli, Tuta, per quale ragione quando si strofina questo cazzo o uccello sulle vesti sputa. Perché io stando a guardarli la mattina pisciare al cantone, non gli mai vista questa sputarella, ma sempre orina.

Naturalmente Felice vista l’ingenuità di Tuta passa al contrattacco, come riferisce la ragazzina (sonetto IV):

Àghita, senti: jjeri ch’era festa
tornò Ffelisce, er cavajjer zerpente,
pe ddimme s’io sciavevo puramente
er gallo com’er zuo c’arza la cresta.
Io je disse de no, ma ffinarmente,
pe llevajje sti dubbi da la testa,
ridennome de lui m’arzai la vesta
pe ffà vvedé cche nun ciavevo ggnente.
«E cch’edè Ttuta? cqui cce tienghi un buscio»,
me disse lui: «viè un po’ in nell’antra stanza
ch’io co un aco che cciò tte l’aricuscio».
Poi me porta de llà ddove se pranza,
cava er zu’ bbúschero, e a ffuria de struscio
me lo ficca pe fforza in de la panza.

Versione. Agata, senti, ieri che era festa, tornò Felice, il cavalier servente, per chiedermi se avevo anch’io il gallo come il suo che alza la cresta. Io gli dissi di no, ma alla fine per levargli questi dubbi dalla testa ridendomi di lui mi alzai la veste, per far vedere che non ci avevo niente. “E che cos’è, Tuta? qui hai un buco”, mi disse lui. “Vieni un po’ nell’altra stanza che con un ago che ho te lo ricucio”. Poi mi porta si là, dove si pranza, tira fuori il suo arnese, e a furia di strusciare me lo ficca per forza nella pancia.

A questo punto l’amica vuol saperne di più e la incalza di domande (sonetto V):

«E cche ssentissi, Tuta, in ner momento
che Ffelisce te fesce quer lavore?»
«Cominciai a ssentí ttanto dolore,
che vvolevo scappà ppe lo spavento».
«Eppoi?» «M’intese come un svenimento
e inzieme a bbatte presto-presto er core».
«Bbè, ttira avanti». «Eppoi un gran brusciore».
«E allora?» «E allora er coso m’annò ddrento».
«E llui tratanto?» «Se pijjava gusto
de metteme la lingua in de la bbocca,
e ccacciamme le zinne for der busto».
«E ttu?» «E io, si mmaippiú llui me tocca,
nun vojjo ppiú ste bbrutte cose». «Eh ggiusto!».
«No, nu le vojjo ppiú». «Quanto sei ssciocca!»

Versione. «E che cosa sentisti, Tuta, nel momento che Felice ti fece quella cosa?» «Cominciai a sentire tanto dolore, che volevo scappare per lo spavento». «E poi?» «Mi prese come uno svenimento e insieme un batticuore». «Bene, và avanti». «E poi un gran bruciore». «E allora?» «E allora il coso mi andò dentro». «E lui intanto?» «Se prendeva gusto a mettermi la lingua in bocca, e a tirarmi fuori le mammelle dal busto». «E tu?» «E io, se mai più lui mi dovesse toccare, non voglio più queste brutte cose». «Eh, giusto!». «No, non le voglio più». «Quanto sei sciocca!»

Madre sculaccia figlia a lettoQuesto “Quanto sei sciocca!” detto a sorpresa in fine sonetto dalla più esperta Agata, serve al Belli per creare un ponte di suspence, di attesa, che lega il V al VI sonetto. Agata prende le distanze dall’ingenua amichetta Tuta, e infatti si farà avanti al posto suo per restare sola con Felice, allo scopo di godersi anche lei il di lui “arnese”.

Ma qui a sorpresa il Belli, ai versi 5, 6-7 e 14, fa un colpo di teatro. Con l’imprevedibile accusa di scivettola (civettuola, ragazza che si mette in mostra, disponibile) fatta da Tuta ad Agata, fa cadere il castello di carte faticosamente costruito sulla ingenuità totale, infantile, di Tuta. Che maliziosamente fa anche dell’ironia sulla battuta evasiva della “tela fina” dell’amica più esperta, addirittura la accusa di volere anche lei il “coso lungo che gli scola”, e alla fine rimette in discussione perfino il suo no al sesso. Insomma, si instaura una concorrenza tra le ragazzine. E anche la piccola Tuta, dunque, dopo il primo approccio sessuale, come Eva dopo il peccato, sembra acquisire di colpo acume psicologico e malizia. Anche lei è dunque in grado di capire che l’amica più esperta “ci sta”, è disponibile al sesso. E diventa realistica ed esplicita. Un dietro-front, però, troppo repentino e inesplicabile. Una malizia improvvisa che appare in contrasto col personaggio improbabile costruito dal Belli nei sonetti precedenti. Una sceggiatura veloce e incalzante, con svolte continue, a rischio di qualche discrepanza logica, ma con l’effetto sicuro di dare ritmo e interesse al racconto. Ecco il sonetto VI:

«Tuta, si vviè Ffelisce stammatina,
dijje che all’ora ch’io torno da scòla
guardi quanno che Mmamma sta in cantina,
e entri, c’ho da dijje una parola».
«E cche ccosa vòi dijje, scivettola?»
«Ciò da parlà dde scerta tela fina...».
«Ma ppropio propio tela, eh Aghitina?
no de quer coso longo che jje scola?»
«E ssi ffussi accusí, cche cc’è dde male
de vedé si er giuchetto de Felisce
fascènnolo co un’antra è ttal’e cquale,
o ssi ttu mme sciai fatto la cornisce?
Eppoi tu ttanto ggià cciai messo er zale,
e nnu lo vòi ppiú ffà». «Chi tte lo disce?».

Versione. Tuta, se viene Felice stamattina, digli che all’ora in cui torno dalla scuola [di sarta o cuffiaia], quando mamma sta in cantina, entri [in casa mia], perché devo dirgli una parola. “E che cosa vuoi dirgli, civettuola?” “Ho da parlare di certa tela fina…” [modo proverbiale per non rispondere e alludere a qualcosa che non si può dire]. “Ma proprio tela, eh Agatina? Non quel coso lungo che gli scola?” “E se fosse così, che c’è di male a vedere se il giochetto di Felice focandolo con un’altra è tale e quale, o se tu ci hai aggiunto del tuo? E poi tu non lo vuoi fare più, ci hai già messo sopra il sale [modo di dire antichissimo: i Romani sparsero sale sulle rovine di Cartagine, perché mai più risorgesse]. “Chi te lo dice?”

Ma per le due ragazze ecco un’amara sorpresa. Quel lavorio (er zugna’) del furbo Felice su di loro ha prodotto su entrambe conseguenze gravi: la perdita delle mestruazioni, segno evidente che sono incinte. Prima parla Tuta (sonetto VII):

Aghita mia, e cche vorà ddí adesso
ch’è ggià er ziconno e mmommò er terzo mese
che nun vedo ppiú ssegno de marchese?
Aghita, di’, che mme sarà ssuccesso?
Oggnuna de l’amiche che cciò intese
disce: «Vierà sta sittimana appresso»:
ma er pannuccio io però nun l’ho ppiú mmesso;
e lloro stanno a ride a le mi’ spese.
Ch’edè?! ttu ppuro nun t’è ppiú vvienuto?!
Da cuanno, Aghita?, di’... Ppropio è un veleno
duncue er zugnà dde quer baron futtuto!
Oh cche llusce de Ddio! Mo l’ho ccapito
quer lavore ch’edè: ggnente de meno
che cquello che ppò ffa mmojje e mmarito!

Versione. Agata mia, e ora che vorrà dire che è già il secondo e quasi il terzo mese che non vedo più segno di mestruazioni? Agata, dì, che mi sarà successo? Ogni amica a cui l’ho detto dice: “Verrà la settimana prossima”, ma il panno io non l’ho più messo, e loro ridono a mie spese. Che cos’è?! Neanche a te sono più venute? Da quando, Agata, dì… e’ proprio un veleno dunque il lavorio di quel baron fottuto! Oh luce di Dio! Ora capisco che cos’è: niente di meno quello che fanno moglie e marito!

Anche Agata è nei guai, e così risponde all’amica (sonetto VIII, l’ultimo):

Tuta mia cara, come Mamma ha vvisto
ch’io nun davo ppiú ppanni cor rossetto,
m’è vvienuta a gguardà ddrento in ner letto,
m’ha ddetto vacca, e ppoi m’ha ddato un pisto.
Sia tutto pe l’amor de Ggesucristo:
ha vvorzuto accusí Ddio bbenedetto.
Tutti guadagni de quer ber giuchetto
che cc’è vvienuto a ffà vvedé cquer tristo.
Tratanto io sto accusí: vvommito e ttosso;
sino er pane, ch’è ppane, nu lo tocco,
e ppe la vita nun ciò ssano un osso.
Mamma spaccia ch’è stato lo scirocco
che ha ffatto diventamme er corpo grosso;
ma ppoi me manna a vvilleggià a Ssan Rocco.

Versione. Tuta mia cara, appena mamma ha visto che non davo più panni sporchi di rosso, è venuta a guardarmi sotto le lenzuola, m’ha detto “vacca!” e poi mi ha pestata di percosse. Sia tutto per l’amore di Geù Cristo: ha voluto così Dio benedetto. Tutte conseguenze di quel bel giochetto che ci è venuto a far vedere quel tristo. Intanto io sto così: vomito e tossisco; e perfino il pane, che è il pane, non lo tocco, e dappertutto semto le ossa doloranti. Mamma va dicendo in giro ch’è stato lo scirocco a farmi ingrossare; ma poi mi manderà a villeggiare a San Rocco [“l’ospizio – nota il Belli – dove si ricoverano le donne che vogliono sgravarsi segretamente”].

Così si concludono gli otto sonetti. Con la doppia morale cattolica, severissima in teoria (le percosse della madre alla figlia sono come la sfuriata di prammatica d’un predicatore dal pulpito), proprio perché poi sarà di manica larga nella pratica (il perdono della madre come quello del confessore). La mamma, come la Chiesa, è attentissima a evitare lo scandalo, tentando di nascondere la gravidanza ai vicini.

E una ragazza-madre – ulteriore contraddizione, tipica del costume dell’epoca, e della stessa Chiesa romana – nessun parroco l’avrebbe accolta alla Messa. Eppure, suore e medici cattolici la accoglievano, eccome, e su raccomandazione dello stesso parroco, nell’apposito ospizio di S.Rocco – tenuto da suore e preti – che nascondeva, appunto, la madre non sposata, perciò “peccatrice”, agli occhi del mondo, e la faceva comodamente “sgravare”. Roba da far impazzire un protestante!

A questo si aggiunga la discriminazione contro la donna, tipica dei tempi, per cui per il medesimo atto, la ragazza è colpevole, anzi è una puttana (“vacca”, dice la madre), mentre l’uomo non è neanche nominato, ricercato o tantomeno punito. A meno che la giovane popolana “sedotta” non sia così coraggiosa da denunciare al parroco il “seduttore”, affrontando possibili ritorsioni della famiglia del giovane e la sgradita notorietà nel rione. L’uomo, in tal caso, sarebbe costretto, purché non nobile, a sposarla.

Una filosofia di vita pessimistica e anti-edonistica, tipicamente cattolica, incombe sulla conclusione di questo racconto, nato come divertimento e finito nel dramma familiare: il binomio sesso e punizione, che è una riduzione alla romana di Eros e Thanatos, magnificamente interpretato dal Belli, di cui è ben nota l’ambivalenza psicologica e culturale. «Uomini, e soprattutto donne – sembra voler dire la “morale della favola” – non peccate, non abbandonatevi al piacere, perché questo è inevitabilmente legato alla sua naturale punizione: il dolore». Che in questo caso è anche la malattia, i fastidi, le busse, la derisione delle amiche, la delusione, la predica, la vergogna. Insomma, una sorta di legge sadica del contrappasso – sembra volerci dire il grande moralissimo Immoralista – che ci portiamo dietro dal cosiddetto giardino dell’Eden.

IMMAGINI. 1. Ragazze popolane romane dell’Ottocento sull’altalena (“canofiena”). Part. da B.Pinelli. 2. Giovane italiana con melangole (K.Makovskij). 3. Madre popolana con tre figli: al centro la ragazza adolescente, la più grande (part. da B.Pinelli). 4. Madre che alza le coltri e sculaccia la figlia colpevole. Una scena classica in altri tempi.

AGGIORNATO IL 15 GIUGNO 2021

21 giugno 2011

Conquista il mondo la bellezza della donna. Ma quanto dura?

Donna, elaboraz. da Bathsheba di W.Drost Me so ffatto, compare, una regazza
bianca e roscia, chiapputa e bbadialona,
co ’na faccia de matta bbuggiarona,
e ddu’ brocche, pe ddio, che cce se sguazza.

Versione. Ho preso per amante, compare, una ragazza bianca e rossa, chiapputa e prosperosa, con una faccia da matta  malandrina, e due poppe, per Dio, che ci si perde.

Tutti i poeti, da che mondo è mondo, hanno cantato la bellezza, e il Belli non si sottrae al tema. In uno dei suoi primissimi sonetti romaneschi, A ccompar Dimenico [Domenico Biagini, amico del poeta], del 14 febbraio 1830, la bellezza di una ragazza viene sintetizzata in modo brutale ma essenziale: petto, “chiappe” e faccia da malandrina. Anche se in un romanesco un po' acerbo, il sonetto introduce  due  termini pittoreschi: "badialona" da badiale, attinente a badia, abbazia, un tempo con grandi proprieta' terriere, perciò donna opulenta, prosperosa.

E "buggiarona"? Questo termine non è facile da spiegare, perché è usato in mille significati, sia dal Belli, sia da altri autori italiani dell’Ottocento. Ancora oggi si dice: è una buggeratura, l'ho buggerato, nel senso di un imbroglio. Ma i dizionari storici ed etimologici, e il Belli stesso in un altro sonetto, rivelano una complessa radice semantica. “Buggerare” era in origine l’atto carnale del sodomita attivo, per cui venivano accusati dalla Chiesa nel Medioevo certi eretici bulgari, grandi e grossi (infatti, da bulgaroni deriva buggeroni, detto anche di cose o persone grosse). E proprio i preti di Roma, inclini fin da allora alla pedofilia, accusavano i preti e fedeli dissidenti di essere pederasti? Senti chi parla! Ad ogni modo, che l’etimologia sia questa lo provano decine di altri dialetti italiani e lingue straniere. Per cui l’esclamazione molto volgare (in un altro sonetto), "e buggerà Santaccia", nota prostituta romana (come dire “in culo a Santaccia”), era nel romanesco dell’Ottocento un modo proverbiale, un intercalare ricorrente. Ma qui, riferito ad una donna, un termine maschile per eccellenza come buggerone? Va inteso secondo noi per analogia come aggressiva, malandrina, o sessualmente attiva, “scopatrice” ecc. Chi vuole sapere di più della curiosa origine e della strana evoluzione di queste parole, trova un dotto e divertente articolo dedicato, ricco di sorprese.

Ragazza al Carnevale (part) (A.Mokrizkij)Comunque, tornando al sonetto, niente di nuovo sotto il sole, ieri come oggi i canoni della bellezza  femminile non sono poi tanto cambiati.

Ma il Belli  approfondisce il tema della bellezza in modo moderno e molto attuale quando, in un altro sonetto, chiarisce che la bellezza vale più dei quattrini, perché il denaro non può dare la bellezza ma con questa si acquista la ricchezza. E le donne lo sanno bene, come si narra nel sonetto La bbellona de Trestevere:

. . . E' superbiosa come un accidente,
più che si fussi de cristal de monte.
Gran brutto fa' co lei da pretennente!
Lei nun vo pe marito antro ch' un conte . . .

Versione.  E' superba da non dire, neanche fosse di cristallo di rocca. Gran brutto impegno farle la corte! Lei non vuole per marito altro che un conte…

Tipico delle donne belle che oggi come ieri cercano di darsi solo agli altolocati, spesso in cambio di denaro o favori, come la recente cronaca politico-rosa ci ha insegnato.
Ed ecco il primo dei sonetti intitolati

LA BBELLEZZA
Che ggran dono de Ddio ch’è la bbellezza!
Sopra de li quadrini hai da tenella:
pe vvia che la ricchezza nun dà cquella,
e cco cquella s’acquista la ricchezza.
Una cchiesa, una vacca, una zitella,
si è bbrutta nun ze guarda e sse disprezza:
e Ddio stesso, ch’è un pozzo de saviezza,
la madre che ppijjò la vorze bbella.
La bbellezza nun trova porte chiuse:
tutti je fanno l’occhi dorci; e ttutti
vedeno er torto in lei doppo le scuse.
Guardàmo li gattini, amico caro.
Li ppiú bbelli s’alleveno: e li bbrutti?
E li poveri bbrutti ar monnezzaro.
20 ottobre 1834

Italiana con fiori (part.,P.Orlov 1812-1865)Versione. Che gran dono di Dio è la bellezza! Devi considerarla più importante del denaro: perché la ricchezza non dà la bellezza, ma con la bellezza si acquista la ricchezza. Una chiesa, una vacca, una ragazza, se è brutta non si guarda e si disprezza: e Dio stesso che è un pozzo di saggezza, la madre che si scelse la volle bella. La bellezza non trova porte chiuse, tutti le fanno gli occhi dolci; ma tutti vedono in lei il torto dopo le scuse. Guardiamo i gattini, amico caro. I più belli si allevano: e i brutti?  I poveri brutti nell’immondezzaio.

E’ uno dei celebrati sonetti del Belli. Inno alla bellezza che si chiude con la solita sorpresa, un po' brutale, ma velata di commiserazione per i poveri brutti gattini, condannati dal loro aspetto. Una specie di soluzione finale un po' hitleriana nei confronti di chi non fa parte della razza eletta dei belli. Ci ricorda anche qualche episodio del film "Siamo uomini o caporali?", quando Totò, povero e brutto, si presenta per fare teatro, con la sua bella partner, agli americani liberatori nel 1945, e viene ripetutamente rifiutato, maltrattato e quasi cacciato dal "caporale" di turno,  che invece fa gli occhi dolci alla bellona che ottiene immantinente la scrittura.

Non può mancare nel Belli una serie interminabile di accostamenti tra la classe dominante dei preti e la bellezza delle donne. Uno per tutti è il sonetto:

LA BBELLEZZA DE LE BBELLEZZE 
Ce ponn’èsse in ner monno donne bbelle,
ma un pezzetto de carne apprilibbato
come la serva nòva der Curato
nun ze trova, per dio, drent’a le stelle.
Nun te dico er colore de la pelle
piú ttosta assai d’un tamburro accordato:
nun te parlo de chiappe e dde senato
che tt’appicceno er foco a le bbudelle.
Quer naso solo, quela bbocca sola,
queli du’ occhi, sò rrobba, Ggiuvanni,
da fàtte restà llí ssenza parola.
Si è ttanta bella a vvédela vistita,
Cristo, cosa sarà sott’a li panni!
Bbeato er prete che sse l’è ammannita!
11 dicembre 1834

Vera trasteverina (B.Pinelli, elaboraz computer N.Valerio)Versione. Ci possono essere al mondo donne belle, ma un pezzetto di carne prelibato come la serva nuova del curato non si trova, per Dio, nel firmamento. Non ti dico il colore della pelle più soda assai di un tamburo accordato: non ti dico delle natiche e del seno, che ti accendono il fuoco alle budella. Quel naso solo, quella bocca sola, quei due occhi, sono cose, Giovanni, da farti restare senza parola. Se è tanto bella a vederla vestita, Cristo, cosa sarà sotto i panni! Beato il prete che se la gode!

Da notare che il soggetto che si pappa una tale bellezza non è un monsignore o un cardinale, ma un semplice curato, che nell’esercito della teocrazia che comandava a Roma nel regno del Papa poteva essere tutt’al più un “caporalmaggiore”, Notiamo anche che il Belli si concede, nella lode per la bellezza della serva nuova, un paio di bestemmie, tipico riempitivo entusiastico nel parlare del popolino di Roma e anche del suo contado.

Ma poi il nostro poeta, per tragico contrappasso, fa un uso antifrastico della bellezza in un altro sonetto con lo stesso titolo:

LA BBELLEZZA
Viè a vvéde le bbellezze de mi’ Nonna.
Ha ddu’ parmi de pelle sott’ar gozzo:
è sbrozzolosa come un maritozzo
e trittica ppiú ppeggio d’una fronna.
Nun tiè ppiú un dente da maggnasse un tozzo:
l’occhi l’ha pperzi in d’una bbúscia tonna,
e er naso, in ner parlà, ppovera donna,
je fa cconverzazzione cor barbozzo.
Bbracc’e ggamme sò stecche de ventajjo:
la vosce pare un zon de raganella:
le zinne, bborze da colacce er quajjo.
Bbe’, mmi’ nonna da ggiovene era bbella.
E ttu dda’ ttempo ar tempo; e ssi nun sbajjo,
sposa, diventerai peggio de quella.
2 novembre 1833

Italiana (Michail Scotti 1814-1861)Versione. Vieni a vedere le bellezze di mia nonna. Ha due palmi di pelle sotto il mento: è bernoccolosa come un maritozzo [tipico panino lievitato romano con uvetta] e tremola peggio che fosse una fronda [mossa dal vento]. Non ha più un dente per mangiare un tozzo di pane: gli occhi sono persi dentro occhiaie profonde, e il naso nel parlare gli fa  conversazione con il mento. Braccia e gambe sono stecche di ventaglio: la voce sembra quella di una ranocchia: le mammelle borse da colarci il quaglio. Ebbene, mia nonna da giovane era bella. E tu dà tempo al tempo e se non sbaglio, donna, diventerai peggio di quella.

Altro che bellezza ! Spietato commento sulla sua caducità, vedi l'articolo sul sonetto "L'eta' delle donne". Riprendiamo per analogia una quartina del sonetto Madama Lettizzia sulla decadenza del potere e della bellezza. Letizia Bonaparte era la madre di Napoleone e viveva a Roma, quasi in esilio, dopo i fasti dell'impero napoleonico, ridotta ad una specie di larva umana.

MADAMA LETTIZZIA 
. . . sta sopr'a un canape', povera vecchia,
impreciuttita lì peggio d' un osso;
e ha più carne sto gatto in d'un orecchia
che tutta quella che lei porta addosso . . .
8 settembre 1835

Versione. Sta sopra un divano, povera vecchia, rinsecchita peggio di un osso; e ha piu carne questo gatto in un'orecchio che tutta quella che lei ha addosso…

Ritratto di vecchia (elaboraz. da P.Vergine 1800-1863)Ma torniamo ai canoni della bellezza, che non sono cambiati molto dai tempi del Belli ad oggi. Allora la moda imponeva alle donne borghesi e aristocratiche, da una parte sederi finti e dall'altra stecche di balena per stringere la "guépière" e tirar sù il seno. Oggi c’è il chirurgo estetico che taglia e cuce a seconda delle esigenze.
Allora come oggi la bellezza serve alle donne per fare carriera, o meglio, un tempo la bellezza muliebre poteva servire al marito per fare carriera, mentre l'emancipazione femminile oggi consente di mercanteggiare direttamente la bellezza e la giovinezza del corpo con la carriera in politica, all'Università, in grandi aziende di Stato, dove talvolta mogli e mariti occupano in modo un po' spregiudicato le posizioni di vertice.

IMMAGINI. 1. Giovane donna (libera elaboraz da Bathsheba di Drost). 2. Giovane donna romana al Carnevale (part., A.Mokeizkij). 3. Italiana con fiori (part., P.Orlov). 4. Giudicata con gli occhi di oggi la popolana romana dell’800 forse non era propriamente una “bella donna”. Ecco lo sguardo fiero e superbo di una “vera trasteverina”, come riporta l titolo dell’incisione, probabilmente una minente con i suoi tipici orecchini vistosi o “scioccaje” (elaboraz. da B.Pinelli). 5. Per contrasto, l’ideale romantico ed elevato di bellezza toccò nell’800 le donne dell’aristocrazia e dell’alta borghesia (Michail Scotti, 1814-1861). 6. Ritratto di vecchia (elaboaz. da P.Vergine). Anche lei, come madama Letizia, è stata giovane e bella!

AGGIORNATO IL 17 FEBBRAIO 2015

 
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