16 luglio 2010

Caldo e fastidi dell’estate nella sonnolenta Roma dei Papi

L'afa, una calura infernale, il respiro che manca, il sole che s’infila dappertutto (i pochi portici li costruirono i piemontesi dopo il 1870), l’ombra che diventa all’improvviso un bene prezioso, introvabile, tranne che nei vicoli stretti dei rioni centrali, o nelle chiese. Ma anche molte chiese e conventi, oltre a botteghe e uffici, da mezzogiorno alle 3 del pomeriggio erano chiusi. L’addormentata "città-chiesa" dei Papi, dove gli unici eventi erano le processioni, le novene, le nuove indulgenze e le rappresentazioni sacre, non doveva badare molto alla produttività, tantomeno in estate.
Col caldo dell’estate Roma diventa una città morta. Il solleone dei pomeriggi di luglio e agosto spaventa Papa, Sacro Collegio, nobili, diplomatici, alti prelati, preti, frati, popolani. I primi, che possono, con la scusa del pericolo del colera o della malaria, fuggono nelle ville estive, magari ai Castelli. Ma gli ultimi, che non possono, sono rintanati in casa, a far finta di non esserci. "A piazza di Spagna, se vedi qualcuno camminare, sarà o un gatto o un francese", è l’ironico detto popolare riferito con gusto da Henry d’Ideville, nel suo Diario diplomatico romano (a cura di G.Artom, Milano 1966).
Questa era Roma all’aperto nelle giornate di piena estate. Un bellissimo inferno. E tra le fiamme della calura che si sollevavano dai "sampietrini", il silenzio regnava sovrano, rotto forse solo dal miagolio d’un gatto, dal frullar d’ali d’un piccione, e dallo zampillare delle mille fontane che allietano e rinfrescano ogni piazza o borgo, una grande ricchezza che ha sempre fatto di Roma una città unica al mondo.
Una quiete che in una città abituata a vivere fuori casa non può mai essere totale. Così, un vero fastidio sono i rumori molesti dei giovani che nei cortili, sotto un fico o nelle strade in ombra, incuranti dei divieti dei vecchi, urlano, scherzano, litigano, giocano a bocce, a ruzzica, alla morra, e tirano sassi. E che danno terribilmente ai nervi, fino a causare un’ira incontenibile, a chi vuol riposare, a tapparelle abbassate, nella "pennichella". Il sonetto seguente esprime bene l’esasperazione irosa di un tipico romano disturbato dalle grida e dai giochi rumorosi di giovinastri strafottenti sotto casa.
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A LI CAGGNAROLI SULL'ORE CALLE
Bastardelli futtuti, adess'adesso
si nun ve la sbiggnate tutti quanti,
viengo giù, ccristo, e vve n'ammollo ttanti,
tutti de peso e cco la ggionta appresso.
Che sso! mmai fussim'ommini de ggesso,
da piantà llì cco la fronnetta avanti!
Guarda che sconciature de garganti!
Fùssiv'arti accusì, ttanto è l'istesso.
È ggià da la viggilia de Sanpietro
che vve tiengo seggnati uno per uno
pe ggonfiavve de chicchere er dedietro.
Pregat'Iddio, fijjacci de nisuno,
pregat'Iddio d'arisfassciamme un vetro,
e vvedete la fin de sto riduno.

1 ottobre 1831
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Versione. A quelli che fanno chiasso nelle ore calde. Bastardelli fottuti, se non filate via tutti quanti, adesso scendo giù, per Cristo, e ve ne dò tanti [di sganassoni], di forza e con la giunta. E che! nemmeno fossi un uomo di gesso [quindi insensibile a tutto e incapace di reagire] da piantarsi fermo come una statua con tanto di foglia di fico davanti! Guarda tu che sconcio da gradassi prepotenti! Anche se voi foste alti così [cioè ragazzini] sarebbe lo stesso. E’ già dalla vigilia di San Pietro che vi ho catalogati uno per uno per farvi il sedere gonfio di botte. Pregate Dio, figliacci di nessuno, pregate Dio di rompermi di nuovo un vetro, e vedrete che fine farà la vostra combriccola.
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In un suo saggio intitolato Afa. Antologia sull’insopportabile caldo romano, Luigi Ceccarelli (celebre come romanista con lo pseudonimo di "Ceccarius") ha riunito i vari sinonimi riportati dai linguisti romani. E’ afa, ma anche bafa, callaccia o addirittura sbafa, l’aria afosa opprimente, il caldo soffocante e snervante (G.Vaccaro, Vocabolario romanesco belliano e italiano-romanesco, Roma 1969). Conviene il Chiappini, per cui callaccia è l’afa, il caldo fastidioso, la calura (Vocabolario romanesco, Roma 1992). All’afa, però, Roma ha, o meglio aveva, l’antidoto: il "ponentino". Una brezza che spira da Ponente cioè dal mare verso Roma e che si leva al calare del sole rinfrescando l’aria arroventata dei pomeriggi estivi. E’ una delle caratteristiche climatiche della città, a causa della sua posizione tra il mare e catene di colline, ma al presente il continuo dilagare di nuove costruzioni sulla costa e nei quartieri occidentali della città, sta mano a mano alterando la configurazione del terreno, ed il "ponentino" non riesce ormai più a giungere sino al centro della città (F.Ravaro Dizionario romanesco, Roma 2000).
Così desiderato è ogni genere di refolo d’aria o brezza che a Roma esiste perfino un "vicolo de’ Venti" (rione Regola, a S.Caterina della Rota). Dove, in ogni stagione e ora del giorno si dovrebbe notare sensibilissimo il soffiare dei venti (A Rufini, Dizionario etimologico-storico delle strade, piazze,borghi e vicoli della città di Roma, Roma 1847).
E Ceccarius fa bene a ricordarsi di due versi del grande Zanazzo, il più belliano degli studiosi ed eredi del Belli, tratti da una sua poesia del 16 aprile 1882 (G.Zanazzo, Poesie romanesche, a cura di G.Orioli, Roma 1968), in cui nelle segrete Camere pontificie la spossatezza domina perfino tra Li servitori in anticammera durante er Concistoro delli Cardinali:
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Che sbafa! Che callaccia! Opri le porte
armeno gioca l’aria…
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Il Belli, che era freddoloso e morì con uno scaldino in mano, dedica al caldo e all’estate due realistici sonetti, però curiosamente scritti in pieno inverno, il 7 e l’8 febbraio. E allora, tra i rigori del gelo, deve trattarsi d’una rievocazione (M.Teodonio), se non addirittura d’un acuto desiderio, tecnicamente ben servito dal sistema di appunti e varianti di "rime pronte" a cui poteva ricorrere in ogni momento dell'anno l’organizzatissimo sonettista:
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ER CALLO
Uff! che bbafa d’inferno! che callaccia!

Io nun ho arzato un deto e ggià ssò stracca:
oh cche llasseme-stà! ssento una fiacca,
che nnun zò bbona de move le bbraccia.
Sto nnott’e ggiorno co li fumi in faccia,
sudanno a ggocce peggio d’una vacca;
che inzino la camiscia me s’attacca
su la pelle. Uhm, si ddura nun ze caccia.
Ho ttempo a ffamme vento cor ventajjo,
a bbeve acqua e sguazzamme a le funtane:
è ttutto peggio, perché ppoi me squajjo.
P’er maggnà, ccrederai? campo de pane.
E nnun te dico ggnente der travajjo
de ste purce, ste mosche e ste zampane.

Roma, 7 febbraio 1833

Versione. Il caldo. Uff! Che afa d’inferno! Che calura! Non ho fatto il minimo movimento, eppure sono già stanchissima: oh, che apatia! Sento una debolezza tale che non posso neanche alzare le braccia. Notte e giorno ho le caldane sul viso, sudando a gocce peggio di una vacca, tanto che perfino la camicia mi si attacca alla pelle. Uhm, se dura questa situazione non se ne esce. Tempo sprecato a farmi vento col ventaglio, bere acqua, e sguazzare nelle fontane, è peggio, perché poi mi squaglio. In quanto al mangiare, ci crederai?, vivo di pane. E non ti dico nulla del fastidio di queste pulci, mosche e zanzare.
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In un crescendo di enfasi che ha punte drammatiche vagamente dantesche, il Belli adombra in una piccola "fine del Mondo" di stampo popolare la leggenda – suffragata anche da qualche medico – che il gran caldo estivo portasse addirittura le terribili febbri contagiose (la "mal aria", appunto) di cui Roma allora era infestata, prima delle grandi riforme dello Stato unitario, a causa degli acquitrini che la circondavano, delle condizioni di vita poco igieniche e della conseguente debolezza verso le infezioni di cui soffriva la popolazione, nella totale indifferenza della Chiesa.

L’ISTATE
’Na caliggine come in cuest’istate
nu la ricorda nemmanco mi’ nonno.
Tutt’er giorno se smania, e le nottate
beato lui chi rrequia e ppijja sonno!
L’erbe, in campaggna, pareno abbrusciate:
er fiume sta cche jje se vede er fonno:
le strade sò ffornasce spalancate;
e sse diría che vvadi a ffoco er Monno.
Nun trovi antro che ccani mascilenti
sdrajati in ’gni portone e ’ggni cortile,
co la lingua de fora da li denti.
Nun piove ppiú dda la mità dd’aprile:
nun rispireno ppiú mmanco li venti...
Ah! Iddio sce scampi dar calor frebbile!
Roma, 8 febbraio 1833

Versione. L’estate. Una caligine come in quest’estate non la ricorda neanche mio nonno. Tutto il giorno si smania, e di notte beato chi ha requie e prende sonno! Le erbe in campahna sembrano bruciate: il Tevere è così povero d’acqua che gli si vede il fondo, le strade sono fornaci spalancate, e si direbbe che vada a fuoco il Mondo. Non trovi altro che cani macilenti straiati in ogni portone e cortile, con la lingua fuori dai denti. Non piove dalla metà di aprile, non respirano più neanche i venti… Ah Iddio ci scampi dal calor febbrile!

"12 luglio 1845. Dal 6 al 9 abbiamo avuto un caldo che talvolta fece ascendere il termometro di sopra i gradi 28 (gradi Réaumur, pari a 35°C. NdR). Ai 7 ascese a gradi 28,6 (pari a 36°C, NdR). Dal 1842 non avemmo un caldo simile (N.Roncalli, Cronaca di Roma 1844-1848, vol I, Roma 1972. E ancora, scriveva lo storico Gregorovius in Diari romani il 19 agosto 1861: "Il caldo straordinario ha mandato a monte i miei lavori, i risultati di 44 giorni sono molto meschini" (Ceccariuis). A noi moderni, con l'aumento delle temperature medie degli ultimi decenni, un caldo simile sembra normale: si verifica ad ogni estate. Ad ogni modo, se vivesse oggi a Roma, d'estate, Gregorovius scriverebbe solo grazie all'aria condizionata!

Un altro diario. "26 giugno 1801: fa da ieri in qua un grandissimo caldo". "1 luglio 1801: caldo grandissimo". Il principe Chigi, che registrava nel suo diario con maniacale fissazione aristocratica ogni variazione di calore e umidità, cercava refrigerio alla fontana di piazza del Popolo. Ebbene, per assicurarsi che ci fosse un refolo di vento vi immergeva, essendo il dito troppo proletario, la punta del bastone: osservando che una parte si asciugava prima dell’altra si accertava della direzione e dell’esistenza stessa del vento.

E dal caldo veniva il colera, si pensava allora. "26 luglio 1831: oggi è cominciato un triduo nella chiesa dell’Anima con indulgenza per implorare la cessazione del flagello del cholera, che ha penetrato in qualche parte degli stati dell’Imperatore. 6 agosto 1835: oggi è cominciata una divozione di dieci giorni in 16 chiese dedicate alla Madonna, oltre alla chiesa di S Rocco, con indulgenza plenaria per chi v’interverrà 7 volte, ad effetto d’impetrare l’allontanamento del morbo che ci minaccia". 9 agosto 1835 Essendosi riconosciute insufficienti le 16 chiese destinate per l’indulgenza, ne sono state accresciute altre 8, delle più vaste. Nello stesso tempo si è annunziata la riduzione da 7 volte a 5 per l’acquisto dell’indulgenza (C.Fraschetti, Diario del Principe Agostino Chigi dal 1830 al 1855, con un saggio di curiosità storiche sulla vita della Roma dell’epoca (Tolentino 1906).

Insomma, sempre i soliti, i Papi Re! Il colera lo combattevano non con i medici o l’igiene, ma a colpi di massicce preghiere. Tridui e novene, anziché canalizzazioni agricole. Sconti last minute sulle indulgenze, anziché estratto di chinina. Tanto, si sa, malati o sani, sarebbero andati tutti comunque all'inferno.
Anche per questo, il colera terrorizzava tutti, preti, nobili e popolo. E la preoccupazione di Chigi era quasi un presentimento: la moglie muore di colera nell’epidemia del 1837, e anche lui morirà nel 1855, colpito probabilmente dallo stesso morbo (Ceccarius). E che l’estate romana equivalesse alle malattie, lo dice anche il Belli nel sonetto terroristico L’aria cattiva (5 giugno 1845) che oggi farebbe inviperire l'Ufficio del Turismo. E se pensiamo all'attuale Estate Romana, quant'è lontana la Roma di oggi dalle epidemie papaline!:
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Scappate via, sloggiate, furistieri:
fora, pe ccarità, cch’entra l’istate.
Presto, fate fagotto, sgommerate,
ché mmommò a Rroma so affaracci seri.

Ché cqui er callo è un giudizzio univerzale:
l’aria de lujji e agosto ammazza tutti.

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Così, da metà giugno a fine settembre Roma si svuotava di Papa, Sacro Collegio, alti prelati, diplomatici, aristocratici e borghesi benestanti, perché - altro che inverno - si riteneva che la "malaria" infuriasse col colera e altri morbi proprio nel mezzo dell'estate. Tutti quelli che potevano andavano ai castelli nelle ville di Albano, Castelgandolfo, Frascati, o ai bagni di mare. La malaria, in senso stretto, poi, era tipica dell’estate romana, le campagne essendo paludose e infestate di zanzare. Nessun quartiere romano ne era esente, soprattutto la periferia (Ceccarius).
Perciò, non appena un popolano diventava un minimo benestante, sùbito faceva mostra di "andare in villeggiatura", ai Castelli, come la "sora Irene" del sonetto seguente, che non avendo una carrozza privata ci va in diligenza. "Smanie della villeggiatura", le aveva chiamate Goldoni, graffiando anch’egli le tipiche pretese piccolo-borghesi dei neo-ricchi:
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LA PARTENZA PE LA VILLEGGIATURA
Sor’Irene, e ccusí? ss’arivà ffora?
E ss’è lléscito, indove? Eh ggià, a Ffrascati,
a cqueli belli crimi imbarzimati.
Ecco cqua che vvor dí dd’èsse siggnora.
Ma ssa cche cco ste sciarle è vventun’ora,
e li cavalli ggià stanno attaccati?
Anzi, in ner leggno sciò vvisto du’ frati
che la prèsscia d’annà sse li divora?
J’hanno messa la robba, eh sor’Irene?
Oh bbrava: ma jj’avverto che vvò ppiove:
veda che ttutto sii cuperto bbene.
Ôh, ddunque, arivedèndola; e co cquesto
facci bbon viaggio, sce dii le su’ nove,
se diverti, s’ingrassi, e ttorni presto.

24 settembre 1835
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Versione. La partenza per la villeggiatura. Signora Irene, si va di nuovo fuori, è così? E dove, se è lecito? E già, a Frascati, con quel bel clima balsamico. Ecco che vuol dire esser signora. Ma sa che con queste ciarle siamo arrivati alle 21, e i cavalli sono già attaccati? Anzi, in carrozza ho visto due frati che la premura di andare si divora. Le hanno caricato i bagagli, eh, signora Irene? Oh, brava, ma l’avverto che sta per piovere: veda che tutto sia coperto bene. Oh, dunque, arrivederla; e con questo faccia buon viaggio, s’ingrassi e torni presto.
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E il popolo? L'unico refrigerio che gli era consentito era di andare a vedere i nobili che in carrozza "si rinfrescavano" con curiose e spettacolari passeggiate sull'acqua in una piazza Navona allagata (dove a bagnarsi, però, erano solo le ruote e le zampe dei cavalli). Altrimenti una bella fetta di cocomero, molto raramente un gelato, perché i sorbetti offerti dai "sorbettari ambulanti" del Centro costavano cari. Altrimenti, doveva industriarsi ad evitare il sole camminando acrobaticamente lungo le "linee d'ombra" dei palazzi nobiliari. Ma con un pizzico di conquista democratica che a Parigi e a Londra si sognavano, perché potevano godere del romanissimo diritto ai "trapassi". Per lunga tradizione, i grandi palazzi aristocratici con più portoni erano gravati da una singolare servitù di passaggio: chiunque vi poteva entrare, probabilmente sotto lo sguardo di occhiuti guardaportoni, poteva percorrere lunghi e freschi corridoi, cortili e giardini, e uscire da un altro portone. Perfino nel più grande di tutti, il palazzone papale del Quirinale, anche il giovane "cascherino" del fornaio col pane da consegnare, la lavandaia con la sporta o un ragazzino del popolo a piedi nudi, potevano entrare alle Quattro Fontane e uscire dalla porta della Dataria, praticamente su Fontana di Trevi. Lo scrive lo stesso Belli nel sonetto La strada cuperta.

Chi vvò vvienì da le Cuattro-Funtane
ssempre ar cuperto, ggiù a Ffuntan-de-Trevi
entri ar porton der Papa...
... Com'è arrivato a la Panettaria
... scappi dar porton de Dataria.

M.Bosi vi accenna nel saggio Un privilegio perduto: i trapassi dei portoni in "Strenna dei Romanisti", Roma 1972. Così il popolino evitava il caldo e il sole, e "tagliava" tortuosi percorsi sotto il sole cocente dell'estate nel Centro di Roma. E anche se le guardie civiche vigilavano e il "monsignor illustrissimo delle strade" in teoria vietava e puniva qualsiasi cosa, poteva sempre farsi un bel pediluvio nelle mille fontane romane. L'igiene dello Stato della Chiesa ne aveva tutto da guadagnare.
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IMMAGINI. 1. Piazza Navona allagata, una vecchia tradizione durata fino all'Ottocento che si ripeteva ad ogni estate come festa curiosamente riservata alle carrozze. 2. Il cocomeraro di piazza Navona (acquerello di A.Pinelli). 3. Il sorbettaro ambulante mostra ai passanti un gelato (stampa popolare). 4. Giovani giocatori di bocce. Tra urla, commenti e litigi, il clamore del gioco all'aperto rompeva la quiete dei caldi pomeriggi romani.

10 luglio 2010

A ognuno il suo rischio: il volo, la notte, il cavallo, il maiale!

Te la sei cercata? Allora, neanche Dio può farci nulla: Qui amat periculum, peribit in illo. E’ il latinorum dei preti, che sentenzia: chi ama il pericolo, in esso morirà. La morale cattolica è proprio il contrario di quella tipica dei Paesi anglosassoni e protestanti, amanti del rischio. Nel Trattato di Teologia Ascetica e Mistica si spiega infatti: “Dio non soccorre chi volontariamente, senza necessità si mette in pericolo…”
Il Belli si sofferma sul tema del pericolo, della morte e della fatica di vivere del popolo di Roma. Fatica e pericolo dovuti sia a mestieri di per sé a rischio, sia al degrado della città e alle leggi liberticide di uno stato feudale.
Il sonetto per l'incidente mortale allo scozzone (lo scozzone era il cavalcante, servo che accompagnava a cavallo il padrone), e' cronaca asciutta, con una venatura di dolorosa fatalita', legata al pericolo che incombe sul protagonista: "Morte certa, ora incerta", direttamente legata alla fatica di vivere nella Roma dei primi '800.
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LO SCOZZONE
Tu ssai dov’è Ssan Nicola in Narcione:
bbè, a la svortata llí der Gallinaccio
er cavallo je prese un scivolone,
turutuffete, e llui diede er bottaccio.
Ecco si cche vvor dí mmontà un sturione,
mette la vita in mano a un cavallaccio:
coll’antri è annato via sempre bbenone:
co cquesto è ito ggiú ccom’uno straccio.
Restò ggelato, povero Cammillo!
Ce s’incontrò er decane de Caserta
che nu l’intese fà mmanco uno strillo.
Disce Iddio: Morte scerta, ora incerta:
chi er risico lo vò, ribbinitillo
omo a ccavallo sepportur’uperta.

22 gennaio 1832
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Versione. Lo Scozzone (il cavalcante). Sai dov'e' San Nicola in Arcione (chiesa oggi scomparsa): all'incrocio con via del Gallinaccio il cavallo scivolo' , turutuffete (espressione per il rumore di una caduta) e lui cadde pesantemente. Ecco cosa vuol dire montare uno sturione (cavalo magro e macilento), mettere la vita nelle mani di un cavallaccio: con gli altri andava via sempre benone: con questo e' andato giu' come uno straccio. Resto' morto sul colpo, povero Camillo! ci si incontro' il capo dei servitori del Duca di Caserta che non gli senti' fare neanche uno strillo. Dice Dio: morte certa ora incerta: qui amat periculum, peribit in illo (chi ama il pericolo in esso perira'): uomo a cavallo sepoltura aperta (tre diversi proverbi).

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Quest' ultima terzina si puo' collegare a tanti fatti di cronaca dei nostri giorni: ad esempio la morte di Pietro Taricone nel corso di un lancio con paracadute, o quella quasi contemporanea del ragazzino Francesco di 13 anni che forse praticava sul tetto della scuola il parkour, una pericolosa disciplina metropolitana acrobatica.
Il primo era l'epitome del ragazzo che ce l'aveva fatta, diventato famoso dopo la partecipazione alla prima edizione del Grande Fratello con il suo atteggiamento da macho, ma anche da filosofo popolare, che lo aveva fatto amare dal pubblico di giovani e adolescenti. “Mi sento come una barchetta che è stata trainata al largo dal Titanic, da questa corazzata che è la televisione: e ora come ci torno a riva?” disse nella sua prima intervista, rilasciata a Curzio Maltese.
Forse lo ha portato a una fine prematura la sua predilezione per gli sport rischiosi, e' rimasto vittima di volontaria ritardata apertura del paracadute durante una discesa acrobatica, il desiderio di impersonare compiutamente il suo ruolo alla Bruce Willis, insomma un eccesso di confidenza nelle sue capacita' da Superman.
Il secondo, il ragazzino di 13 anni che era salito di notte con un compagno sul tetto della sua scuola, caduto da un' altezza di 12 metri per la rottura di un lucernario. Una delle ipotesi e' che anche lui si stesse cimentando al buio in una specie di sport che comporta grande abilita', riflessi prontissimi e un bel po' di rischio di farsi male.
Sembra che siano molti gli studenti che, sia di giorno che di notte, salgono, o forse e' meglio dire salivano, sulla sommità di quella scuola. Alcuni provano il brivido di saltare da un tetto all’altro praticando questo “parkour”, disciplina metropolitana che consiste nel portare a termine percorsi estremi con salti e passaggi acrobatici. I ragazzi girano dei video con i loro telefonini e poi li caricano su Youtube.
Cosa ci fa associare questi due tragici avvenimenti? Il desiderio di confrontarsi con il pericolo, da sempre presente nel DNA dell'uomo. Il successo del macho nel senso piu' lato: con le donne, con la carriera e i soldi, sbattuto in faccia alle nuove generazioni dai mass media. La vita troppo monotona della gente comune, il desiderio di emergere comunque, o comunque di emulare chi emerge. La mancanza dei tradizionali pericoli nella vita moderna. Ricordiamo i secoli bui dell' Europa attraversata da guerre che duravano per intere generazioni, la guerra dei cento anni tra Francia e Inghilterra, dal 1337 al 1453, quella dei trenta anni, dal 1618 al 1648 in tutta Europa, che avevano veramente spopolato interi paesi. Per non parlare delle due guerre mondiali del secolo scorso.
Sembra agli psicologi che oggi il surrogato della guerra sia il pericolo fai da te. L' invenzione di bravate come il passeggiare sui tetti dei treni in corsa, lo sdraiarsi sui binari in attesa che passi un treno, possibilmente merci, per evitare le deiezioni dai gabinetti.
Pietro e Francesco sono insomma stati vittime della loro ricerca del rischio. Il rischio esiste nella vita di oggi, ma andarselo a cercare insieme ad amici e colleghi in situazioni, o codificate da una disciplina, come il paracadutismo, o di novissima invenzione come il parkour, e' veramente speciale e di grande attrazione. Ma, abbiamo visto, anche di grandissimo pericolo.
Ma torniamo alla vita nella Roma dei primi '800. Il pericolo di perderla era legato alla professione, alle insidie di briganti e malfattori, a imprevedibili risse che potevano scoppiare, come anche oggi, per futili motivi. E ogni vero popolano romano portava il coltello. Ma anche per il semplice arrischiarsi di andare per la citta' di notte, nel buio piu' completo e totale, come racconta il sonetto:
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CHI VA LA NOTTE, VA A LA MORTE
Come sò lle disgrazzie! Ecco l’istoria:
co cquell’infern’uperto de nottata
me ne tornavo da Testa-spaccata
a ssett’ora indov’abbita Vittoria.
Come llí ppropio dar palazzo Doria
sò ppe ssalí Ssanta Maria ’nviolata,
scivolo, e tte do un cristo de cascata,
e bbatto apparteddietro la momoria.
Stavo pe tterra a ppiagne a vvita mozza,
quanno c’una carrozza da Signore
me passò accanto a ppasso de bbarrozza.
«Ferma», strillò ar cucchiero un zervitore;
ma un voscino ch’escì da la carrozza
je disse: «Avanti, alò: cchi mmore more».
21 gennaio 1832
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Versione. Chi va di notte, va alla morte (proverbio). Come accadono le disgrazie! Ecco la storia: con quella notte d'inferno me ne tornavo da Testa spaccata, (contrada di Roma scomparsa per costruire il monumento a Vittorio Emanuele II) a sette ore dopo l'avemaria (le ore si contavano a partire dall'avemaria, e percio' variavano con le stagioni, circa la mezzanotte a Gennaio) dove abita Vittoria. Quando proprio al palazzo Doria sto per salire ( il livello del Corso era molto piu' basso a quei tempi e c'erano alcuni gradini) a Santa Maria in Via Lata, scivolo fo una bruttissima caduta e batto la parte posteriore della testa ( dove si credeva fosse la memoria del cervello). Mentre stavo a piangere a terra come una pianta di vite recisa (che dia gocce di linfa) mi passo' accanto una carrozza signorile a lento procedere. Ferma, strillo' al cocchiere un servitore, ma una vocetta che usci' dalla carrozza gli disse: avanti , andiamo, chi muore muore.

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Un altro elemento di pericolo poteva esistere durante violenti temporali; molte strade di Roma non avevano fognature per la raccolta dell'acqua piovana, che scorreva nelle "pianare", in pratica al centro della strada, che potevano trasformarsi in un vero e proprio torrente, con il rischio di trascinare a fiume il malcapitato.
Oggi rischi del genere ci fanno sorridere, almeno a Roma, mentre ai nostri giorni il dissesto idrogeologico si porta via paesi interi costruiti con troppa disinvoltura.
A proposito di attivita' sportive, anche ai tempi del Belli esistevano avvenimenti popolari e sport estremi, molto pericolosi.
La corsa dei cavalli berberi da piazza del Popolo a piazza Venezia durante il carnevale era un avvenimento paragonabile alla antica, ma ancora attuale, corsa dei tori di Pamplona in Spagna. Specialmente alla fine della corsa, alla "ripresa", potevano avvenire incidenti anche molto gravi con persone travolte dai cavalli, tanto che anche il Belli ne fa cenno, parlando di un noto medico che si andava a posizionare dallo speziale Cesanelli in posizione strategica vicino alla "ripresa", per assistere clienti bisognosi di cure o di trasporto in ospedale, una specie di pronto soccorso fai da te.

LA SERVA DER CERUSICO
Nun c’è er padrone: ha avuta una chiamata
pe ccurre a ffà ar momento ’na sanguiggna,
a Ppasquino a ’na pover’ammalata,
c’ho intes’a ddí cche ssii frebbe maliggna.
Eppoi pijja un straporto e vva a ’na viggna
for de ’na scerta porta ch’è sserrata,
a ccurà ’na cratura co la tiggna,
che da un mese nun l’ha ppiú vvisitata.
A pproposito!... oggi entra carnovale!
Ebbè, vvoi lo trovate a or de Corza
drento da Scesanelli lo spezziale.
Ché oggn’anno in quer frufrú dde la ripresa
quarche ddisgrazzia ha d’accadé ppe fforza,
e ppe ggrazzia de ddio s’è ssempre intesa.
22 marzo 1834
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Versione. La domestica del cerusico. Il padrone non c’è: ha avuto una chiamata per correre a mettere subito una sanguisuga a piazza Pasquino [nota statua “parlante”] ad una povera ammalata, che ho sentito dire abbia la febbre maligna. Poi prende una carrozza e va in campagna uscendo da una porta [di Roma] che è sempre chiusa [nota il Belli: Le porte disusate di Roma sono la Pinciana, la Fabbrica e la Castello, la prima sotto il Pincio, la seconda presso la Fabbrica di S. Pietro in Vaticano, e la terza accanto alle fosse del Castello, già Mausoleo di Adriano] per curare una bambina con la tigna, che da un mese non l’ha più visitata. A proposito, oggi entra il Carnevale! E allora lo troverete all’ora della Corsa [quando i cavalli berberi sciolti correvano all’impazzata lungo il Corso] nella farmacia Cesanelli. Perché ogni anno in quella confusione della ripresa [i cavalli venivano fermati da coraggiosi cavallari, ma spesso c’erano feriti e calpestati, anche tra i passanti] qualche disgrazia accade per forza, e per grazia di Dio c’è sempre stata.
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Altro sport pericoloso era l'ascensione in mongolfiera. Il primo volo fu dei fratelli Montgolfier nel 1783 a Parigi. I Montgolfier erano fabbricanti di carta e i primi "globi aerostatici" erano per l'appunto di carta, sopra il cui involucro era distesa una rete da pescatori che consentiva una certa resistenza durante il volo. Anche a Roma vi furono alcune ascensioni a meta' dell ' 800. Nel 1853 Luigi Piana muore per ipossia (mancanza di ossigeno) su un pallone a doppia camera in volo su Roma. E anche un’altra tragedia impressionò tutti. Pio IX, che presso il popolo aveva fama di jettatore, aveva dato la sua paterna benedizione per una ascensione e il pallone aerostatico cadde rovinosamente con la morte degli aeronauti, tanto che lo stesso Papa si astenne da autorizzare, e sopratutto benedire, altre ascensioni per lungo tempo.
Ma c’era anche chi, uomo di potere della Chiesa abituato a vivere tra gli agi, non correva il rischio di camminare a piedi di notte, di coprirsi di gloria in battaglia, di salire eroicamente in pallone, tantomeno di montare un cavallo bizzarro. Al massimo si abbuffava fino a scoppiare d’indigestione. Un pericolo adatto ai cardinali di Santa Romana Chiesa, quello della morte per intemperanze alimentari. Per loro la fatica di vivere e' la fatica a digerire, insinua il caustico Belli, che sull’avidità dei prelati, anche per il cibo, intinge spesso i crostini nei suoi saporiti sonetti. Come nei quattro per la morte del cardinale Placido Zurla, Vicario di Gregorio XVI, "er cardinal camannolese" che sono festosi, quasi celebrativi per la scomparsa di un odiato personaggio, visto come la peggiore espressione dell’avidità del potere temporale del papato. E dire che il Cardinale Vicario vigilava sui costumi!
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Sí, amichi, finarmente stammatina
s’è sparza la staffetta da per tutto
che ss’è vvotato er zacco de farina,
che ss’è squajjato er vesscigon de strutto.
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Un po' ppiú cche ccampava er Cardinale,
er vino che sse trova a sto paese
nun arrivava manco a ccarnovale
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Versione. Si amici finalmente stamattina si e' sparsa la notizia che si e' vuotato il sacco di farina, che si e' liquefatto il vescicone di strutto (il Cardinale era un omone, forte mangiatore e bevitore). Se il Cardinale avesse vissuto piu' a lungo, il vino del Vaticano non sarebbe arrivato neanche a carnevale.

Ma, a proposito di cardinali, indovinate che fine poco gloriosa fa un altro cardinale, che invece di montare qualche cavallo bizzarro o scozzone, preferisce scozzonare (cioè montare e domare) una ugualmente bizzosa marchesa sposata, a quanto lascia intendere un maligno servitore. Ma, ecco il busillis, rischia di morire (o muore, non è chiaro) per la grande abbuffata a tavola, come mostra di credere il Belli, o per il troppo sesso con la marchesa, o per aver fatto a piedi le Sette Chiese, oppure per tutti e tre gli strapazzi insieme?

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ER CARDINALE
M’ha ddetto er zotto-coco der Marchese
che cquer zervo-de-ddio der Cardinale
che cce pranzava trenta vorte ar mese,
e annava ogni tantino all’urinale,
cuer giorno c’annò a ffà le sette cchiese
se magnò ccinque libbre de majale:
e a mmezzanotte te je prese un male
senza poté ccapí ccome je prese.
Presto du’ preti la matina annorno
a ffà escì er Zagramento e ddì orazzione
pe tutti li conventi der contorno.
A sta nova la mojje der padrone,
che svejjonno abbonora a mmezzoggiorno,
ce se fesce pijjà le convurzione.
22 gennaio 1832
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Versione. Il cardinale. Mi ha detto il sotto-cuoco del marchese che quel “servo di Dio” del cardinale, che vi pranzava trenta volte al mese, e andava ogni tanto a urinare, quel giorno in cui andò a fare le visite alle Sette Chiese [“Divozione molto in voga a Roma, premiata – nota il Belli – con gran ricchezza d’indulgenze, e terminante come quasi tutte le altre in un cristiano banchetto”], si mangiò cinque libbre di maiale, e a mezzanotte gli prese un male di cui non si riuscì a capire la causa. La mattina presto due preti andarono a far uscire il Sacramento e a dire orazioni per tutti i conventi dei dintorni. A questa notizia la moglie del padrone, che svegliarono presto, a mezzogiorno, fu presa dalle convulsioni.
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Certo, che mangiare con la marchesa “trenta volte al mese” come spiffera il domestico, voleva dire che il signor Cardinale di Santa Madre Chiesa di fatto conviveva con la signora Marchesa. E che il signor Marchese, pace all’anima sua, lungi dall’essere volgarmente un cornuto, era forse, più astutamente di un diplomatico, capace di assentarsi nei momenti opportuni, insomma un “marito della moglie del cardinale” (v. sonetto).
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IMMAGINI. 1. La prima ascensione in pallone aerostatico documentata in Italia è quella di Paolo Andreani e dei fratelli Gerii a Brugherio (Milano) nel 1784 (stampa da M.Majrani, Aerostati, Edizioni dell'Ambrosino, Milano). Il governatore austriaco e l'imperatore Giuseppe II d'Austria, pur presente in città, si rifiutarono di assistervi, perché uno spettacolo così "ardito", quasi una sfida alle leggi della Natura, lo ritenevano moralmente riprovevole. 2. La caotica "ripresa" dei cavalli selvaggi (berberi o barbari) alla fine del Corso, a piazza Venezia (A.Pinelli, 1835 ca).
 
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