26 aprile 2010

Che vitaccia la vita! Ma almeno l’aldilà… Macché, è peggio

La felicità? Non è di questo mondo. E per i poveracci neanche dell’altro. Ecco il desolante quadro della vita dell’Uomo descritto dal Belli.
"Felicità" è una parola rara, che sta nella Costituzione degli Stati Uniti, non per caso Paese fondato dopo una rivoluzione liberale da protestanti ottimisti e progressisti, in pieno Illuminismo. Ma non può trovarsi nei romaneschi sonetti belliani, intrisi di realismo, sì, ma anche di un cupo pessimismo cattolico senza speranza. Neanche come vaga attesa nell’Aldilà? Questo è il punto, come vedremo più avanti, che sembra caratterizzare il famoso sonetto sulla "Vita dell’omo".
Il lamento sui mali dell’esistenza è un tema colto e antico comune a tanti, da Giobbe ai lirici greci. E, anzi, questo è uno degli esempi più vivi e meglio riusciti – scrive il Vigolo – "dell’estro e della mano che il Poeta aveva in simili trascrizioni dal sopramondo illustre della letteratura all’infimo sustrato popolare".
Ma qui il dramma della vita dell’Uomo triste e negativa fino alla morte e oltre, il Belli lo mette in bocca ad un ideale popolano romano. E contrariamente al suo solito, non è un dialogo ma un monologo, che si conclude in crescendo con parole sempre più dure, sempre più drammatiche. Una durezza senza sfumature: non c’è un solo aggettivo nel sonetto sulla triste esistenza dell’Uomo, e perfino i verbi sono pochi, nota il geniale Vigolo. Perché è rappresentata una sola azione, in una successione fatale, che se si unisse l'inizio e la fine del sonetto potrebbe sintetizzarsi in un solo breve epigramma alla Quasimodo: "Nove mesi alla puzza, e ffinissce co l’inferno".
Tutto comincia, non per caso, dallo schifoso ventre materno. Anche in Jacopone da Todi e S.Bernardo, come nell’amara satira belliana, c’è il disprezzo cattolico per un essere condannato a nascere dal sesso, ovvero de sanguine menstruali della donna e dallo sperma foetidum dell’uomo (Vigolo).
E il realismo popolaresco attenua ma non cancella il dramma. Non c’è neanche umorismo, almeno finché non ci si accorge del sarcasmo blasfemo dei due ultimi versi: un Dio assente o lontano, un po’ ridicolizzato nell’intercalare popolare che qui fa da atroce contrasto e c’entra come i cavoli a merenda, e l’assoluta incredulità nella comprensione e benevolenza divina nel presunto Aldilà. Altro che Paradiso, almeno per i poveracci, pare voler dire il Belli: la tanto sbandierata ricompensa postuma è una fregnaccia per i gonzi. A noi ci spetta, come del resto in vita, solo l’Inferno.
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LA VITA DELL'OMO
Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:
poi p'er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
cor torcolo e l'imbraghe pe ccarzoni.
Poi comincia er tormento de la scòla,
l'abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalìa, la cacca a la ssediola,
e un po' de scarlattina e vvormijjonì.
Poi viè ll'arte, er diggiuno, la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,
er zol d'istate, la neve d'inverno...
E pper urtimo, Iddio sce benedica,
viè la morte, e ffinisce co l'inferno.

Roma, 18 gennaio 1833
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Versione. La vita dell'uomo. Nove mesi passati nella puzza [dell'utero materno], poi in fasce, tra sbaciucchiamenti continui, croste lattee e pianti a dirotto: poi tenuto al laccio con una cinghia [era l’uso popolare dell’800], dentro un girello [crino], con una vesticciola, con un cercine [sorta di turbante che proteggeva la testa del bambino dalle cadute] e le mutande al posto dei calzoni. Poi comincia il tormento della scuola, l'abbicci, le frustate [per punizione], il tormento dei geloni [a causa dei locali freddi], la rosolia, la cacca sul vasetto, e un po’ di scarlattina e di vaiolo. Poi viene il lavoro, il digiuno [che la Chiesa pretendeva a partire dai 21 anni], la fatica, l'affitto, il carcere, le prepotenze del Governo, l’ospedale, i debiti, il sesso, il caldo in estate e la neve d'inverno... E per ultimo, che Dio ci benedica, arriva la Morte, e finisce con l'Inferno.
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"Grandissima l'arte e la potenza del Belli – aveva scritto il Carducci – ma in una poesia che nega, deride e distrugge" (Arte e poesia in "Opere", Zanichelli 1937).
E’ il "popolano filosofo", non necessariamente l’uomo romanesco, ma l’Uomo in generale, che parla con le parole del Belli in questo celebre sonetto, insieme cattolico e anticattolico, religioso e antireligioso, poetico e cinico, come molti altri sonetti belliani. Stavolta non c’è nulla di politico, e poco di sociologico, visto il tema antico, anche se certamente va considerato che dietro l’immaginario collettivo che sta dietro al popolano-filosofo pensato dal Belli c’è la Roma ancora medievale del Papa Re, lo Stato più arretrato d'Europa. Dove perfino la religione, onnipresente nella vita quotidiana, ha fallito, se è vero che la Chiesa ha dimenticato il suo messaggio di consolazione e di speranza prospettando ai popolani che vivono il loro inferno quotidiano nulla più che la prossima venuta di un altro inferno. Anzi, il romano dell'epoca, che credesse o no, avrebbe anche potuto rispondere alle minacce del parroco o del confessore facendo notare che l'aldilà non gli faceva cosi tanta paura, visto che il suo inferno era già tra i vicoli, le piazzette, gli archi, le fontane, i portoni, le scalette, le logge, le botteghe e i cortili di Ponte, Ripa, Regola, Pigna, S.Eustachio, Parione, S.Angelo, Colonna, Trevi, Campo Marzio, Campitelli, Monti e Trastevere ("i rioni del Belli").
Quindi vita e morte, paradiso e inferno, stanno insieme, e la morte non è la fine della sofferenza, ma l'inizio di una nuova, solo più misteriosa, tragedia che si consuma in un Aldilà che la superstizione popolare, aizzata dai preti, dipinge a tinte fosche con tutti i toni del rosso (le fiamme, i diavoli), le ombre, la scenografia e gli struggimenti sadomasochisti del barocco, lo stile che meglio rappresenta la teatralità estetizzante del Cattolicesimo..
Non c'è quindi scampo nella vita dell'Uomo: dallo sgradevole utero materno ai fastidi e dolori piccoli e grandi della vita, elencati, centellinati con un certo morboso compiacimento, fino al regalo finale con le sofferenze atroci dell’inferno che ci propina lo stesso "misericordioso" Padreterno. Un crudele controcanto popolaresco alla visione propalata dai predicatori nelle chiese.
Insomma, per paradosso, proprio la credenza popolaresca e religiosa nell’Aldilà e nell’inferno finisce per aggravare il pessimismo dell’uomo belliano. Mentre negli illuministi e razionalisti le pene della vita finiscono, almeno, con la morte che riscatta e premia (di qui la retorica dell’atto eroico o del suicidio nei romantici), nella visione del cattolicesimo disperato e barocco del Belli, neanche la morte dà la tanto sperata pace all’Uomo. E’ la sconfitta dell’Uomo, ma anche della Religione cattolica.
Un pessimismo totale, universale, più che leopardiano, perché in Leopardi – altro suddito del Papa, guarda caso – almeno c’è una Ragione che in qualche modo ci salva, ma nel Belli non c’è neanche questa. Un nichilismo radicale che sarà forse la molla che spingerà l’autore dei Sonetti su posizioni reazionarie. Leopardi, invece, oscilla tra due poli nel suo pessimismo. Da una parte, come nota il Vigolo, fa così parlare il filosofo Porfirio nel Dialogo con Plotino: "Il genere umano, esempio mirabile d’infelicità in questa vita, si aspetta non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di avere ad essere, dopo quella, assai più infelice". Ma poi, in tanti altri brani Leopardi mostra di avere in qualche modo fede nei Lumi, nella grande forza della Natura e nell’eterno spirito dell’Uomo. E con la sua "morale della compassione" continuerà a sperare nella solidarietà che nasce dal comune dolore della vita, come ultima risorsa per l’avvenire del genere umano.
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IMMAGINE. Vita ed età dell'Uomo (Stampa popolare dell'Ottocento)

20 aprile 2010

E se un prete dà scandalo? E' trasferito in altra parrocchia

I preti, dall'alba del cristianesimo ai giorni nostri, sono stati oggetto e soggetto di atti di violenza e di crimini, per affermare di volta in volta, la libertà di professare la nuova religione, (vedi i cristiani in pasto ai leoni nel Colosseo), o per propugnare o combattere nel corso di durissime lotte fra cristiani, le regole del proprio credo religioso. La strage di San Bartolomeo a Parigi, la notte del 23 Agosto 1572, vide il massacro degli ugonotti, riformatori seguaci di Calvino, da parte dei cattolici. All'apprendere la notizia, Papa Gregorio XIII fece cantare un Te Deum di ringraziamento, coniare una medaglia con la propria effigie per ricordare l'evento e commissionò al pittore Giorgio Vasari una serie di affreschi raffiguranti il massacro, tuttora presenti nella Sala Regia dei Palazzi vaticani. I papi moderni, invece, hanno chiesto perdono agli uomini e a Dio per quelle stragi "cristiane".
Ma c'è dell'altro, purtroppo: i preti, i frati e, in minor misura, le monache (vedi la monaca di Monza nei Promessi Sposi del cattolico Manzoni, e parecchie novelle nel Decamerone di Boccaccio), si sono sempre macchiati degli stessi peccati o crimini del resto della popolazione. Come è statisticamente normale, del resto.
Anzi, correva voce tra le malelingue del popolo, fin dal Medioevo, che i peggiori elementi, i manigoldi più scapestrati, si rifugiassero dopo una vita dissoluta o dedita al vizio, al sicuro nei conventi.
La vocazione riottosa dei preti e specialmente dei frati è proseguita nei secoli fino ad oggi, anche quando le regole sono ormai stabilite con le rispettive aree di influenza territoriale: la chiesa cattolica, quella ortodossa, i riformatori del nord Europa e tante altre realtà minori. Chi non ricorda la notizia che ha fatto il giro di tutti i telegiornali del mondo sulle botte da orbi in Terra Santa, fra preti armeni e greco-ortodossi all'interno della Chiesa della Natività a Betlemme per presunti millimetrici sconfinamenti?
Insomma, i preti sono sempre stati restii ad obbedire alle regole, anche quelle da loro stessi formulate. “Nun fa quello che il prete fa, fa quello che il prete dice”, chiudeva un sonetto del Belli.
Ai suoi tempi i membri del clero avevano uno status vicino all'impunità. Senza contare che dentro chiese e conventi la forza pubblica neanche poteva entrare. Tanto è vero che in quell'attendibile romanzo storico che è i Promessi Sposi si parla del rifugio in chiesa o convento come ultima salvezza di un criminale, cioè di una vera zona di extra-territorialità.
La pena più utilizzata, fino ad oggi come mostrano gli episodi di pedofilia degli ultimi anni, era il semplice trasferimento del religioso reprobo in altra chiesa, convento o missione. Un po' come nelle forze armate, dove per mancanze relative al comportamento in servizio, scarsa efficienza, scarsa attitudine al comando e via discorrendo, esiste il trasferimento in reparti considerati di punizione, per ubicazione disagiata o per turni di servizio, magari 24 ore su 24.
Ma tornando ai tempi del Papa Re, il Belli dipinge così la giustizia applicata ai religiosi:
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LA GGIUSTIZIA PE LI FRATI
In primo logo, un frate, anche a vvolello
pien de dilitti e ccarico de fijji,
un governo eccresiastico è ppe cquello
senz’occhi, senz’orecchie e ssenz’artijji.
Inortre li Conventi hanno un fraggello
d’arberinti e dde tanti annisconnijji,
che mmànnesce qualunque bbariscello
e mme tajjo la testa si lo pijji.
Finarmente, te vojjo anche concede
ch’er frataccio sii trovo e ccarcerato
quer ch’imbrojjeno poi come se vede?
Malappena er bisbijjo s’è acquietato,
je muteno convento, e cche ssuccede?
Chi ha aúto ha aúto, e cquer ch’è stato è stato.
7 giugno 1834
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Versione. La giustizia per i frati. Il governo ecclesiastico nei confronti di un frate, anche pieno di delitti e carico di figli, è senza occhi, senza orecchie e senza artigli. Inoltre i conventi sono pieni di labirinti e tanti nascondigli che anche a mandarci qualunque “bargello” (a Roma e in Toscana era il capo della Polizia), mi faccio tagliare la testa se lo cattura. Poi, anche a voler concedere che il frataccio sia preso e carcerato, vuoi vedere cosa ti combinano? Appena l'episodio viene dimenticato, lo trasferiscono ad altro convento. E poi che succede? Che chi ha avuto ha avuto e quel che e' stato e' stato.
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Questi ultimi versi vi hanno fatto fischiare le orecchie? E' proprio quello che sta accadendo tuttora. Anche nella triste vicenda dei preti pedofili, la Chiesa ha ripetutamente fatto ricorso al suo Foro interno, e ad un'interpretazione bonaria del suo codice di diritto canonico, anziché a quello esterno delle magistrature laiche e delle autorità di Polizia. Come dicevamo, grande attualità del Belli...
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IMMAGINE. Frate che seduce una fanciulla (stampa antica). La cosa doveva essere frequente, visto che è entrata nell'immaginario collettivo, tanto da lasciarci centinaia di racconti e disegni.

12 aprile 2010

La confessione: i preti viziosi o maliziosi, le ragazze ingenue

"Figlia mia, ti tocchi?". Nella penombra del confessionale tutto può accadere, anche di sentirsi suggerire possibili peccati. "I preti si consolano di non essere sposati - ha detto Armand Salacrou - quando ascoltano le confessioni delle donne".
Nella confessione, un prete, uomo con tutti i suoi pregi e difetti, applica la Dottrina cattolica ai casi concreti, futili o drammatici che siano, della vita dei penitenti cattolici. Non bastando il colloquio diretto con la coscienza, severa giudice di umanisti e atei, o con Dio stesso, come per protestanti o ebrei, un uomo, un uomo come molti, talvolta peggiore di tanti altri, si trova a giudicare e punire in nome di Dio i “peccati” di altri uomini come lui, di fatto dirigendone la vita. E' giusto?
Figuriamoci nell'addormentata Roma dell'800, l'ultimo Stato ancora medievale, totalmente soggiogato dai preti, quello che poteva accadere nel confronto impari tra un prete ed un'ingenua e ignorante ragazza del popolo in un confessionale.
Proprio in questi mesi l’opinione pubblica è scandalizzata da reati e peccati gravissimi compiuti ovunque da preti cattolici, dalla pedofilia sui bambini delle scuole e delle parrocchie agli stupri su donne e seminaristi, fino addirittura ai sospetti di omicidio. Pensare che qualcuno di quei preti abbia potuto confessare, è inquietante.
Non è un caso che penitenza e confessione siano oggi in disuso, e i confessionali siano spesso vuoti, tanto che papa Giovanni Paolo II, per dare l’esempio, un giorno scese in S. Pietro e si mise lui stesso a confessare i pellegrini. Ma è certo che i tempi d’oro della confessione sono lontani. Eppure, fino all’epoca del Belli, davanti ai confessionali, si vedevano lunghe file di penitenti su entrambi i lati.
I confessionali sono parte molto visibile all’interno delle chiese cattoliche. Alcuni dei quali vere opere d’arte di legno intarsiato in stile barocco, gotico o rococò. Osservate l'ultima immagine (chiesa di Wies a Steingaden, in Baviera): non è un vero inno alla lussuria? Si direbbe quasi che il delirio delle forme nel contorto inconscio cattolico rappresenti l’ebbrezza del peccato negato, ma in realtà desiderato.
Naturale che la satira anglosassone e anticlericale – vedi le due stampe dell’Ottocento – si sia sempre appuntata sulla confessione, sulle penitenze, anzi, sull’intero sistema cattolico delle indulgenze con cui sono rimessi i peccati (proprio la rivolta contro il mercato delle indulgenze portò nel Cinquecento allo scisma protestante), e sulla figura stessa del prete confessore, che profittando del proprio potere può dirigere in modo malizioso e vizioso questo sacramento, per propri scopi personali, come infatti si vede nei due sonetti del Belli che riportiamo di seguito, scritti il medesimo giorno.
I confessionali sono importanti per il Belli. Da giovane tante volte aveva scritto sonetti sarcastici e impietosi sui confessionali. Da vecchio, pauroso di tutto, reazionario e malato, proprio alla vista dei confessionali della chiesa di S. Carlo ai Catinari dati alle fiamme in via Monti della Farina dai rivoluzionari della Repubblica Romana, fu preso dal terrore paranoico che varianti e bozze dei sonetti potessere essere scoperte, e le bruciò egli stesso di propria mano.
ER BON PADRE SPIRITUALE
«Accúsati figliuola». «Me vergogno».
«Niente: ti aiuto io con tutto il cuore.
Hai dette parolacce?» «A un ber zignore».
«E cosa, figlia mia?» «Bbrutto carogno».
«Hai mai rubato?» «Padre sí, un cotogno».
«A chi?» «Ar zor Titta». «Figlia, fai l’amore?»
«Padre sí». «E come fai?» «Da un cacatore
ciarlamo». «E dite?» «Cuer che cc’è bbisogno».
«La notte dormi sola?» «Padre sí».
«Ciài pensieri cattivi?» «Padre, oibò».
«Dove tieni le mani?» «O cqui o llí...».
«Non ti stuzzichi?» «E cc’ho da stuzzicà?»
«Lì fra le cosce...». «Sin’adesso no,
(ma sta notte sce vojjo un po’ pprovà)».
11 dicembre 1832
Versione. Il buon padre spirituale. Accúsati figliuola. Mi vergogno. Niente: ti aiuto io con tutto il cuore. Hai detto parolacce? A un bel signore. E che cosa, figlia mia? Brutta carogna. Hai mai rubato? Padre sí, una mela cotogna. A chi? Al signor Titta [Giovanbattista]. Figlia, sei fidanzata? Padre sí. E come fai? Parliamo nel cesso [che era sul balcone comune che dava verso il cortile]. E dite? Quello che serve. La notte dormi sola? Padre sí. Hai pensieri cattivi? Padre, oibò. Dove tieni le mani? Dove càpita... Non ti stuzzichi? E che cosa devo stuzzicarmi? Lì fra le cosce... Finora no, (ma questa notte ci voglio un po’ provare).
ER CONFESSORE
– Padre... – Dite il confiteor. – L'ho ddetto.
– L'atto di contrizione? – Ggià l'ho ffatto.
– Avanti dunque. – Ho ddetto cazzo-matto
a mmi' marito, e jj'ho arzato un grossetto.
– Poi? – Pe una pila che mme róppe er gatto
je disse for de mé: "Ssi' mmaledetto";
e è ccratura de Ddio! – C'è altro? – Tratto
un giuvenotto e cce sò ita a lletto.
– E llì ccosa è ssuccesso? – Un po' de tutto.
– Cioè? Sempre, m'immagino, pel dritto.
– Puro a rriverzo*... – Oh che peccato brutto!
Dunque, in causa di questo giovanotto,
tornate, figlia, con cuore trafitto,
domani, a casa mia, verso le otto.
11 dicembre 1832
* A rovescio, cioè “da dietro”. L’espressione si presta ad equivoci, e solo la reazione del prete la chiarisce. La dottrina cattolica considera, infatti, peccato mortale i rapporti sessuali per via posteriore, cioè anale, in quanto “contro natura”. Sono quelli tipici dei sodomiti e dei pedofili, anche se su questi ultimi - ma solo se sono preti - la Chiesa è di manica molto larga, a quanto pare… Invece, vede di mal occhio perché animalesco l’uso sessuale atavico dell’Uomo, ovvero l’accoppiamento geneticamente corretto ma da dietro, come fanno gli animali (perciò more pecudum, lett.: all’uso delle pecore).
Versione. Il confessore. – Padre... – Dite il confiteor. – L'ho detto. – L'atto di contrizione? – Già l'ho fatto. – Avanti dunque. – Ho dato dello scimunito a mio marito e gli ho rubato un grossetto [moneta d’argento da mezzo paolo, pari a 5 baiocchi]. – Poi? – Per un tegame che mi ruppe il gatto gli dissi fuor di me: "Sii maledetto"; ed è creatura di Dio! – C'è altro? – Frequento un giovanotto, e ci sono stata a letto. – E lì cosa è successo? – Un po' di tutto. – Cioè? Sempre, m'immagino, per il dritto. – Anche al rovescio... – Oh che peccato brutto! Dunque, a causa di questo giovanotto, tornate, figlia, con cuore trafitto, domani, a casa mia, verso le otto.
IMMAGINI. 1. Dietro le grate del confessionale (vignetta di N.Valerio 2010), il solito cinismo ideologico dei confessori. 2. Prete confessa una giovane donna (stampa popolare dell'Ottocento). 3. Un confessionale. 4. Donna inginocchiata davanti al confessore (stampa dell'Ottocento). 5. Durante e dopo la confessione (stampa satirica anti-cattolica, Stati Uniti 1895). La satira metteva in rilievo il plagio delle giovani penitenti da parte dei preti cattolici. 6. Un ricco, esagerato, confessionale in stile rococò.

3 aprile 2010

Uova, brodo, vino a barili, dolce e testicoli: è la Santa Pasqua

 

Pasqua in casa nel sonetto Belli (dis. Attalo)

Altro che passivo cronista dei popolani di Roma, come vorrebbe qualcuno. Talvolta è il ritratto della minuta borghesia, fatto però col linguaggio del popolaccio, a rivelarsi una specialità del Belli, che alterna in continuazione i due livelli con effetti stridenti, sempre irridenti e sardonici.

Così, il sonetto dedicato ai preparativi culinari e all'atmosfera domestica che alla vigilia della Pasqua cristiana regna o dovrebbe regnare in ogni casa, secondo un’ideale da "minenti" (popolani arricchiti e pretenziosi, oggi diremmo piccolo-borghesi del vorrei-ma-non-posso), si risolve nel tipico binario belliano.

In superficie, un’apparente e irreprensibile ortodossia formale nei confronti della prima festività della religione cattolica. Ma in secondo piano traspaiono particolari che, se ben analizzati, fanno da elementi di contrasto grotteschi e canzonatori. E che danno un possibile significato subliminale all’intero sonetto. Altrimenti, non si capirebbe perché il satirico Belli avrebbe dovuto parlare della Pasqua, vogliamo dire in modo convenzionale e banale.

Lo ha capito perfettamente il disegnatore Attalo, che ha colto (v. immagine) entrambi i livelli: l’ipocrita omaggio esteriore, tipicamente cattolico, verso la "festa comandata" (come se devozione, gioia e piacere potessero darsi dall’alto, a comando), e sottotraccia i particolari comici che dicono tutto il contrario.

Tutto un percorso in discesa: dalla spiritualità della ricorrenza al rito abitudinario imposto, fino alla materialità e volgarità della "magnata", cioè l’eccesso di cibi ricercati, fiaschi di vin di Orvieto e interi barili di vino locale, insomma l’ostentazione di una finta opulenza di circostanza, anch’essa d'obbligo, che stride maledettamente con l’elogio del povero che fa il Cattolicesimo.

Mito pauperistico che, però, continua ad imporsi per contrasto, nonostante, anzi proprio perché Curia romana, vescovi, cardinali e pontefici, si sa, vivono nell’oro e nello sfarzo. E perfino l’ultimo pretonzolo di rione, dice più volte il Belli in vari sonetti, cerca di accumulare quanti più baiocchi può, magari intascando una multa per ogni bestemmia detta dai parrocchiani.

Ed ecco l’uomo, il capofamiglia, nell’atteggiamento plasticamente strafottente "alla Attalo", nella posa tipica della tradizione maschilista del bullo romanesco (testa e spalle piegate all’indietro, come di chi guarda ostentatamente dall’alto in basso), acchittato per quanto gli è possibile in modo appariscente come un mezzo "paìno", con cappello imponente ma probabilmente liso e l’abito della festa coi pantaloni lunghi, che in certi casi poteva anche essere comperato usato dal "cenciarolo" del Ghetto e poi magari rimesso a nuovo dalla "sòcera" esperta o dalla moglie. Moglie che per l’occasione indossa uno scomodo ampio abito festivo ricco di volants e nastri, sicuramente poco adatto ai lavori di cucina, e chissà quanto "unto e bisunto" a fine giornata.

E in questa lotta tra l’essere, il voler essere e l’apparire, non dobbiamo meravigliarci se anche il menù rappresenta un gustoso contrasto tra diversi ceti sociali e relative "rispettabilità" esteriori. Passiamola in rassegna questa sintesi tutta belliana dei luoghi comuni da “pranzo popolare della festa” piccolo-borghese. Con la solita stoccatina finale…

Il "brodetto" della povera cultura contadina fatto con le uova sbattute, come la stracciatella, versato su grandi fette di pane nero, era ottenuto eroicamente con ossa, nervetti, scarti o rimasugli di carni, spesso avuti gratis dal macellaio, e croste di formaggi.

L’italianissima "zuppa inglese" del pranzo festivo alto-borghese, che come tutte le cose nuove o strane o chic nella xenofila Italia deve avere un nome straniero, come poi testimonierà l’Artusi, teorico di questa e di altre mistificazioni culinarie, che però - ammettiamolo - unificò l’Italia, almeno a tavola. Dolce ottocentesco e novecentesco, ma tecnologico, nordico e "artificiale", semmai più piemontese-liberale che reazionario-papalino (vuole il "pan di Spagna" - aridaje - o i "savoiardi" che, come dice il nome, alludono alla Savoia…), ovviamente ignoto agli Inglesi, così come i Russi ignorano l’italianissima "insalata russa", i Turchi non conoscevano il granturco, tantomeno gli scomparsi Saraceni il grano saraceno, mentre i portoghesi non solo erano costretti a intrufolarsi senza mai pagare il biglietto ma erano anche incolpevoli dell'invenzione del latte alla portoghese e dei "portogalli" (le arance al tempo del Belli).

E poi i salumi dell’immaginario Bengodi popolare italiano, già ben descritto da Boccaccio, in realtà tipico dei ricchi contadini e, per derivazione dall’inurbamento, anche dei neo-cittadini piccolo-borghesi ma ex-contadini, visto che in alto gli aristocratici preferiscono il "nobile" arrosto, e in basso i poveri e diseredati di città descritti dal Belli non se li possono certo permettere, tranne il lardo.

E, ancora, il particolare medio-borghese e aristocratico di quelle primizie romane non di sostanza, ma puramente di gusto e di scena, costose ancor oggi, che oltre ai fiori e alle piante odorose che decorano la tavola (l’erba di S.Maria dovrebbe essere Balsamite odorosa o major, detta anche erba della Madonna o di S.Pietro; la perza è forse la maggiorana), sono i veri e propri "fiori della tavola" mangerecci, cioè i carciofi, che il popolino romano dei "senza terra" a primavera sognava, e duecento anni dopo, con i prezzi che corrono, sogna ancora.

E infine il tocco dissacrante dei "granelli", i testicoli, probabilmente di agnellone o capretto, che di solito nelle trattorie venivano alternati nello spiedo ai carciofi, in un’accoppiata molto ricercata nella povera Roma papalina che - forzatamente vegetariana senza saperlo - si accontentava nelle solennità di economici sottoprodotti della macellazione, come trippe, teste, rigaglie, lingua, creste, code, interiora, cervelli, rognoni, budelli d’intestino di agnellino da latte (con tutto il loro contenuto nella "pajata"), e appunto i testicoli, ritenuti a torto afrodisiaci, ma che oggi risulterebbero per la sensibilità comune leggermente raccapriccianti.

I testicoli di capretto, un mangiare sapido e rozzo da lavoranti del mattatoio di Testaccio, proprio il giorno della Resurrezione del Signore?

Sì. un particolare curioso, questo, che il Belli poteva evitare, vista l’occasione. Ma se non l’ha evitato, c’è il sospetto che sia voluto, eccome, anzi, che abbia voluto dire e non dire qualcosa, com'è solito suo. Per celebrare degnamente la "gloria" non di Dio, s'intende, ma di Santa Madre Chiesa (una differenza semantica che l'erudito Belli conosce bene), il diavoletto belliano pare aver prevalso sull’angelo custode, insinuando che perfino a tavola l’imbastardito popolaccio romano ritenesse più adatti di ogni altra cosa, per quella e per altre sacre festività, dei semplici coglioni.
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LA SANTA PASQUA
Ècchesce a Ppasqua. Ggià lo vedi, Nino:
la tavola è infiorata sana sana
d’erba-santa-maria, menta romana,
sarvia, perza, vïole e ttrosmarino.
Ggià ssò ppronti dall’antra sittimana
diesci fiaschetti e un bon baril de vino.
Ggià ppe ggrazzia de Ddio fuma er cammino
pe ccelebbrà sta festa a la cristiana.
Cristo è risusscitato: alegramente!
In sta ggiornata nun z’abbadi a spesa
e nun ze penzi a gguai un accidente.
Brodetto, ova, salame, zuppa ingresa,
carciofoli, granelli e ’r rimanente,
tutto a la grolia de la Santa Cchiesa.

19 aprile 1835
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Versione. La Santa Pasqua. Eccoci a Pasqua. Già lo vedi, Nino, la tavola è tutta quanta infiorata d’erba di S.Maria, menta romana, salvia, maggiorana, viole e rosmarino. Già sono pronti da una settimana dieci fiaschetti di vino di qualità e un buon barile di vino comune. Già per grazia di Dio il camino fuma, per celebrare questa festività alla cristiana. Cristo è risorto, allegria! In questa giornata non si badi a spese, e non si pensi per niente ai guai. Brodetto, uova, salame, zuppa inglese, carciofi, granelli, e il resto. Tutto in gloria della Santa Chiesa.
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IMMAGINE. La Santa Pasqua. Disegno di Attalo, in V. Metz, La cucina di G.G.Belli, ed. Gattopardo, Roma 1972.

 
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