3 novembre 2013

Non c’è più religione: anche lo Stato del Papa ricorda il Belli.

IL 150° ANNIVERSARIO DELLA SCOMPARSA (21 DICEMBRE 1863).

Se è vero che il Belli patì i guai suoi più da vivo che da morto, è ancor più vero che le sue “fortune” le sta godendo, poveretto, più da morto che da vivo. Del resto, tranne Victor Hugo che ebbe in vita perfino una strada col suo nome (e immaginiamo che dovesse sentirsi più morto che vivo quando vi passeggiava), tutti i Grandi sono “postumi”, cioè riconosciuti grandi dopo la morte. E il Belli parecchi decenni dopo la morte. Ma come, in Italia non bastava morire per diventare qualcuno? Come un tempo in Unione Sovietica e oggi nella Chiesa. Nel primo caso il dittatore di turno faceva celebrare come “eroe della Rivoluzione” i suoi predecessori. Nel secondo caso i Papi di oggi stanno prendendo il vizio di fare Beati e Santi, spesso a furor di popolo (v. il famigerato grido “Santo sùbito”), quasi tutti i loro colleghi trapassati. Cose che neanche sotto i Borgia...

Visto, dunque, che in Italia diventa un Grande, una volta nella tomba, qualunque personaggio appena noto, quando ormai sigillato nella bara e oppresso da tonnellate di marmo è finalmente in condizioni di non nuocere e quindi non dà più fastidio ai concorrenti, agli invidiosi o al Potere, figuriamoci se non meritava onoranze, e coi fiocchi, il grande Giuseppe Gioachino Belli, unico, vero cantore del popolo di Roma, i cui bozzetti di carattere e d’ambiente restano tuttora ineguagliati, e ridicolizzano perfino nella lingua e nella tecnica del verso i suoi inadeguati e tardi epigoni Trilussa e Pascarella, che hanno grazie al finto romanesco all’acqua di rose molti più lettori.

L’ITALIA UNA MONETA, IL VATICANO UN FRANCOBOLLO.

Perciò, anche se siamo abituati ai 100 e 200 anni, e le mezze misure dei 50 e 150 anni ci emozionano poco, siamo lieti che lo Stato italiano si sia ricordato del 150.o anniversario della scomparsa del Belli, tanto da organizzare un “Anno belliano”. E’ noto che nelle ricorrenze i burocrati della cultura, incerti se essere intellettuali critici o impiegati dell’Anagrafe, indugiano morbosamente sulle date come vecchie zie di provincia, e anzi ricordano morbosamente più il momento della morte che quello della nascita, sorvolando magari sull’intera lunga vita – peggio se imbarazzante, drammatica e contraddittoria – come fu quella del Belli.

Fatto sta che la cosa più preziosa di questo “ricordo” statale è stata una moneta celebrativa d’argento (valore facciale 5 euro; venduto dalla Zecca di Stato a 43,50 euro, spedizione esclusa), formalmente a corso legale ma in realtà per collezionisti numismatici e investitori, che ha un dritto bello ma un rovescio brutto e irriconoscibile (v. sotto): un pezzo del tempio di Vesta con un campanile sullo sfondo. Risultato: primo premio del peggior panorama di Roma d’ogni tempo! E poi, perché “G. Gioachino Belli” anziché G. G. Belli, o al limite Giuseppe G. Belli, cioè mettere in risalto il secondo nome, quando lui stesso firmava per scherzo i primi sonetti “Peppe er tosto”? Insipienza di burocrati ed “esperti”. In più, è stata organizzata una serie di Convegni.

Moneta 5 euro 150.o scomparsa GG Belli Zecca Italia,dritto 2013

Il Vaticano, invece, sorprendendo quasi tutti, soprattutto i conoscitori superficiali dei Sonetti, ha stampato un francobollo, ovviamente brutto (famigerata è ormai l’estetica della Chiesa oggi) e con un valore inesistente tra le tariffe postali (1 euro). Come a dire: vabbe’, il dovere nostro lo abbiamo fatto, ma ‘sto francobollo non lo vogliamo vedere mai sulle buste della Posta vera, reale: resti un valore virtuale, nascosto nelle raccolte segrete dei collezionisti filatelici.

IL VATICANO SCEGLIE IL SONETTO SUL GIUDIZIO UNIVERSALE.

Come è stato presentato ai filatelici? Un foglietto di sei francobolli da 1 euro, reso più elegante dalla stampa in corsivo, al centro della composizione, d’un sonetto. Immaginiamo il dramma dei funzionari delle poste: quale scegliere tra i tanti, molti dei quali di argomento “religioso” o “ecclesiastico”, sì, ma fortemente critici e satirici? Probabilmente dopo aver sentito – vista la delicatezza del caso – il cardinale Governatore e forse anche qualche prelato esperto “belliano” (ce ne sono, ce ne sono), hanno optato per Er giorno der Giudizzio, un sonetto di argomento biblico tra i più innocui, dal sapore caricaturalmente michelangiolesco, ma sconclusionato e comico come un tema di bambini alle elementari. Certo, complimenti all’autoironia dei prelati del Vaticano, ma si sa che loro, come diceva il perfido matematico Odifreddi, alle interpretazioni infantili delle Sacre Scritture sono abituati. Non è forse la religione, e quella cristiana con dichiarata consapevolezza, tanto più se cattolica, una narrazione fantasiosa adatta a coloro che non usano il senso critico, cioè per dirla col migliore eufemismo possibile, i “semplici di spirito”?

ER GIORNO DER GIUDIZZIO

Cuattro angioloni co le tromme in bocca
Se metteranno uno pe cantone
A ssonà: poi co ttanto de voscione
Cominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca.
Allora vierà ssù una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe rripijjà ffigura de perzone
Come purcini attorno de la bbiocca.
E sta bbiocca sarà ddio bbenedetto,
Che ne farà du' parte, bbianca, e nnera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.
All'urtimo usscirà 'na sonajjera
D'angioli, e, ccome si ss'annassi a lletto,
Smorzeranno li lumi, e bbona sera.

25 novembre 1831

Versione. Il giorno del Giudizio [Universale]. Quattro angioloni con le trombe in bocca si metteranno uno per cantone a suonare; poi con tanto di vocione cominceranno a dire: Fuori a chi tocca. Allora verrà fuori dalla terra una fila di scheletri a pecoroni [“camminando, cioè, con mani e piedi”, spiega il Belli in nota] per riprendere l’aspetto di persone, come pulcini attorno alla chioccia. E questa chioccia sarà Dio benedetto, che ne farà due parti, bianca e nera. Una per andare in cantina, una sul tetto. Alla fine uscirà un formicaio [è il Belli stesso che suggerisce la traduzione, anche se non ci convince] d’angeli e, come se si andasse a dormire, spegneranno i lumi e buona notte! 

Foglietto Poste Vaticane 150.o scomparsa GG Belli (2013) MORI’ CON LO SCALDINO IN MANO.

L’anniversario del 150.o della scomparsa cade pochi giorni prima di Natale. Il Belli, freddoloso com’era, neanche a farlo apposta morì in pieno inverno, nel gelo del 21 dicembre 1863, alle ore 20 e 30, simbolicamente con uno scaldino in mano, per un colpo apoplettico – come riferì il figlio – a quanto si legge nel bellissimo e introvabile libro di S. Rebecchini, ingegnere-umanista e già sindaco di Roma, Giuseppe Gioachino Belli e le sue dimore (Palombi ed. 1987), ristampa rara e numerata di quella del 1970, di cui l’editore ha voluto farci dono della copia n.177.

ANNO “BELLIANO”? MA IL BELLI, ANCHE PER COLPA DEI “BELLIANI”, E’ ANCORA UN ILLUSTRE SCONOSCIUTO.

Fatto sta che l’anniversario è stata una sorpresa innanzitutto per i “belliani”. E’ stato accompagnato da un mediocre e clandestino “Anno belliano” di Convegni, noto solo ai pochissimi che lo hanno organizzato, ai relatori, e ai funzionari che per lavoro ricevono i comunicati ufficiali. L’iniziativa di Marcello Teodonio, a cui, certo, siamo grati per l’inserimento, anni fa, del Belli e della letteratura romanesca nei programmi dell’Università di Roma Tor Vergata, e per l’acquisizione filologica del testo originale dei Sonetti, che ora una redazione specializzata in informatica ha riversato su internet, non ha purtroppo avuto successo, cioè risonanza sulla stampa e presenza popolare, sia perché egli stesso appare inadatto alla divulgazione, mantenendosi volutamente lontano da internet (basta dire che non siamo neanche riusciti a trovare il suo indirizzo email per fargli conoscere il presente sito!), sia perché anche gli altri organizzatori degli eventi belliani non sono all’altezza del compito o non vogliono comunicare al largo pubblico. Insomma, come sempre in Italia: sono gli “specialisti” o gli accademici, in questo caso i “belliani”, i primi responsabili dell’incultura del pubblico. Perciò, se questi sono gli “amici” del Belli, figuriamoci i nemici!

Infatti, perdura, fino a essere ormai cronica, l’ignoranza dei Sonetti, l’unica opera geniale del Belli di cui valga occuparsi, in Università, accademie, associazioni culturali, scuole, giornali, televisione, internet e perfino in singoli “uomini di cultura” della stessa Roma. Non meravigliamoci, perciò, se non a Torino o a Trento, ma proprio a Roma, l’uomo della strada o non li conosce affatto, ricordando semmai in alternativa qualche facile banalità di Trilussa o Pascarella, oppure, quando li ricorda, li orecchia in modo superficiale, impreciso, volgare, equivoco, puramente salace e sottoculturale. E, da parte loro, gli intellettuali e studiosi belliani, a forza di scoprire “altri aspetti” o “angoli nascosti” nella vita e nella caotica produzione belliana, come se gli sembrasse banale e ovvio continuare a riferirsi ai Sonetti, ormai finiscono per darli per scontati, risaputi, e perciò ne parlano poco. Basta vedere il brutto sito della Associazione belliana.

Risaputi un corno! Benché bisognosi di revisioni e correzioni che l’autore non ebbe mai il tempo e la volontà di fare, i Sonetti sono, a nostro parere, l’unica cosa valida del Belli. Ebbene, nessuno li divulga correttamente, con la grafia giusta, e soprattutto li spiega, traduce, analizza, commenta, critica e inquadra nel loro tempo, usando un buon italiano, tantomeno li riferisce all’oggi per le eventuali coincidenze d’attualità. I Sonetti sono difficili, spesso molto difficili e di non chiara interpretazione, e con titoli quasi sempre fuorvianti. Non possono, quindi, essere soltanto pubblicati e basta, senza analisi e commento, spesso anche in modo scorretto, come fanno praticamente tutti i siti di internet. Perciò siamo stati costretti ad aprire questo sito-blog.

SORPRESA: L’ANTIPAPALINO CELEBRATO DALLO STATO DEL PAPA.

Ma l’anniversario ha avuto almeno il merito di mettere per la prima volta d’accordo lo Stato italiano e quello della Città del Vaticano. E già, quando gli “eroi postumi” sono indigesti, in Italia devono fare i conti anche con una Nemesi crudele, quella dell’ottusità della burocrazia o dei bozzetti mediocri che dovrebbero celebrarli. Così il Caso si vendica non facendo sapere quel poco che accade, contando anche sull’ignoranza dei giornalisti e del pubblico, e soprattutto facendolo eseguire male.

Moneta 5 euro 150.o scomparsa GG Belli Zecca Italia, rovescio 2013Ha sorpreso tutti i giornalisti che la Chiesa, attraverso il suo braccio secolare, lo Stato della Città del Vaticano, abbia finalmente celebrato l’autore dei sonetti più virulenti contro  Papi, Curia romana, cardinali, vescovi, monsignori, parroci, preti, monaci, e la Chiesa stessa, autore che in qualche sonetto fa satira troppo acidula perfino sulla religione, però ipocritamente, sempre facendo parlare il popolo plebeo. Ecco, per esempio, quello che il tipico popolano del Belli pensa dei Papi in genere (e si potrebbero trovare versi ancora più duri): Er Papa, 26 novembre 1831, incipit:

Iddio nun vô cch’er Papa pijji mojje
pe nnun mette a sto monno antri papetti:
sinnò a li Cardinali, poverelli,
je resterebbe un cazzo da riccojje.

Versione. Iddio non vuole che il Papa prenda moglie, per non mettere al mondo altri papetti. Se no, ai Cardinali, poverelli, non gli resterebbe nulla da raccogliere.

E un Papa vale l’altro, tanto si sa, pensa il Belli-popolano, in fondo è solo un politico (L’upertura der Concrave, 2 febbraio 1831):

Bbe’? cche Ppapa averemo? È ccosa chiara:
o ppiù o mmeno la solita-canzona.
Chi vvôi che ssia? quarc’antra faccia amara.
Compare mio, Dio sce la manni1 bbona.
Comincerà ccor fà aridà li peggni,
cor rivôtà le carcere de ladri,
cor manovrà li soliti congeggni.
Eppoi, doppo tre o cquattro sittimane,
sur fà de tutti l’antri Santi-Padri,
diventerà, Ddio me perdoni, un cane.

Versione. Be’, che Papa avremo [dopo il Conclave]? E’ chiaro: più o meno la solita canzone. Chi vuoi che sia? Qualche altra faccia amara. Compare mio, Dio ce la mandi buona. Comincerà col restituire i pegni [del Monte di Pietà], collo svuotare di nuovo le carceri dei ladri, col manovrare i soliti congegni [del consenso popolare, della demagogia]. E poi, dopo tre o quattro settimane, come hanno fatto tutti gli altri Santi Padri, diventerà, Dio mi perdoni, un cane.

E altro che “Belli liberale”. Se il Papa è debole, senza idee né azione, insomma visibilmente inadatto al ruolo, come Gregorio XVI, nel Momoriale ar Papa (4 febbraio 1832), il Belli lo incita a essere più duro e autoritario, a usare l’arma della scomunica contro i furbi e prepotenti, fossero pure aristocratici e cardinali. Stavolta una posizione “di Destra”, diremmo oggi:

MOMORIALE AR PAPA
Papa Grigorio, nun fà ppiù er cazzaccio:
Svejjete da dormì Ppapa portrone.
San Pavolo t'ha ddato lo spadone,
E ssan Pietro du' chiave e un catenaccio?
Duncue, a tté, ffoco ar pezzo, arza cuer braccio
Su ttutte ste settacce bbuggiarone:
Di' lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
Serreje er paradiso a ccatenaccio.
Mostra li denti, caccia fora l'oggne,
Sfodera una scommunica papale
Da fàlli inverminì ccom'e ccaroggne.
Scommunica, per cristo e la madonna!
E ttremeranno tutti tal e cquale
Ch'er palazzo der prencipe Colonna.
4 febbraio 1832

Versione. Il memoriale al Papa. Papa Gregorio, non fare più il buono a nulla: svegliati, Papa poltrone. San Paolo t’ha dato lo spadone e San Pietro due chiavi e il catenaccio? Dunque, a te, dà fuoco al cannone, alza quel braccio contro tutte queste brutte sètte del cavolo: dì il tuo scongiuro, fagli il segno della croce, chiudigli il paradiso a catenaccio. Mostra i denti, tira fuori le unghie, sfodera una scomunica papale da farli ricoprire di vermi come carogne. Scomunica, per Cristo e la Madonna! E tremeranno tutti, come il palazzo del principe Colonna [che tremava, secondo il popolino, a ogni scomunica papale.

SBAGLIANO I GIORNALISTI A GRIDARE ALLO SCANDALO.

Non c’è teologo che non potrebbe sottoscrivere questi e infiniti altri versi di denuncia contro la religione che diventa politica, demagogia, gusto per il potere, avidità di beni e corruzione, ma anche mollezza e pigrizia, anche e soprattutto nelle alte sfere della Chiesa. Perciò i commentatori sbagliano, mostrando incultura, superficialità davvero grossolana, e soprattutto una madornale incapacità di distinguere in modo critico concetti, idee e psicologia del Belli. Insomma, sapevamo che il Belli è poco letto, ma non credevamo che perfino i lettori del Belli equivocassero sul significato e il senso di molti Sonetti, scambiando magari anticlericalismo e critica moralistica di costume per agnosticismo. Noi che conosciamo un pochino il Belli, invece, non ci siamo meravigliati più di tanto. E la Chiesa, una volta tanto, ha ragione: ha fatto benissimo a celebrare il suo Dr. Jekyll-Mr Hyde, l’oscuro impiegato di giorno baciapile e di notte verseggiatore sferzante e diabolico.

MA LA CHIESA OGGI E’ D’ACCORDO CON LA CRITICA MORALISTICA DEL BELLI.

A leggere e interpretare correttamente i Sonetti, anche i più anticlericali e anti-ecclesiastici, si scopre che il pessimista Belli, che mette sempre in bocca al popolino il proprio pensiero, potrebbe essere considerato o un cattolico fondamentalista vecchio stile o un moderno moralista ecclesiale, un giansenista si sarebbe detto nell’800, in qualche caso addirittura un cristiano protestante. Più che anti-cattolico, anti-cristiano, o tanto meno ateo. Vero è, però, che il pessimismo dei suoi personaggi spesso sembra tendere a negare la verità stessa della religione. Infatti il Samonà propende per un dissidio tra ragione e religione che nel Belli sfocia alle volte in una sorta di negatività quasi materialistica, fino a punte di vera e propria miscredenza. Insomma questo aspetto del Belli appare contraddittorio e non facile da studiare.

Certo, sarebbe stato scomunicato e i suoi Sonetti sarebbero stati messi all’Indice, se fossero stati integralmente pubblicati sotto papa Pio IX. Ma perché la Chiesa dell’800 – tentano di spiegare oggi i cattolici – era ancora fondata sul braccio secolare, autoritario e armato, e non poteva ammettere il dissenso o il dubbio. Infatti, per i grandi cattolici liberali che fecero il Risorgimento, a partire dal romano Massimo d’Azeglio, la perdita del Potere temporale avrebbe giovato alla stessa religione cattolica riportandola a una dimensione più spirituale, oltre che alla libertà delle coscienze. Era questa anche l’idea di papa Montini, Paolo IV, che elogiava Porta Pia. E nei Sonetti il Belli, o da destra o da sinistra, è sempre contro il potere temporale dei Papi.

Del resto, pur nella satira più sferzante, non attacca mai la figura di Gesù in quanto tale o i fondamenti della fede cristiana (salvo descriverli in modo scanzonato e ironico, insieme con gli altri personaggi del Vecchio e Nuovo Testamento), ma le degenerazioni, l’incoerenza e i vizi dei cattolici in carne e ossa, con o senza l’abito talare. Ecco perché mette alla berlina preti, monaci, vescovi e papi che hanno tralignato, tradito, ingannato sia il popolo sia la stessa Chiesa (intesa come religione), quando questa proclama – se è in buona fede – il messaggio di Dio.

G.G.Belli, in fondo, visto in modo intelligente e paradossalmente laico da Oltre-Tevere, non ha fatto altro che puntare l’occhio sulla contraddizione aspra tra teoria e realtà nella Chiesa (Curia, sacerdoti e fedeli), tra missione originaria affermata e condizione effettiva, tra povertà asserita e ricchezza praticata, tra altruismo predicato ed egoismo concreto, tra bontà auspicata e cattiveria manifestata, tra buone pratiche e superstizione, tra semplicità ostentata (la rinuncia al mondo dai sacri Testi) e il formalismo, la pompa e le cerimonie dell’apparato della Chiesa. Sono proprio gli argomenti di qualsiasi buon parroco. E non da oggi.

Temi sui quali, a parole, tutti i “veri” o i “nuovi” cattolici erano e sono d’accordo, salvo poi non trarre le conclusioni da un fallimento durato due millenni. Un tempo, forse, erano cose da protestanti, ma oggi no. Perfino il mensile cattolico 30 Giorni (sottotitolo eloquente: Nella Chiesa e nel Mondo), diretto dal cattolicissimo Giulio Andreotti, commentò favorevolmente a firma di S. Ravaglioli i quattro sonetti satirici del Belli in occasione del Giubileo straordinario del 1832. L’autrice, che si capisce essere una buona conoscitrice del poeta romano, sottoscrive pienamente fino a usarla come titolo l’efficace conclusione del III sonetto della serie di quattro: “un Giubbileo ppe ttanti ladri è ppoco”.

MONTINI: IL FUMO DI SATANA. FRANCESCO: NO AL DENARO E SI’ ALLA COERENZA.

Dice: va be’, ma “in alto loco”? Lo stesso, anzi, meglio. Non solo l’ultimo papa, Francesco, ma perfino i suoi predecessori, soprattutto Benedetto XVI e Paolo VI hanno preso posizioni che qualcuno potrebbe definire “belliane”. Papa Montini addirittura scandalizzò qualche vecchio prelato di Curia (e ancor più i giornalisti) denunciando chiaro e tondo: «Attraverso qualche fessura, il fumo di Satana è entrato nella Chiesa» (29 giugno 1972). Cose simili ha detto e ridetto con parole di fuoco papa Ratzinger, contro i preti pedofili e non solo. E non parliamo di papa Francesco! Non solo contro l’accumulazione e ostentazione della ricchezza da parte dei religiosi, ma sull’esistenza stessa di una banca vaticana (a proposito, era stato proprio Pio IX, uno dei papi del Belli, a creare lo IOR), e perfino contro – udite, udite – l’ossessione del proselitismo, da sempre una costante della Chiesa, e la poca coerenza morale dei cristiani, clero e laici. E così via. Insomma, altro che Belli: sembra di sentir parlare un pastore protestante.

E allora, dov’è lo scandalo, signori commentatori e giornalisti laici che andate scrivendo che questo francobollo vaticano sul Belli è “rivoluzionario”? Semplice: scrivete così perché siete ignoranti della materia. Belli è sfaccettato e difficile, va letto, riletto e interpretato, anche perché usa una lingua complessa, e non basta conoscere due o tre sonetti scorrendo distrattamente gli altri titoli.

Non solo il Belli, dunque (se avesse fatto pubblicare i Sonetti in vita), ma se fossero stati semplici preti o vescovi, anche i gli stessi Papi che abbiamo detto avrebbero passato i guai loro a dire quelle cose alcuni secoli o decenni fa, perfino ai tempi di Gregorio XVI, Pio IX e Pio XII. Sarebbero stati scomunicati e ridotti allo stato laicale, come pochi anni fa toccò al domenicano Dom Franzoni, reo di aver detto e scritto cose simili a quelle del Belli, di papa Paolo e di papa Francesco.

IL VERO SCANDALO, PIUTTOSTO: DIVULGATORI INADEGUATI E SONETTI DIMENTICATI.

Quindi, nessuno scandalo ideologico. Semmai di deficit culturale. «In un Paese dove “s'incavajjèra mó cqualunque vizzio” (Li cavajjeri), non si è trovato un onorevole ministro né uno straccio di burocrate che abbia avuto il senno di celebrare l'anniversario della morte di Belli, genio incontrastato e universale, di cui ancor oggi si traduce in tutto il mondo la sublime invenzione, il sarcasmo e l'ironia», ha scritto in un’accorata lettera alla redazione romana del Corriere della Sera il poeta romano Lucio Mariani, cultore del Belli. A cui il cronista P. Conti ha risposto in modo evasivo evitando accuratamente di prendere posizione e di condividere la minima critica. Tipico della stampa italiana.

Un neo organizzativo e comunicativo, ripetiamo dopo averlo accennato sopra, e quindi anche culturale. E’ che un francobollo e una moneta, e perfino una serie di Convegni – dai temi un po’ troppo laterali ed eccentrici, però, rispetto ai Sonetti belliani – vista l’assoluta mancanza di pubblicità e di partecipazione popolare, non servono a nulla e a nessuno, e che niente si fa in pratica per diffondere tra i giovani, perfino a Roma, la lettura e l’esegesi critica dei Sonetti belliani. Anzi, sul testo vero e proprio dei Sonetti, neanche ci sono più gli studiosi che se ne occupano in modo critico, magari mettendo a disposizione del pubblico informatico quello che studiano. Addirittura dal testo “definitivo” a cura di Teodonio, riportato su Wikisource, sono state espunte le note aggiuntive del Vigolo, che almeno servivano a riempire sul web qualcuna delle numerose mancanze esplicative ai lemmi più oscuri, costringendoci così a fare spesso ricorso all’insostituibile opera del Vigolo, che risale al 1952, e ad altre opere cartacee.

Il Belli, insomma, tra tanti siti internet sottoculturali, volgari e di basso livello che si limitano a copiare – pure malamente – alcuni suoi sonetti senza tradurli, spiegarli e commentarli (anche perché così i loro autori rivelerebbero la loro bassa cultura, cioè di averli capiti poco o nulla), è ancora sconosciuto in Internet – che ormai è la Biblioteca d’Alessandria dei nostri tempi – come fenomeno culturale, e con un minimo di apparato interpretativo. I Sonetti del Belli, ripetiamo, per essere divulgati non possono essere copiati e incollati da qualunque becero, né fatti leggere da un attore qualsiasi, quasi sempre con pessima pronuncia e spelling incomprensibile, ma vanno sempre trascritti con la grafia corretta e “accettata”, tradotti, inquadrati, spiegati verso per verso e complessivamente, e infine commentati. Un lavorone. Quello che, seppure con pigrizia, fa il presente sito. Insomma, i Sonetti non solo sono cultura, ma pretendono anche molta cultura. Hanno come oggetto il volgo, è vero, ma vogliono fior d’intellettuali muniti di competenze plurime per essere capiti e divulgati. Passi per il largo pubblico, ma è grave che burocrati della Cultura e appassionati del Belli non lo capiscano. Questo, sì, il vero scandalo.

AGGIORNATO IL 10 APRILE 2014

2 novembre 2013

E se la zitella dice no? Perdo la testa e me la sbatto in un portone

Jane Austen scrittrice zitellaUna “bella zitella” un po’ sfiorita ma appetitosa, una di quelle procaci quarantenni che oggi in fatto di forme possono dare dei punti alle adolescenti smunte e dalla pelle grigia (a forza di notti in bianco, sigarette e alcol), ma che nonostante i suoi apparenti “trent’anni”, per niente offuscati da qualche ruga, ha lo sguardo triste che le risa sforzate non riescono a nascondere, e qualcosa dentro che la appesantisce, la invecchia. E quante ce ne stanno! Ma stiamo parlando di oggi.

Invece, ai tempi del Belli, quando le donne si sposavano prestissimo, ancora adolescenti, la zitella più comune era un’altra: qualsiasi ragazza vergine o anche donna non vergine “in età da marito”. E’ lo stesso poeta a chiarirlo (sonetto Er zitellesimo, in nota): “zitella, presso il popolo è tanto la non maritata, quanto la vergine, cose fra loro differentissime”. E già. Ma su questo equivoco le ragazze vivevano e prosperavano, il vicinato spettegolava, ma la morale del vicolo era ufficialmente salva. Impossibile sapere la verità. Dopotutto che è la verità? si chiederebbe Pirandello. Bisognerebbe chiederlo a “padron Bebberebbè” (personaggio caricaturale, di fantasia – nota il Vigolo – tanto la domanda è assurda per il Belli):

ER ZITELLESIMO
È zzitella la fijja de Chichì?
Indovinela-grillo si sse pò.
Ce sò cquelli che ddicheno de sì,
Ce sò cquelli che ddicheno de no.
Io mo in cusscenza nu lo posso dì,
Da cristian battezzato nu lo so.
Sò ggabbole, Andrea mia, cueste che cquì
Che bbisogna vedelle ar Pagarò.
Si tte discessi cuer che ppare a mmé,
Io saría d’oppignone che la dà,
Co tuttosciò che ll’ha nnegata a tté.
Ma ssi tte preme sta materia cquà,
Dimànnelo a ppadron Bebberebbè:
Lui solo te pò ddì la verità.
28 gennaio 1832

Versione. La verginità. E’ zitella la figlia di Chichì [diminutivo di Francesco]? Indovinala-grillo se si può. Ci son quelli che dicono di sì, ci son quelli che dicono di no. Io ora in coscienza non lo posso dire, da cristiano battezzano non lo so. Sono cabale, Andrea mio [una stranezza dell’uso popolare romano, qui e in altri sonetti, l’aggettivo al femminile per assonanza con un sostantivo che finisce in a...], queste qui, che bisogna vedere al pagherò [cioè alla fine, al momento cruciale]. Se ti dicessi quel che pare a me, io sarei dell’opinione che la dà [che si concede sessualmente], con tutto che l’ha negata a te. Ma se ti preme questo argomento, domandalo a padron Bebberebbè [personaggio immaginario, impossibile da trovare]. Solo lui ti può dir la verità.

Donna setina tonda e zitellaIl nome zitella (cittella al Nord Italia, registrato anche dal Tommaseo) è il diminutivo alla latina di zita (v. cita e cittina, in toscano), cioè fanciulla, ragazza vergine, che è anche un nome proprio femminile persiano. Ma la perfidia delle madri ne fa uno spauracchio. «Tu, col carattere che hai, mi sa tanto che non ti mariti: vuoi restare zitella?» predica la madre alle figlie più grandi. E così entriamo nella seconda categoria della “zitella”, quella un po’ denigratoria che è stata ed è tuttora in provincia e nei paesi del sud l’incubo di tante ragazze non più giovanissime. E a furia di prefigurare un futuro maligno e solitario, ecco che il vaticinio della madre o della nonna si avvera.

Fatto sta che tempo dopo la scomparsa del Belli, nel Novecento, il popolino romano prende a usare la parola “zitella” da sola e unicamente nel secondo significato, bollando come epiteto offensivo, lontano dall’uso del Belli e del popolo romano dell’Ottocento, tutte quelle donne ormai nella tarda giovinezza o addirittura nella maturità, irrimediabilmente non fidanzate né sposate, o perché brutte o con qualche difetto fisico o di cattivo carattere o anche riluttanti per predisposizione al maschio, e per questo – riteneva il popolino – un po’ lunatiche, scostanti, piene di manie, talvolta isteriche, ma comunque vogliose. Insomma, si arriva a una sorta di incivile discriminazione che mette alla berlina le malcapitate dipingendole come votate a una vita di privazioni sessuali e affettive. Perfino papa Francesco, scherzando, ha detto alle 800 rappresentanti delle suore di tutto il mondo: «Non siate zitelle!». (8 maggio 2013).

Nel Belli questo tipo di zitella è presente, eccome, perché si presta magnificamente ai suoi bozzetti di satira di costume, ma in questi casi al sostantivo – che da solo, ripetiamo, ha valore neutro – è aggiunto un aggettivo esplicativo e peggiorativo. Come nel caso dello sfogo di auto-compatimento della donna ormai stagionata e senza speranza, forse non bella (La zitella ammuffita), che l’amica Nunziata tenta invano di rincuorare:

E’ inutile pe mmé, sora Nunziata
De dimannamme si mme faccio sposa

Perché io non sono né amata (bbenvorzùta), né richiesta (ariscercata), non ho un nome elegante e vistoso come Llutucarda (Lutgarda), e morirò zitella perché sono nata sfortunata:

Nun me so inzin adesso maritata
E ccreperò accusì; perch’io sò nata
Sott’a qquella stellaccia pidocchiosa.

Eppure, c’era quel cuoco che le stava dietro... Macché, “non c’è vverso de facce capitale” (affidamento): è più fermo di Castel S.Angelo. A meno che – spera la zitella stagionata – non incontri qualche “scarterello” (uomo di scarto, pretendente di mezza tacca) a Carnevale, che era il periodo più adatto alle nuove amicizie e ai fidanzamenti per le recluse donne romane in tempi di maschilismo e clericalismo dominanti. Come che sia, confidiamo nel Signore e in San Pasquale. Chi? Ma Pasquale Baylonne, protettore delle donne:

Bbasta, aspettamo un po’ sto carnovale,
Sì ccapitassi quarche scartarello:
Lassamo fa ar Ziggnore e a ssan Pasquale.

Naturale che poi le zitelle, riferiva l’immaginario delle malelingue del vicolo, fossero vogliose, anzi vogliosissime di sesso, e facciano qualunque cosa pur di maritarsi. Ma molte non si guardano allo specchio e ci provano anche quando appaiono rivoltanti e conciate come maschere orribili, che si esibiscono e si strofinano per accattare un marito (chiosa il Vigolo). Il che, però, contrasta con l’accusa già accennata di indifferenza. Insomma, ogni malignità, anche la più incoerente, poteva essere indirizzata alla povere zitelle.

Ma resiste lo stereotipo popolare della scarsa avvenenza della zitella stagionata, e il Belli non fa nulla per resistervi. Chi volete che se la pigli, così brutta, magra e curva? scrive impietoso nel crudele doppio sonetto che assomiglia a un’invettiva degna di Marziale e Giovenale(La zitella strufinata, I e II, 3 febbraio 1832)?

Tanta smania te viè de fatte sposa?
Ma cchi vvôi che tte pijji? Basciaculo?
O er zor Jaià: pe tté nun c’è antra cosa.
Cuanno vojji però ppropio l’assarto,
Pijja in affitto er buggero d’un mulo,
Cché ssi nnò, bbella mia, mori de parto.

Versione. Tanta smania ti viene di farti sposa? Ma chi vuoi che ti pigli, Baciaculo? [nome di spregio (Belli), o di chi “si suole nominare come soggetto di pretese impossibili o di azioni assurde (Vigolo)], oppure il sor Jaià [modo di dire per uno stupido (Belli)]: per te non c’è altra soluzione. Se però vuoi proprio l’assalto, prendi in affitto il membro d’un mulo [animale sterile], ché altrimenti muori di parto.

jane_austen scrittrice zitella (dis. modif NV sanguigna) Sposarla io? Neanche morto, conferma il presunto pretendente della “zitella strufinata” (parte II): non solo ha un pessimo umore (“tutto quer morzarzo”) ed è mutevole peggio del sol di marzo, non è bella, ed è pure zoppa (“co cquella scianca che tte bbutta in farzo”), ma per fortuna io sono vedovo, e non me la sento “de la padella de cascà a la bbrascia”, cioè di cadere dalla padella nella brace.

Ma un certo tipo di “zitella” giovane, col sesso aveva rapporti stretti. Com’è possibile? Ma sì, nella Roma papalina s’impone a un certo punto la curiosa figura della zitella-puttana, o quasi. E in questo caso, ovviamente, per “zitella” si intendeva soltanto “nubile”. Per questo, il moralismo dei preti, sempre morbosamente attenti alle cose del sesso, riteneva le giovanissime zitelle povere e abbandonate pericolanti”, cioè sempre a rischio di adulterio, prostituzione, accattonaggio e incesto («perfino nella propria casa la ragazza non maritata è considerata in pericolo»”, scrive G. Zarri *), e perciò ricoverate ogni notte in dormitori o alloggiate fino alla maggiore età in appositi Conservatori gestiti da suore. Come quello famoso al rione Regola dedicato ai SS. Clemente e Crescentino, istituito da papa Clemente XII «per le povere orfane comunemente denominate zoccolette» (v. la via omonima), vuoi perché per economia portavano le calzature più economiche, gli zoccoli di legno, vuoi perché una volta uscite di lì, essendo il matrimonio e il servire in case patrizie cose difficili, potevano solo sperare di fare la “zoccola”, cioè la pubblica prostituta. Il nome del resto deriva proprio dalla rozza calzatura, tipica allora di persone rozze, povere e ignoranti, da cui l’analogia con quella condizione (cfr. Ravaro, Diz. Rom.). Ciò non toglie che l’assistenza della Chiesa o di famiglie nobili provvedeva spesso a costituire doti per le zitelle povere o abbandonate più oneste, meritevoli e avvenenti, così da permetter loro di sposarsi. Era questo uno degli scopi del Conservatorio della Ss.Immacolata Concezione di Maria (noto come Monastero delle Viperesche, dal nome della nobildonna mecenate Livia Vipereschi) in via di S.Vito, ai Monti.

Ma nella Roma papalina gravata dall’opprimente controllo pretesco e sociale, le zitelle giovani meno povere, più abili o fortunate perché vivevano a casa propria, riuscivano a dare ad intendere al vicinato d’essere zitelle, solo per attrarre i clienti con la sbandierata“verginità” e poter fare i propri comodi, in realtà concedendosi a tutti. Fatto sta che qualche zitella faceva una vita un po’ troppo disinvolta. Come La zitella dell’omonimo sonetto (8 gennaio 1834), che evidentemente passa da un uomo a un altro, è spesso incinta (la luna che non esce sta per mestruazioni mancate), tanto che il suo amante di turno corre a depositare il neonato alla ruota dell’ospedale S. Spirito, installata apposta per ricevere i neonati abbandonati:

Peccato che la luna in mezz’ar mare
Quarche mmese nun essce, e vve cojjona;
E cche spesso, a Ssaspirito, er compare
Curre a una rota, mette drento, e ssòna.

E doveva pure sbrigarsi e fare tutto di nascosto dai vicini, perché il parroco avrebbe potuto obbligarlo a sposare la donna, com’era legge nella Roma papalina.

Altro che zitella, questa, piuttosto una Santaccia (la celebre puttana di piazza Montanara). Infatti...

... ve se vede in faccia
che vvoi sete zitella a bbocc’uperta
a un dipresso in zur gusto de Santaccia.

Perché a bocca aperta, lo spiega il Belli in nota: a Roma il popolino, quando una zitella non era vera, pronunciava la parola aprendo in modo esagerato la “a”, alludendo alla più nota delle prestazioni sessuali della famosa e popolarissima prostituta.

Comunque, il trucco della ragazza sedicente “zitella” è semplice: non prendere mai ufficialmente marito pur avendone tanti, per poter continuare a fare la “puttanella”. Però col diritto a essere chiamata “zitella”. Che in fondo era anche una salvaguardia di onorabilità pubblica. Dal che si deduce che le ragazze romane al titolo di zitella ci tenevano, eccome: ne andava della loro reputazione. Un po’ come il velo per le ragazze musulmane oggi. Ipocrisie della “morale” in tempi e luoghi arretrati!

E ffussivo magara puttanella,
Nun avenno marito è ccosa scerta
Che v’hanno da chiamà ssempre zitella.

Ma le altre, le vere zitelle? Speranzose e maliziose quanto volete, in apparenza civette, ardite, spesso disposte al gioco di parole e all’allusione, perfino di fervida e maniacale immaginazione (proprio come certe suore giovani fissate sul sesso). Ma poi? Al dunque restano indecise, bloccate, di fronte a un uomo reale. Sono le famose “signorine no” per cui nessun pretendente è adatto o all’altezza, perché loro, si sa, sono tutte principesse, mentre lui è “troppo ordinario”, “troppo basso”, “non si lava”, “ha la barba”, è “volgare” o “puzza di tabacco”. E così, quando sono al momento del dire sì – com’è, come non è – si tirano indietro all’ultimo. Oppure è il pretendente che non si fa più vivo all’improvviso, inspiegabilmente. Ma la vera zitella lascia, più che farsi lasciare.

E anzi, una delle tecniche più furbe per trovare scuse e mandare a monte sempre tutto, non è dire no a tutti, ma lasciar balenare un sì a tutti nello stesso tempo. E’ la sindrome “Mirandolina”, ben descritta dal Goldoni, un tipo di donna del “vorrei e non vorrei”, dell’amore in testa ma non tra le gambe, insomma d’una cosa e del suo contrario, sempre indecisa, o perché troppo ingenua o perché troppo scaltra. Proprio come la zitella Lucia del sonetto La scerta, ragazza da marito messa finalmente dai genitori spazientiti di fronte a due pretendenti molto diversi tra loro: un giovane prestante e un anziano dai capelli grigi, ma ricco. E chi sceglie Lucia? Non sceglie, proprio come una zitella inveterata. Al giovane che chiede di decidersi risponde con una terzina che vale tutto il sonetto, specialmente l’ultimo verso. “Per me – dice il sostanza la furba ragazza – prenderei tutti e due: l’uccello vostro e i quattrini suoi”:

LA SCERTA
Sta accusì. La padrona cor padrone,
Volenno marità la padroncina
Je portonno davanti una matina,
Pe sceje, du’ bravissime perzone.
Un de li dua aveva una ventina
D’anni, e du’ spalle peggio de Sanzone;
E l’antro lo diceveno un riccone
Ma aveva un po’ la testa cennerina.
Subbito er giuvinotto de quer paro
Se fece avanti a dì: “Sora Lucia,
Chi volete de noi? parlate chiaro”.
“Pe dilla, me piacete voi e lui”,
Rispose la zitella; “e ppijerìa
Er cicio vostro e li quadrini sui”.
Roma, 21 novembre 1832

Versione. La scelta. Andò così. La padrona col padrone, volendo maritare la padroncina una mattina le portarono davanti, per scegliere, due bravissime persone. Uno dei due aveva una ventina d'anni e spalle più larghe di quelle di Sansone; dell' altro si diceva che fosse un riccone, ma aveva i capelli un po' grigi. Subito il giovanotto si fece avanti a dire: Signora Lucia, chi volete di noi? parlate chiaro. “Per dire la verità, mi piacete voi e lui - rispose la zitella - e prenderei l'uccello vostro e i quattrini suoi”.

Ma il bel gioco dura poco. Tirarla troppo per le lunghe ha i suoi inconvenienti. Certe zitelle “signor no” finivano per spazientire molto gli uomini, specialmente nell’Ottocento maschilista e un po’ violento del popolino descritto dal Belli. Rapimenti e stupri erano all’ordine del giorno, e la morale chiesastica metteva tutto a tacere con “matrimonio riparatore”.

Venditrice (part. e modif) (B.Pinelli 1816-22)E poi, va’ a capire chi è zitella e chi no. Ed ecco che lo spasimante invaghito della procace venditrice ambulante che vede passare spesso per la via, dopo averla seguita con lo sguardo chissà quante volte, un bel giorno perde la testa e senza più freni inibitori fantastica di fermare per strada la bella paciocca (donna formosa e rotondetta) alla prossima occasione, di condurla a forza dentro un portone, magari di sera, spingerla contro un muro dove non arriva la fioca luce del lampione a petrolio, e “ingrufalla” dove tocca tocca. E’ l’oscuro desiderio minacciato dall’io narrante, il Belli in persona, nel sonetto La peracottara:

LA PERACOTTARA
Sto a ffà la caccia, caso che mmommone
Passassi pe dde cqua cquela pasciocca,
Che va strillanno co ttanta de bbocca:
Sò ccanniti le pera cotte bbone.
Ché la voría schiaffà ddrento a ’n portone
E ppo’ ingrufalla indove tocca, tocca;
Sibbè che mm’abbi ditto Delarocca,
C’ho la pulenta e mmó mme viè un tincone.
Lei l’attaccò ll’antr’anno a ccinqu’o ssei?
Dunque che cc’è dde male si cquest’anno
Se trova puro chi ll’attacca a llei?
Le cose de sto monno accusí vvanno.
Chi ccasca casca: si cce sei sce sei.
Alegria! chi sse scortica su’ danno.
Roma, 14 settembre 1830

Versione. La venditrice di pere cotte. Sto facendo la posta, caso mai proprio ora passasse di qui quella bella giovane che va strillando a bocca aperta “Sono canditi, le pere cotte buone!”(**). Perché la vorrei spingere dentro a un portone e poi penetrarla dove capita. Anche se m’ha detto [il dottor] Delarocca che ho la gonorrea e mi verrà un tincone [adenite inguinale, nota il Vigolo]. Lei l’attaccò l’anno scorso a cinque o sei? Dunque che c’è di male se queat’anno si trova pure chi l’attacca a lei? Le cose di questo mondo così vanno. Chi casca casca: se ci sei ci sei. Allegria! Chi si scortica [fa il] suo danno.

NOTE
(*) Zarri G., Monache e sante alla corte estense (XV-XVI) in Storia illustrata di Ferrara, 2, a cura di F. Bocchi, Milano, 1987. p. 418.
(**) Nota il Belli: “Grido de’ venditori di pere cotte al forno, i quali girano nelle ore più calde della stagione estiva, dette perciò a Roma: l’ore de peracottari”.

IMMAGINI. 1. Tipica eterna zitella, in questo caso borghese, figlia d’un pastore protestante, la scrittrice inglese Jane Austen (1775-1817, per alcuni decenni contemporanea del Belli), mi perdonerà se uso un suo ritratto come immagine tipica della zitella stagionata. 2. Zitella laziale con l’abito della festa ai tempi del Belli. 3. Zitella giovane (ritratto di Jane Austen, da me modif. a sanguigna). 4. Venditrice sulla pubblica via, come la “peracottara” che aveva attizzato il desiderio dell’io narrante del sonetto del Belli (dis. di B. Pinelli).

 
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