23 marzo 2010

La mezz’età? Non esiste. Gli strani salti dell’età delle donne.

La donna è sempre giovane, dice un mito di oggi. Ma ieri qual era il rapporto tra la donna e la sua età? Non potendo agire sulla qualità della vita, costretta a far figli nella prima giovinezza, cosa che l'avvicinava alla mezz’età, la donna nell’Ottocento poteva almeno correggere il calendario. Trucco a cui, ammettiamolo, oggi ricorre sempre meno.
Una satira alla Marziale sull'opinabile e discontinua età delle donne dà modo a Giuseppe Gioachino Belli di assestare qualche tagliente colpo di lama sistemando per le feste le donne (solo quelle d’allora?), per lo meno quelle della classe che era solito frequentare. Il feroce sarcasmo cade sul vezzo delle signore di fingersi eterne adolescenti manipolando in modo del tutto personale e stravagante lo scorrere stesso del Tempo.
Ma stiano tranquille le quarantenni e cinquantenni “adolescenti” di oggi che rubano i vestiti alle figlie sedicenni: Peppe er tosto non ce l’ha con loro. Le donne di oggi sono di un’altra pasta, sono realmente molto più giovani, e giovani più a lungo, delle loro antenate del 1830.
Possiamo sbagliarci, ma non crediamo che la donna a cui il Belli pensava scrivendo questa satira fosse l’umile sartina che rammendava gonne di ruvido panno per le operaie, e neanche l’orgogliosa sposa d’un “minente” piccolo commerciante di Trastevere.
Qui, come in alcuni sonetti belliani, si nota un contrasto stridente e perciò esilarante tra lingua ultra-popolare scelta dall’autore e concetti, valori, quadro sociale, tipicamente medio e piccolo-borghesi. Un errore, il suo? Nient’affatto. Abbiamo visto che questa sfasatura, come altre, è uno di quegli artifici con i quali i sonetti del Belli raggiungono l’efficacia del grottesco.
Tutto sembra previsto dal grandioso “piano” narrativo e linguistico del Belli. La sua “invenzione” o rielaborazione colta (di qui il concetto di “popolaresco”, più che di popolare) della parlata del popolo umile dei vicoli, delle piazze e dei cortili di Roma, viene piegata, serve a descrivere manie, sotterfugi, abitudini d’una società più elevata, quella con cui venne a contatto, sia pure tra rovesci di fortuna, l’autore stesso.
S'intuisce un mondo in cui la donna deve apparire, perché “frequenta”, va nei salotti, ospita amici e amiche, cioè ha una vita sociale.
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Cosa che certo non poteva verificarsi per le umili donne della Roma del volgo – per le quali l’età non contava nulla, non poteva contare – considerate in genere le uniche protagoniste femminili dei Sonetti, quelle popolane dall’anonima esistenza, fiaccate dai lavori pesanti, dalle gravidanze e dalle malattie. E sì, perché nella Roma dei Papi, come ancor oggi nel Terzo Mondo più povero e marginale, era molto alta la mortalità femminile, e dunque molto bassa la durata media e l’aspettativa di vita delle donne del popolo. E perciò è da ritenere che una “sposa” di 30 anni, magari con 3 figli già grandicelli, non potesse avere modo o fantasia di calarsi l’età o di bamboleggiare fino ai 50. Cosa che invece avviene, può avvenire oggi.
La “donna del Belli”, dunque, non esiste, come dimostra appunto questo sonetto, che pure teorizza la Donna. Ma esistono tante donne del Belli. Egli sa descrivere benissimo la popolana degli strati più umili, spesso con toni addirittura commossi, oppure comici. Dipinge bene anche le donne dei “minenti”, cioè del popolino arricchito, ma non meno rozzo e volgare, anzi spesso più vistoso e violento.
Ma ora vediamo che è capace di dare pennellate efficaci e caustiche anche nei ritratti – non dichiarati come tali – delle tipiche “signore” della Roma sorniona e lenta, tutta moine e belletti francesi, del sonnacchioso Ottocento pre-liberale, in cui l’apparire è l’essenza stessa del vivere. Tanto che spesso, non qui, affida il compito di descriverle o di criticarle a maggiordomi, serve, sarte, vetturini e portiere.
Qui è diverso. In questo sonetto, nel descrivere in generale, senza nomi e cognomi, senza nessun ritratto, il carattere della Donna, il Belli mostra che è anche capace di estraniarsi dagli strati sociali e di osservare il Mondo tutto, altro che Roma, a bordo d’una mongolfiera. Anticipando il moralista Trilussa, filosofeggia su una parte secondo lui senza tempo – in tutti i sensi – del genere umano, quella femminile. Ma così si distacca dal suo abituale modus operandi, che è il fotografare come un umile e apparentemente neutrale etnologo la vita dei Rioni e dei Borghi.
Il che non toglie che il sonetto sia godibile fin dall'inizio, e molto riuscito, tranne forse il penultimo verso, dove l'improvvisa metafora sessuale ("pelo" nel Belli allude quasi sempre all'organo sessuale femminile) espressa come se fosse un proverbio o un modo di dire popolare, svolge la funzione del tipico colpo di coda belliano, in questo caso anche con caduta di stile.
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L'ABBICHINO DE LE DONNE
La donna, inzino ar venti, si è contenta
mamma, l'anni che ttiè ssempre li canta:
ne cresce uno oggni cinque inzino ar trenta,
eppoi se ferma lì ssino a quaranta.
Dar quarantuno impoi stenta e nun stenta,
e ne dice antri dua sino ar cinquanta;
ma allora, che aruvina pe la scenta,
te la senti sartà ssubbito a ottanta.
Perché, ar cresce li fiji de li fiji,
nun potenno èsse ppiù donna d'amore,
vò ffigurà da donna de conziji.
E allora er cardinale o er monziggnore,
che j'allisciava er pelo a li cuniji,
comincia a recità da confessore.

26 dicembre 1932

Versione. L’abc (abbeccedario, abaco) delle donne. La donna fino a vent’anni, se mamma lo permette, dice sempre gli anni che ha: ne aumenta uno ogni cinque fino a trenta, e poi si ferma lì fino a quaranta. Dal quarantuno in poi avanza e non avanza, e ne dice altri due fino a cinquanta; ma arrivata a quel punto che precipita nella discesa, te la senti arrivare subito a ottanta. Perché al crescere dei nipoti, non potendo esser più donna d’amore, vuol apparire donna di consigli. E allora il cardinale o il monsignore che prima faceva il galante comincia a recitare da confessore.
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IMMAGINI. 1. "Ritratto di gentildonna" (F.Podesti, 1800-1895) dai tratti decisamente infantili. 2. Stampa popolare sec.XIX "The Ages of Woman". 3. Difficile dare un'età ai bei lineamenti etruschi della "Roman Lady" (Lord Leighton, 1859, part.). 4. H. Baldung Grien (1484-1545), "The Seven Ages of Woman".

21 marzo 2010

Professioni d’oro: il “marito della moglie del prete”

Non solo oggi, ma già ai tempi del Belli i preti ne facevano di tutti i colori, soprattutto in fatto di sesso. Tanto che ne venne un detto romanesco "Nun fa' quello che il prete fa, ma fa' quello che il prete dice", con cui "Peppe er tosto" (così il Belli si firmava) fa terminare un sonetto.
Il fatto è che il potere temporale della Chiesa consentiva ai membri del clero di fare e disfare a piacimento le regole a cui, invece, tutti gli altri sudditi dovevano obbedire. E una delle regole più violate era la castità.
Abbiamo visto che la frequentazione dei bordelli era una delle valvole di sfogo. Ma se il prete non era un puttaniere poteva anche essere tentato di accasarsi stabilmente con una bella ragazza. Ma come fare? Gettare l'abito talare alle ortiche? Manco per sogno. Il Belli evidenzia nei sonetti una figura caratteristica, che con alcune varianti definisce "il marito della moglie del prete".
In sostanza i preti propensi ad accasarsi andavano a caccia di due diverse opportunità.
1) Ricerca di un giovine di famiglia credente e bisognosa e dal carattere buono e remissivo. Seguirlo nella dottrina e dare un minimo di aiuto alla sua famiglia e a lui stesso (in modo da predisporre una certa omertà').
Ricerca poi di una giovine bella e disinibita ma povera e senza conoscenze, disposta a cambiare vita e a seguire la tonaca in una possibile scalata delle gerarchie ecclesiastiche. Se il prete era giovane e rampante poteva essere un ottimo investimento per la coppia disponibile a questo compromesso.
Entrambe le ricerche erano facili essendo disponibile una enorme quantità di materia prima, l'indigenza del popolo minuto.
Nel contado un semplice parroco già' aveva i mezzi e il potere di organizzare tutto questo. A Roma città' era più alla portata di gerarchie superiori.
Ma veniamo alla procedura. Il prete o prelato offre al giovane dal buon carattere su un piatto d'argento il matrimonio con una "perla" di ragazza con dote e con corredo, insieme a un buon impiego in qualche sito dell'amministrazione della città o all'apertura di una attività artigianale. Una specie di terno al Lotto. Naturalmente tutto finanziato "dar furmine a tre pizzi" (il tricorno del prete antico). Certo esiste l' alea sulla durata di questo "menage a trois" dovuto all'età e alla salute del prete. Soprattutto se l' impiego e' nei palazzi del potere.
In questo modo questa trinità, triade o trimurti comincia il suo cammino, ovviamente fra i raschi di gola e i commenti più o meno salaci di chi inevitabilmente sa o crede di sapere, ma non può dire apertamente.
Ma esiste anche una seconda possibilità:
2) Imbattersi nel corso dell' apostolato in una coppia già formata, nel cui nido il cuculo-prete veda possibile deporre le sue uova, certo non all'insaputa dell'uccellina, e forse ma non sempre, con la buona fede del cornutello.
In questo frangente piovono regali e prebende, spesso mascherati da improbabili vincite al lotto.
Sarebbe divertente entrare più a fondo nel merito di questi straordinari "menages". Quali accordi non scritti e forse neanche sussurrati esistevano all'interno di questa triade? Forse il prete aveva il diritto di pretendere l'esclusività del talamo coniugale, o forse no; certo sarebbe curioso che il voto di castità sottoscritto dal prete nel matrimonio con l' "ecclesia", fosse passato brutalmente al povero "marito della moglie del prete", un vero "testa coda", un ribaltamento totale degli impegni assunti dal prete da una parte e dal marito dall'altra. Un curioso scambio di prerogative e doveri tra marito e prete, con il primo che deve rinunciare a favore del secondo alla prerogativa del santo matrimonio "ad procreandam prolem" con l'inevitabile contemporanea assunzione del voto di castità, tipico, mai invidiato, e sovente non rispettato onere del prete. Andava proprio cosi? Forse il povero marito era poi costretto a mettere le corna alla moglie con qualche Santaccia di turno (vedi i sonetti Santaccia di piazza Montanara), frequentando bordelli e pagando, sempre con i soldi del prete, un amore mercenario, che per le regole della Santa Madre Chiesa lo avrebbero condotto al peccato mortale e al rischio dell'Inferno.
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Vediamo l'episodio più noto e più eclatante di questa straordinaria “professione” descritta dal Belli con diversi sonetti. E' il caso della "puttana santissima" Clementina Verdesi, l'amante del Papa Gregorio XVI, moglie del suo cameriere segreto Gaetano Moroni (Roma, 1802-1883) definito “barbiere” dai suoi critici (compreso il Belli) perché, di umili origini, in gioventù aveva aiutato nel mestiere il padre barbiere, ma in realtà divenne poi studioso bibliografo e fine erudito e diede alle stampe il monumentale Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, al quale lavorava anche 14 ore al giorno. Confermato anche dal romanziere Stendhal, allora console di Francia a Civitavecchia, in una lettera al Duca di Broglie del 5 Aprile 1835: "Il Papa ama riposarsi in compagnia della moglie di Gaetanino. Questa donna, che può avere 36 anni, non è né bene né male. Gaetanino quattro anni fa non aveva niente e ora contratta immobili per 200.000 franchi".
Come si dice, il pesce puzza dalla testa, e se il Papa dava un tale buon esempio, la truppa del clero non poteva che seguirlo.
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UN ANTRO VIAGGIO DER PAPA
Io ste cose le so da la padrona
che lo disse a llei stessa l’antro ggiorno
la puttana santissima in perzona
2 giugno 1835
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UN FELONIMO
Perché er zor Dezzio senza move un deto
va ssempre bben carzato e bben vistito?
Lo volete sapé? pperch’è mmarito
de la mojje d’un prete: ecco er zegreto.
Er bon deggno eccresiastico, anni arrèto,
lo conobbe pe un giovene compito:
je messe amore, e jj’asseggnò ppulito
er frutto de la viggna de Corneto.
Cuanno vedete un omo sfaccennato
che vve fa lo screpante e ’r zostenuto,
guardate avanti a ttutto s’è ammojjato.
S’è scapolo, ha cquarch’antr’arma d’ajjuto:
o ll’uggna longhe, o ffra ddenti e ppalato
un pezzetto de carne un po’ ppizzuto.
Roma, 5 maggio 1833
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Versione. Un Fenomeno. Perchè il sor Decio senza muovere un dito va sempre ben calzato e ben vestito? Lo volete sapere? Perche' e' il marito della moglie di un prete: ecco il segreto. Il buono e degno ecclesiastico anni indietro riconobbe che era un giovane a modo: prese a benvolerlo e gli fece sposare il frutto della vigna di Corneto (localita' immaginaria da dove provengono le donne che mettono le corna). Quando vedete uno sfaccendato che fa il presuntuoso e il sostenuto, guardate prima di tutto se e' ammogliato. Perche' se e' scapolo si aiuta in altri modi, o ha le unghie lunghe (ladro) o ha fra denti e palato una lingua un po' pizzuta (fa la spia).

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Ma non tutte le ciambelle riescono col buco, in qualche caso il marito scelto dal prete si rifiuta vivacemente si sposare l'amante del prete, come descritto nel sonetto che segue.
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TRESCENTO GNOCCHI SUR ZINALE
Io l’aringrazzio tanto, sor don Pio,
de quela dota che ttiè bbell’e ppronta.
Io pe rregola sua campo der mio
senza bbisoggno un cazzo de la ggionta.
’Na zozza, frittellosa, onta e bbisonta
piú ppeggio de la panza d’un giudio,
che indove tocca sce lassa l’impronta,
nu la vorría si mme la dàssi Iddio.
Io a ste facce da spazzacammini
nun je darebbe un pizzico nemmeno
le vedessi cuperte de zecchini.
Sor don Pio, tra la zella io nun ce godo
come lor’antri preti, c’o ppiú o mmeno,
drent’a la porcheria sce vanno in brodo.
27 aprile 1835
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Versione. Trecento scudi sul grembiule. Io la ringrazio tanto sor Don Pio per quella dote che tiene bella e pronta. Ma io per sua regola campo delle mie sostanze, senza affatto bisogno di averne di piu’. Una zozza piena di macchie, unta e bisunta, molto peggio della pancia di un ebreo, che dove tocca ci lascia l’impronta, non la vorrei anche se provenisse da Dio. Questo genere di facce da spazzacamini non le toccherei neanche se fossero coperte di zecchini. Sor Don Pio io non ci godo a stare in mezzo al sudiciume, come fate voi altri preti, che chi piu’ chi meno tutti ci provate piacere.
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Se poi la tresca viene condotta senza il consenso dello sposo, il furore di lui diventa irrefrenabile in attesa che schiatti "er tu porco de prelato".
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ER MARITO ASSOVERCHIATO
Gode, gode, caroggna bbuggiarona.
Bbrava! strilla un po’ ppiú, strilla ppiú fforte.
Troja, fàtte sentí: vva’, pputtanona,
spalanca le finestre, opre le porte.
Mó è ttempo tuo: oggi vò a tté la sorte.
Scrofa, lassela fà ssin che tte sona.
’Na vorta ride er ladro, una la corte;
e la cattiva poi sconta la bbona.
Te n’ho ppassate troppe, foconaccia:
ecco perché mm’hai rotta la capezza,
vacca miggnotta, e mme le metti in faccia.
Ma schiatterà er tu’ porco de prelato,
e allora imparerai, bbrutta monnezza
cosa vò ddí un marito assoverchiato.

18 marzo 1834
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Versione. Il marito sottomesso. Godi, godi carogna, gran puttana. Brava strilla di piu', strilla piu' forte. Troja, fatti sentire dal vicinato: piu' forte, puttanona, spalanca le finestre, apri le porte. Adesso ti dice bene: hai la sorte a favore. Scrofa, goditi il tuo momento fin che puoi. Che una volta ride il ladro, ma poi ride il tribunale, e le cattive azioni sono poi punite. Te ne ho fatte passare troppe, mignottona; ecco perche' ti sei potuta liberare dalle briglie (del matrimonio), vacca, meretrice, e me le hai gettate in faccia. Ma dovra' morire quel tuo porco di prelato, e allora imparerai brutta schifezza cosa ti fara' passare un marito soverchiato (messo sotto dalla moglie).
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I preti che avevano optato per una tranquilla vita coniugale utilizzando la formula del ménage à trois, morendo non potevano fare a meno, per amor paterno, di istituire eredi i figli del "marito della moglie del prete", insieme alla "fedele" si fa per dire, moglie medesima. Per caso si verifico’ nel 1833 la morte in due giorni consecutivi di due prelati, entrambi coinvolti in menages del genere. Il sonetto è davvero ostico, appesantito da termini giuridici deformati, ma lo aggiungiamo per completezza imformativa.
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L’ARREDE DER PRELATO
Cuer Prelato, cuer cazzo de somaro
che mmorze de pulenta francescana,
sappi che llassò arrede fittucciaro
don Fregaddio, cuell’antra bbona lana.
Sentito er testamento der Notaro,
fesce er marito d’Anna la frullana:
"Vòi scommette ch’er prete miggnottaro
dà ttutto a cquarche ffijjo de puttana?".
Bbe’, er prete oggi ha ccacciato una cartuccia
che ddisce: "Io chiamo a tté, ddon Sperandio:
tu cchiama er fijjo che mm’ha ffatto Annuccia".
E er cornuto mó escrama, e ll’ho intes’io:
"Che bbon prete! ha spiegato la fittuccia
tutta in testa de Peppe er fijjo mio".
Roma, 24 gennaio 1833
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Versione. L'erede del prelato. Quel prelato (monsignor Nicolai), quel cazzo di somaro morto di gonorrea (malattia venerea), devi sapere che ha lasciato erede fiduciario Don Fregaddio (storpiamento per Sperandio), un’altra buona lana. Sentito il testamento letto dal notaio, disse il marito di Anna la friulana: vuoi scommettere che il prete mignottaro lascia tutto a qualche figlio di puttana?" Ebbene, oggi e’ uscito fuori un documento del prete che dice: io chiamo (lego) te Don Sperandio: tu poi darai al figlio che mi ha fatto Annuccia. E ora il cornuto esclama, e l’ho sentito io: "che buon prete! Ha passato la fiducia (dal precedente termine fiduciario), cioe’ l’eredita’, tutta a favore di mio figlio Pippo."
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Non mancano riscontri storico-biografici precisi. Nel diario del Principe Agostino Chigi si legge: "Venerdi 18 gennaio 1833. Nella notte e’ passato ad altra vita Monsignor Nicolai in eta’ di circa 80 anni. Ha istituito erede un tal Grossi che e’ passato sempre per suo figlio naturale, in preferenza di due fratelli di esso defunto. Sabato 19, detto. Nella scorsa notte e’ morto dopo un lungo cronicismo Monsignor Lancellotti, Chierico di Camera e Presidente delle Acque e Strade, ed ha lasciato erede il figlio di un suo cameriere che passava per suo figliano, e presso molti per qualche cosa di più". Un altro caso di "marito della moglie del prete".
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IMMAGINI. 1. Vignetta per l'occasione (Nico Valerio). 2. Il manifesto del vecchio film "La moglie del prete" con Sofia Loren e Marcello Mastroianni. 3. A differenza dei corrotti preti della Roma del Belli, il cattolico irlandese Dermot Dunne è stato onesto e coerente: prima è diventato anglicano, poi si è sposato con Celia (nella foto). E' il nuovo Decano, stimato da tutti, della cattedrale di Dublino (Church Times).

16 marzo 2010

Prepotenti di ieri. Sicuro che erano peggio di quelli di oggi?

Pietà per i deboli, cioè per i Potenti. Quelli che s’illudono, col comandare, di essere qualcuno. "Cummannari - dicono in Sicilia - è megghiu ca fùttiri". Be' tutti i gusti sono gusti. Meno male che le psicologhe delle ASL non c’erano ai tempi dei Sonetti, se no sai che "scenufreggi" nei versi dell’ombroso e pessimista "Peppe er tosto", che questo lato segreto di debolezza dei potenti della Terra non mostra proprio di cogliere.
Più autoritari e prepotenti i sovrani di ieri o quelli di oggi? Dipende da che cosa intendiamo per "sovrani". Se lo intervistassimo – ma dovremmo prenderlo quand’era ancora lui – G.G. Belli se la caverebbe con un pensiero amaro e paradossale: "Una volta, nei tempi bui dell’autoritarismo, a fare i prepotenti erano in pochi, mentre oggi, nell’epoca luminosa della democrazia, per fortuna sono in molti".
Capito che carogna? Peggio di Woody Allen. Insomma, verrebbe fuori questo aforisma: "Come distinguere tra dittatura e democrazia? Semplice: nella prima comanda un solo dittatore, nell’altra tanti usceri". Pluralismo interno, direbbero in Rai. Burocrazia dei "colletti bianchi" nella società di massa, ha scritto il sociologo Veblen.
Altro che cattivi "soprani" (sovrani) di ieri. Quelli di oggi sono peggio, e non mi riferisco a nessuno in particolare, ma a tutti. E i potenti sembrano tutte carogne, non solo al Belli. E le "elites democratiche"? Be', è una teoria politologica tutta nostra, ma dell'Italia di ieri. Anche la satira è, guarda caso, nostra invenzione (tota nostra est satyra). E ti credo: dove c’è autoritarismo, c’è anche satira. I due eccessi convivono, si sorreggono a vicenda. Solo che il primo punisce il pensiero, la seconda lo favorisce. Ma la satira può anche esser vista come un tentativo di riequilibrio tra due diverse "debolezze". E' lo sfogo che il debole che si finge Sovrano Globale, Presidente Assoluto, Capo del Governo, Pontefice Massimo o comunque Dio in Terra (non bastandogli il Cielo), concede – bontà sua – ad un altro debole che si finge forte come lui, non di armi o decreti ma solo di versi graffianti.
Fatto sta, che questo famoso sonetto satirico del Belli sui potenti – re, papi o imperatori – è a sua volta così prepotente da entrare nel grottesco, e quindi nessun commento è possibile. Il sonetto è efficace, a differenza di tanti altri, fin dall'inizio della prima quartina, mentre a nostro parere è debole nella terzina finale, e cade addirittura sull'ultimo verso. Siamo sicuri che il Belli l’avrebbe rivisto e migliorato, se fosse rimasto a lungo il G.G.Belli che ci piace.
Una sola nota linguistica. Lui gioca su "soprani" e sovrani, perché, si sa, sopra stanno e "commannano", ma siamo sicuri che il popolino non conoscesse - al massimo - altro che soprani lirici, e gli altri li chiamasse re o papi. E' il bello della neo-lingua inventata dal Belli, che talvolta deforma parole dell'inaccessibile italiano colto (che non è il familiare latinorum delle preghiere del volgo) in una pretesa, virtuale, canzonatoria parlata popolare mai esistita. Popolaresca, quindi, non popolare.
Ma serviva al poeta satirico un termine che unisse tutte le categorie dei prepotenti istituzionali, quei deboli convinti di essere qualcuno solo perché comandano duramente sugli altri. La sindrome, scusate, della casalinga con la serva, oggi si direbbe della "signora" con la collaboratrice domestica, che solo lei può assumere o licenziare ad nutum, con un cenno. Nessun imprenditore potrebbe fare altrettanto.
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LI SOPRANI DER MONNO VECCHIO
C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
"Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo".
Co st’editto annò er Boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: "È vvero, è vvero".

21 gennaio 1931
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Versione. I sovrani del mondo vecchio: C’era una volta un Re che dal suo palazzo emanò ai sudditi questo editto: "Io sono io e voi non siete nulla, razza di canaglia. E fate silenzio. Io rendo dritto lo storto e storto il dritto: vi posso vendere tutti a un tanto al mazzo. E se vi faccio impiccare, non commetto un abuso, perché la vita e i beni io ve li ho concessi solo temporaneamente. Chi vive in questo mondo senza il titolo di Papa, di Re o Imperatore non può mai avere voce in capitolo". Con questo editto il Boia partì come messaggero, interrogando tutti i sudditi nel merito: e tutti risposero: "E’ vero, è vero".
IMMAGINE. Il marchese del Grillo (dal film di Comencini). Disegno satirico di Vauro.

13 marzo 2010

Una donna-dottore? Ma faccia figli, allatti e lavori la calzetta!

Che ci tocca vedere al giorno d’oggi: una donna che discetta di libri e pittura, una "dottoressa", una laureata, insomma una intellettuale, alla pari con gli uomini.
Alla pari? Veramente, non ci risulta che gli uomini dei sonetti del Belli siano tutti fior di intellettuali, anzi il contrario. Ma come non capire il Belli, perfetto "uomo del suo tempo", che rappresenta tutti i luoghi comuni del popolino reazionario nello Stato più reazionario d'Europa, quello del Papa? E non erano da meno la nascente borghesia minuta e l'aristocrazia nera [nera, perché legata alle tonache nere della Chiesa, NdR]. Anche il Belli, perciò, non si distacca dalla concezione della donna serva dell'uomo, e irride, con la sua forte vena satirica, alla figura di una moglie dottoressa. Ma erano tempi in cui perfino i rivoluzionari volevano vietare l'istruzione e la lettura dei libri alle donne. Oggi passerebbero dei guai.
E' di pochi giorni fa la notizia che la Cassazione ha deciso che e' diffamatorio criticare una donna nell' esercizio della sua attivita' di lavoro, solo perche' donna. Ha condannato un giornalista e un sindacalista per un articolo dal titolo "Carcere : per dirigerlo serve un uomo" (sentenza n 10164).
E' forse l' ultima tappa di un lungo percorso di emancipazione iniziato alla fine dell' 800 con i primi tentativi per ottenere il diritto di voto da parte delle suffragette (da suffragio, cioe' voto). Il primo Paese a concedere il suffragio universale fu la Nuova Zelanda nel 1893, l' Italia ha dovuto aspettare fino al 1946.
Ma vediamo un po' come veniva considerata la condizione femminile fino al recente passato. Il diritto canonico precedente la riforma del 1983 recitava che scopo del matrimonio era "ad procreandam prolem", un residuo dell'antichissima concezione del sesso e della donna gia' presente nell' Antico Testamento e ripresa nel Nuovo, indicando in sostanza la donna non sposata come una definita fonte di pericolo morale per l'uomo.
Paul Julius Moebius insigne neurologo e seguace della scuola di frenologia* ha osato pubblicare nel 1900 un libello "L'inferiorita' mentale della donna". Scandaloso e divertente al tempo stesso per le assurdita' in esso propinate. Ma torniamo ai sonetti belliani.
Il Belli fa raccontare dalla suocera l'arrivo in famiglia della nuora ("azzecca un po'! una moje dottoressa") e le sue "provocazioni" nel corso delle conversazioni domestiche. La nuova moglie forestiera fa capire, fra l'altro, di saper leggere e scrivere, cosa inconcepibile per una popolana della Roma dei Papi, anche se il nostro autore un po' malignamente le fa affermare poi che "la luna e abbitata" (ma forse all'epoca era una teoria colta e ardita).
Il sonetto fa affiorare un aspetto della rivoluzione francese, la scossa, una sorta di elettroshock impartita al piccolo mondo provinciale, addormentato e misogino della Roma dei primi anni dell"800.
La rivoluzione, con le nuove idee di eguaglianza e con l' azzeramento del clero nel ruolo di governo teocratico, ha portato alla ribalta la donna colta, sicura di se' e dominante, pensiamo a Paolina Bonaparte Borghese, una figura assolutamente sconosciuta e percio' inaccettabile, per il popolino ancora legato ai tabu' dell' "ancien regime".
Un romano de' Roma, che la madre descrive non a caso come poco di buono, arruolato nell'armata napoleonica, torna col grado di ufficiale, cioe' ha fatto carriera e ha sposato una dottoressa.
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LA MI' NORA
Mi’ fijjo, sí, cquel’animaccia fessa
che ffu pposcritto e annò a la grann’armata
è ttornato uffizziale e ha rriportata,
azzecca un po’! una mojje dottoressa.
Si ttu la senti! «È un libbro ch’interressa...
Ggira la terra... La luna è abbitata...
Ir tale ha scritto un’opera stampata...
La tal’antra è una bbrava povetessa...».
Fuss’omo, bbuggiarà! mma una ssciacquetta
ha da vienicce a smove li sbavijji
a ffuria de libbracci e pparoloni!
Fili, fili: lavori la carzetta:
abbadi a ccasa sua: facci li fijji,
l’allatti, e nun ce scocci li cojjoni.
12 giugno 1834
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Versione. Sì, proprio mio figlio, quel poco di buono che fu coscritto e ando' militare con la grande armata [napoleonica] e' tornato ufficiale, e indovina un po' chi ha riportata, una moglie dottoressa! Se tu la sentissi! "E' un libro che interessa... la Terra gira... la luna e' abitata... il tale ha scritto un libro... la tal'altra e' una brava poetessa..." Se lo dicesse un uomo, passi pure, ma che una donnicciola venga a farci sbadigliare a forza di libracci e paroloni! Fili, fili [la lana], piuttosto, lavori la calzetta, faccia la donna di casa, faccia figli, li allatti, e non ci rompa i cosiddetti.
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* la frenologia studiava le forme e le bozze del cranio al fine di scoprire le attitudini alle varie professioni ma anche le possibili inclinazioni criminali. Da questi effimeri studi e' anche derivato il detto "ha il bernoccolo della matematica".
IMMAGINE. Un autoritratto della pittrice M.Elisabetta Vigée-Lebrun, una delle tante donne intellettuali che vissero a Roma.

12 marzo 2010

Popolani arricchiti in trattoria: cercano il Bengodi della carne.

E’ un bell’ottobre romano, tiepido e assolato, che sembra quasi estate (“ottobrata”), e sull'alta carrozza affittata il vociante gruppo delle "minenti" (popolane arricchite di Trastevere, volgari e vistosamente abbigliate e ingioiellate), va al tradizionale pranzo in trattoria "fuoriporta". Che poi, in molti casi, voleva dire solo nel vicino Testaccio…
La festa o l’ottobrata fuori porta, magari sotto un pergolato, era un momento tipico della vita dei popolani romani dell'800, ma non certo di quelli poveri, perché viaggio e pranzo costavano, anche allora. Dopo un pranzo eccezionale (la “magnata”), i resoconti e i commenti tra amici erano e sono tuttora quasi un dovere sociale. Certo, più in campagna che in città, più nei villaggi che nei grandi centri, più tra gli ex-poveri che tra i benestanti. Ancor oggi è così, quando il cibo è perfino troppo abbondante e facile da procurarsi, figuriamoci nell’800, tra il popolino romano di artigiani e piccoli bottegai, quando il pasto quotidiano, perfino per chi non era poverissimo ma molto “sparagnino”, doveva essere molto spartano, e mangiare tanto da saziarsi, anzi da ingozzarsi, era un raro evento da raccontare a tutti! Dopo un signor pranzo, riuscito o no, se ne parlava magari per giorni o settimane. E a quanto pare non solo il menù pesante – vedremo più avanti – ma anche il conto poteva essere di difficile digestione.
Pranzo fuori porta a colori (medio) (Pinelli) Qui, al centro dell’attenzione del cronista-bozzettista Belli ci sono due pranzi paralleli: uno dei minenti maschi, l’altro delle minenti femmine, presumibilmente le loro mogli. Tutti tipicamente trasteverini. Che dopo il doppio evento confrontano i rispettivi trattamenti in trattoria, quantità, qualità, menù e prezzi. Diciamo subito che vincono le donne 5 a 0: hanno pranzato molto meglio, abbuffandosi addirittura, con migliore qualità e a poco prezzo. Invece, alla tavolata dei maschi il trattore riserva un trattamento pessimo: menù poco vario, scarsa quantità e qualità, e pure a caro prezzo. Un disastro.
Ma chi erano questi "minenti"? Erano gli "eminenti non per status sociale, ma per ricchezza" sul popolino, cioè i popolani arricchiti con i mestieri, i traffici e alcuni forse anche con gli espedienti e il malaffare, dal calzolaio al rigattiere, dal cerusico al piccolo prestatore strozzino, al minuto commerciante ambulante, e così via. Maschi o femmine che fossero, vestivano il perfetto abito del popolano romano, scrive in una nota incompleta il Belli, che dimentica di aggiungere che tale abito era l’abito ricco della festa che i poveri neanche potevano permettersi. E mostravano un’eleganza volgare, colori appariscenti, sovrabbondanza di ori e ornamenti, insomma un esibizionismo cafone. E come ci tenevano ad apparire diversi, superiori, cioè appunto "eminenti", sul resto del popolo!
Le donne, per esempio, erano famose per i tradizionali orecchini d'oro pesante con pendagli, detti “scioccaje”, gli uomini per le grosse catene d’oro dell’orologio, le vistose fibbie di argento sulle scarpe, e addirittura per gli orecchini d’argento a fettuccia, così grossi – scrisse un cronista satirico – che sembravano cerchi di botte! I classici burini arricchiti, esibizionisti, gradassi, ma poi, al dunque, come si vede al momento di pagare il conto in trattoria, pure spilorci (cioè tirchi, avari).
Questa, alla luce di tanti riscontri (disponibilità di ori e argenti, ricchezza del vestiario, apparenza nella festa, ma poi volgarità, comportamento e anche vitto abituale come tutti gli altri popolani) sembra essere l’interpretazione dominante e più attendibile, fatta propria anche dagli studiosi più seri (es. sito del Museo romano del Folklore, Samaritani), che spazza via le acrobatiche e poco sensate interpretazioni di minenti come "emarginati", "malavitosi", "abitanti di Trastevere" o addirittura semplici "popolani tipici".
Dunque, si tratta di comitive di popolani arricchiti, esagerati, tronfi e pieni di sé. Il pensiero corre irresistibilmente al liberto arricchito Trimalcione del Satyricon di Petronio). Nei giorni festivi e nelle mitiche gite fuori porta durante le ottobrate, carichi di ori luccicanti, fibbie, nastri, penne di tacchino, velluto, buon panno e seta, vanno in carrozza in trattoria per una epica "magnata", che nelle loro aspettative dovrebbe compensarli del pessimo e povero vitto di ogni giorno, del tutto analogo a quello degli altri popolani. Da che cosa lo si deduce?
E’ la stessa sovrabbondanza incredibile di carni e cacciagione – nel menù delle donne, gratificate dal trattore – che parla in questo senso. E’ una piccola parodia della cena di Trimalcione, con molti primi e secondi di carne raddoppiati e ripetuti. Gli uomini, invece, che avrebbero voluto abbuffarsi allo stesso modo, tornano a casa col borsellino vuoto e lo stomaco semivuoto. E se ne lamentano con le mogli. Uno, non più tirchio degli altri ma più sincero, recrimina che per quel pranzo mediocre si è dovuto pure impegnare al Monte dei pegni un paio di orecchini della moglie.
Pegno? Un lettore superficiale potrebbe pensare che, allora, si trattava di un povero. No, un povero non si impegna certo gli orecchini per un pranzo. L’episodio va letto nel senso che a quei tempi, con moneta circolante scarsa, era d’uso comune farsi anticipare liquidi depositando per un breve periodo argenterie e gioielli. Che bisognava avere. E se ne deduce anche che questi minenti erano abituati a pranzi festivi del genere, e relative spese, di gola o di prestigio che fossero.
Dal punto di vista nutrizionale e dietetico, ovviamente, si tratta di pranzi pessimi, molto sbilanciati ed eccessivi, oggi ritenuti ad alto rischio, certo da non imitare. Spiegabili solo come infrazione della norma quotidiana, assai spartana. Vera e propria compensazione. Da notare come curiosità i testicoli (granelli), più probabilmente di montone che di toro, alternati nello spiedo ai carciofi, che la sorte assegna curiosamente alle donne ma non agli uomini, gli antichi gnocchi di semola ("gnocchi alla romana"), ben superiori dal punto di vista nutritivo e salutistico a quelli di patate, e comunque di forma più grande e diversa, tipo pappardelle, il riso con i piselli che testimonia già dell’uso popolare ma solo festivo del costoso riso nell’Italia centrale dell’800, la scarsità assoluta, eloquentissima, delle verdure, che i popolani invece mangiavano in abbondanza tutti i giorni, e spesso solo quelle, il caffè vero, non l'orzo del popolino, già allora dato a fine pasto come digestivo, il rosolio dolce per le donne, tipica moda dell’800.
E infine, il miglior condimento, un po’ di alterigia o esibizione di status. Le "signore" popolane arricchite e snob tengono, eccome, alla distanza di censo e la vorrebbero spacciare per distacco sociale. Mentre è soltanto economica, fa notare F. Samaritani in un suo commento. Ecco quindi la "benevolenza" esibita verso l’inferiore vetturino o cocchiere che si degnano di far pranzare con loro offrendogli il pranzo, circostanza fatta debitamente notare. Un viziaccio che dura anzi imperversa a tutt’oggi: anche quando rozzi, ignoranti o intellettualmente poco dotati, i cafoni arricchiti e i ricchi in genere si ritengono élite in tutto. Per fortuna incontrano sempre qualcuno che gli ricorda chi sono in realtà. Ma qui non vorrei finire con la morale delle favole di Fedro o Esopo…
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ER PRANZO DE LI MINENTI
C’avessimo? un baril de vin asciutto,
du’ sfojje co rragajji e ccascio tosto,
allesso de mascello, un quarto arrosto,
e ’na mezza grostata: ecchete tutto!
Ce fussi stato un frittarello, un frutto,
o un piattino ppiú semprice e ccomposto!...
Cert’antra ggente che ce stiede accosto
c’ebbe armanco deppiú fichi e presciutto!
Si ppoi vôi ride, mica pan de forno
ce diede, sai? ma ppagnottoni a ppeso,
neri arifatti de scent’anni e un giorno.
Oh, tu azzecchece un po’ cquanto fu speso!...
Du’ testonacci a ttesta, o in quer contorno!
E cce vonno riannà? Bravo, t’ho ’nteso!
E io che mm’ero creso
d’impiegà un prosperuccio-lammertini,
ciò impeggnato a mmi mojje l’orecchini.
Terni, 8 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
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Versione - Che avevamo? Un barile di vino asciutto, due tagliatelle con interiori di pollo e formaggio grattugiato, lesso da macelleria [la carne più economica], un quarto arrosto [di bacchio o abbacchio, cioè agnello giovane, nota il Belli] e una mezza crostata, ecco tutto! Ci fosse stato, chessò, un fritto, un frutto o un piattino di contorni! Eppure altri clienti attorno a noi ebbero almeno fichi e prosciutto in più! Se vuoi ridere, neanche panini freschi ci diede, ma pagnottoni a peso, neri, rifatti, vecchi di cent’anni e un giorno. E indovina un po’ quanto fu speso! Due testoni a testa [2 monete d’argento da 3 paoli], e per un pranzo del genere! E c’è chi ci vuole tornare? Bravo, t’ho capito! E io che avevo immaginato di spendere solo un "prosperuccio lambertini" [2 paoli, cioè 1 lira. Dal nome d’un cardinale], ho dovuto impegnare gli orecchini [d’oro] di mia moglie.

ER PRANZO DE LE MINENTE
Mo ssenti er pranzo mio. Ris’e ppiselli,
allesso de vaccina e ggallinaccio,
garofolato, trippa, stufataccio,
e un spido de sarsicce e ffeghetelli.
Poi fritto de carciofoli e ggranelli,
certi ggnocchi da fàcce er peccataccio,
’na pizza aricresciuta de lo spaccio,
e un’agreddorce de ciggnale e ucelli.
Ce funno peperoni sott’asceto
salame, mortatella e casciofiore,
vino de tuttopasto e vvin d’Orvieto.
Eppoi risorio der perfett’amore,
caffè e ciammelle: e tt’ho llassato arreto
certe radisce da slargatte er core.
Bbè, cche importò er trattore?
Cor vitturino che mmaggnò con noi,
manco un quartin per omo: e cche cce vòi?
Terni, 8 ottobre 1831 - D’er medemo
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Versione. Ora senti il pranzo mio. Riso e piselli, lesso di vacca e di gallina, manzo in umido garofanato, trippa, stufato, e un spiedo de salsicce e fegatelli di maiale. Poi fritto di carciofi e granelli [testicoli], certi gnocchi [di semola] da peccato di gola, una pizza comperata, agrodolce di cinghiale e uccelli. Ci furono peperoni sott’aceto, salame, mortadella e formaggio fresco, vino da tavola e d’Orvieto. E poi rosolio del perfett’amore, caffè e ciambelle. E ho dimenticato certi ravanelli da allargarti il cuore. Ebbene, quanto ci fece pagare il trattore? Col vetturino che pranzò con noi, neanche un quarto [di zecchino] a testa: e che volevi di meno?
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IMMAGINI. 1. L'acquerello è di Achille Pinelli, figlio del grande Bartolomeo, che ha uno stile pittorico molto diverso. A differenza del padre, aulico e classicheggiante, ha un tocco satirico quasi da vignettista umorista e caricaturista: un piccolo “Belli dell'acquerello". 2. Il tradizionale pranzo “fuori porta” avveniva spesso allestendo tavoli e panche sui prati davanti alle trattorie. E dopo pranzo si suonava e ballava (B. Pinelli).

9 marzo 2010

Quel vizietto antico: si sa che il sedere è “il boccon del prete”

Preti pedofili? Un fenomeno antico. Ricordo che da piccolo andavo con i coetanei alla "dottrina" e poi a giocare a pallone, in parrocchia. Ebbene, uno dei primi avvertimenti dei piu' navigati e grandicelli era di stare attenti a "Padre suino", un pretone grande e grosso, con la faccia che ricordava proprio il soprannome. Il messaggio era di non trovarsi da soli con lui, chissa' perche'. Seguendo alla lettera la raccomandazione non seppi mai cosa si poteva rischiare, ma "vox populi", anzi puerorum, "vox dei".
Ogni tanto si riparla della "vocazione" pedofila che si accompagna talvolta alla piu' nobile vocazione del clero. Anzi, oggi c'è un vero e proprio boom di denunce contro i preti pedofili in tutto il mondo.
La storia ha origini lontane, vuoi per il celibato imposto ai preti, vuoi per il timore di incorrere in incidenti con le donne adulte e adultere.
Il Belli cita addirittura la figura del "marito della moglie del prete", un soggetto consenziente in cambio di congrua sistemazione economica, non del tutto sconosciuto ai tempi del Papa-Re. In quel caso era tutto protetto dal santo matrimonio e il prete poteva avere una discendenza che portava il cognome del "marito della moglie del prete". Ma di questo ci occuperemo in altri sonetti. Ora torniamo all'irrefrenabile tendenza pedofila dei preti:
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ER CURATO DE GGIUSTIZIA
Un curato da mette appett’a cquesto
quanno lo pôi trovà cerchelo puro,
dotto compagn’a llui, lescit’e onesto,
inzomma un zanto appiccicato ar muro.
Addimànnelo ar chírico: ecce testo:
lui te pò ddì ssi cquanto è mmuso duro,
e ssi ppe mmette li sciarvelli a sesto
er vicolo lo trova de sicuro.
È un vero Salamone: e lo sa Rrosa
si in articolo affari de cusscenza
vò la santa ggiustizzia in oggni cosa.
Lei se fasceva fotte da Ggiuvanni,
e llui pe ffajje fà la pinitenza
j’ha bbuggiarato un fijjo de sett’anni.
(1)
Terni, 19 ottobre 1833
Versione. Non puoi trovare un curato come questo neanche a cercarlo: dotto, lecito e onesto, proprio un santo appiccicato al muro. Chiedilo pure al sagrestano buon testimone, lui ti puo' dire quanto e' rigoroso e come sa trovare la strada per tutte le questioni. E' un vero Salomone e lo sa bene Rosa se nella soluzione degli affari di coscienza applica la santa giustizia. Lei si faceva fottere da Giovanni (mettendo le corna al marito) e il curato per farle fare penitenza le ha sodomizzato un figli di sette anni (1).
C'e' poi anche una coppia di sonetti, La lottaria nova (I e II) del 15 e 16 giugno 1834, che dipingono in modo se vogliamo piu' delicato, la predetta inclinazione dei preti per il "persichino" (da "persica"=pesca, ovvero il sedere dei bambini, cfr. l'inglese fam. peach per il sedere delle donne). Sono rilevanti le ultime terzine del primo e secondo sonetto, che nello stile del Belli sono quasi sempre a sorpresa!
In sostanza, si fa una lotteria a casa dei Marchesi Teodoli, via del Corso 382. Si tira dal bussolotto uno "spegazzo", un biglietto con riferimento al premio, e se non si vince vi si trova scritto il motto "allegri". "Alegri un cazzo" (in romanesco, "un bel niente", "un corno"), commenta il Belli.
Ma a qualcuno, dopo aver tirato a sorte per un'ora, capitano i premi più strani e inadatti, addirittura comici:
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Eppoi che ppremi sò cquanno c’hai vinto?
Figurete c’un prete tirò un’ora,
e abbuscò ddu’ speroni e un culo finto.

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Con gli speroni da cavaliere, commenta il Belli, un sacerdote non ci fa proprio nulla. In quanto al "culo finto", imbottitura di cui le dame dell'800 andavano fiere, be', il discorso potrebbe essere, vista la fama dei preti, un po' diverso:
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Trovo ch’ er culo-finto è un antro sbajjo.
Perché un prete che vvojji èsse sincero,
ve dirà: "Dda ste cose io nun zò stemio;
(2)
ma mmetteteme avanti un culo vero".
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(1) Un certo don Diego Mattei, "pio parroco" in Terni, scrive in nota il Belli.

(2) Astemio, lontano.

8 marzo 2010

Guardie del Papa: se la moglie non “ci sta”, marito colpevole

Le donne non erano certo molto rispettate nella Roma dei Papi, visto il millennario disprezzo della Chiesa cattolica per la donna. Unica ben nota eccezione la madre di Gesù. Ma per lei, raccomandata speciale, si fa il miracolo di considerarla vergine…
E sì, perché alla donna la Chiesa cattolica ha imposto solo tre strade, una più drammatica e umiliante dell’altra, come lamentavano anni fa le femministe. Vediamole.
1. Madre. La donna, si sa, è impura se ha già conosciuto l’uomo. In pratica, le oneste madri di famiglia fattrici di tanti figli erano considerate impure? No, loro no, perché sposate col "Santo Matrimonio" dove il sesso, si sa, non è un piacere ma un "dovere coniugale". Ché così quasi passa la voglia...
2. Puttana. La donna come Eva è pur sempre tentatrice e incline al piacere all'uomo, ergo spinge l’uomo al peccato, e quindi è equiparata dalla Chiesa inconsciamente al Demonio. Il Tentatore di Gesù nel deserto - dicono i Vangeli - aveva non per caso sembianze femminili. Misoginia millennaria della Chiesa denunciata fin dall'origine dalle donne femministe. Tutte puttane, dunque? Be', non proprio: ci sono sempre le eroine.
3a. Santa. Le "pie donne", le "Dame di S. Vincenzo, le beghine, le bizzocchere, le dedite alle grandi cause altruiste, le super-volontarie alla Nightingale, e infine le Sante, ovviamente tutte "presunte vergini" o, a un livello di verginità probabile molto più basso, spesso sottozero, visti i conventi (cfr. Boccaccio), le monache. A parte, si sa, le rare fulgide figure come suor Teresa di Calcutta e le monache-sante. Quartum non datur? E' così, infatti c'è solo un'altra sub-specie della santa che è apprezzata dalla Chiesa: la donna-vittima. Che, visto il masochismo delle donne, è una categoria molto frequente:
3b. Martire. Le donne per la Chiesa hanno la "libertà" di essere con dignità o sante o martiri, cioè violentate. E’ il caso, appunto, delle tante Marie Goretti, cioè delle vittime "incolpevoli" (!) di stupri. E anzi, questa parrebbe per le donne una condizione conveniente, quasi desiderabile, secondo la Chiesa, perché in un colpo solo da colpevoli e "poco di buono" potenziali passano subito a "vergini e martiri".
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Sessualità contorta e complicata? E' dire poco. Certo, la condizione della donne sotto Santa Romana Chiesa è materia che interessa da molto tempo gli psico-patologi, e che forse spiega una parte di tanta omosessualità e perversione tra il clero cattolico apostolico romano. Romano, sì, anche quando il prete riconosciuto colpevole ieri di sodomia e oggi di pedofilia (anche i peccati sessuali dei preti seguono le mode) ha un cognome irlandese, tedesco, boliviano o statunitense.
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Oggi, 8 marzo, dedichiamo questo sonetto sulla condizione della donna nel Regno Pontificio innanzitutto agli stupidi che hanno da ridire sul Risorgimento e la presa di Porta Pia, che portarono la libertà a Roma, anche per le donne. E poi anche alle tante donne che oggi giustamente celebrano non l’ennesima consumistica "festa" all’italiana, la "Festa della donna", ché in Italia tutto diventa una festa, con tanto di fiori e dolci, perché tutto resti come prima, ma la "Giornata internazionale della donna" che è tutt'un'altra cosa. Donna che nel sonetto, riconosciamolo da maschi, fa una bella figura: pur disperata, dice no alla prepotenza del capo degli sbirri.
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ER LOGOTENENTE
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Come intese a ciarlà der cavalletto,
Presto io curze dar zor Logotenente:
"Mi' marito... Eccellenza... è un poveretto
Pe carità... Ché nun ha ffatto gnente"..
Dice: "Mettet'a ssede". Io me ce metto.
Lui cor un zenno manna via la gente:
Po' me s'accosta: "Dimme un po' gruggnetto,
Tu' marito lo vòi reo o innocente?".
"Innocente", dich'io; e lui: "Ciò gusto"
E detto-fatto quer faccia d'abbreo
Me schiaffa la man-dritta drent'ar busto.
Io sbarzo in piede, e strillo: "Eh sor cazzeo...
"E lui: "Fijola, quer ch'è giusto è giusto:
Annate via: vostro marito è reo".
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Roma, 6 novembre 1832
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Versione in italiano: Appena udii parlare del cavalletto (1) mi precipitai dal capo delle guardie:"Mio marito, Eccellenza... è un poveretto, per carità... perché non ha fatto niente". Lui dice "Mettiti a sedere". Io mi ci metto. Lui con un cenno manda via la gente: Poi mi si avvicina: "Dimmi un po', bel musetto, tuo marito lo vuoi colpevole o innocente?" "Innocente", io dico; e lui: "Mi fa piacere". E, detto fatto, quella brutta faccia (2) mi infila la mano sinistra dentro al corsetto, nel seno (3). Io salto in piedi, e strillo: "Eh, signor cazzeo..."E lui: "Figliola, quel ch'è giusto è giusto: andate via: vostro marito è reo".
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1. Pena, o piuttosto tortura in uso nella Roma dei Papi: si veniva legati seduti ad un banco mostrando la schiena nuda su cui venivano inflitti numerosi colpi di scudiscio (nerbo di bue o corda con nodi). Nel sonetto 844 "Piazza Navona" (1 febbraio 1833) c’è un verso eloquente: "Ccquà s’arza er cavalletto che dispensa sur culo a chi le vò trenta nerbate". "A chi le vò", verosimilmente nel senso di "a chi se l'è meritata", perché la pena era vergognosa. Niente a che fare, insomma, con le frustate scelte da volontari masochisti come supplizio eroico di autoflagellazione sanguinosa e ascesi mistica, come i famigerati monaci fanatici flagellanti all’Oratorio del Caravita. Nel sonetto 253 "La corda ar Corzo" (21 novembre 1831) il Belli spiega che il cavalletto non aveva in realtà un effetto molto grave, "che for de quer tantino de brusciore un galantuomo, senza stacce a letto, pò annà per fatto suo come un signore ". Sublime l’ironia della contrapposizione capovolta tra galantuomo e signore, tipicamente belliana.
2. "Faccia d’abbreo", diffuso epiteto razzista del popolino romano, aizzato dall’antigiudaismo diffuso nella Roma papalina e un po’ ovunque nella Chiesa, per istigazione secolare dei preti.
3. Le donne nell'Ottocento non portavano reggiseno, essendo la funzione del sorreggere affidata allo stesso corsetto esterno (v. illustrazione).

5 marzo 2010

Ministri di Dio (o di Governo, fa lo stesso), sorpresi al casino

Nel suo "monumento alla plebe di Roma", Giuseppe Gioachino Belli ha involontariamente precorso i tempi scrivendo, senza pubblicarlo, l'antenato dell'odierno "gossip". Moltissimi sonetti si riferiscono a fatti realmente accaduti, in qualche caso con nome e cognome del protagonista, irrompendo talvolta brutalmente nella privacy di grandi e piccoli personaggi della Roma dei Papi.
Iniziamo, con Er bordello scuperto, la pubblicazione dei sonetti che si legano in modo sorprendente ai fatti di cronaca, alla politica, ai pettegolezzi dei nostri giorni.
I Cardinali al tempo del Papa-Re avevano uno "status" non molto dissimile da quello degli attuali ministri, o parlamentari, intoccabili e capaci di tutto nella piu' assoluta inpunita'.
Nun conosco for ch' er Papa e Cristo poteva a buona ragione affermare il nostro cardinale* protagonista di questo sonetto.
A questo proposito ricordo che nell' Unione Sovietica degli anni '50 un certo Lavrenti Beria, capo del KGB la polizia segreta di Stalin, per soddisfare le sue brame sessuali, usava spedire le guardie a caccia di belle ragazze, che venivano sequestrate, violentate e poi brutalmente eliminate.
Altro che bordello scuperto! Oggi i tardi epigoni di queste prodezze sono piu' soft, e poi non vanno al bordello, ma il bordello va a casa loro. Se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto.
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ER BORDELLO SCUPERTO
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Entrato er brigattiere in ner bordello
je se fa avanti serio serio un prete.
Disce: «Chi ssete voi? cosa volete?»
Disce: «La forza, e pportà llei ’n Castello».
Disce: «Nu lo sapete, bberzitello,
co cchi avete da fà? nnu lo sapete?
Aspettate un momento e vvederete,
e ttratanto cacciateve er cappello.
Appena poi che ll’averete visto,
dite a quer zor Vicario der guazzetto
ch’io nun conosco for ch’er Papa e Ccristo».
Detto ch’ebbe accusí, sse scercò addosso,
arzò la su’ man dritta sur zucchetto,
se levò er nero e cce se messe er rosso.

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11 dicembre 1834
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Versione in italiano: Entrato un brigadiere nel bordello, gli si para davanti tutto serio un prete. Dice: chi siete, che volete? Quello risponde: La Forza pubblica, e vi voglio portare in carcere. Il prete replica: Non lo sapete, giovanotto, con chi avete a che fare? Aspettate un momento e lo vedrete. E intanto toglietevi il berretto. E appena l'avrete visto, dite al signor Vicario del cavolo [cardinale ministro dell'Interno] che io non riconosco nessuna autorità, tranne il Papa e Cristo. Ciò detto, si cercò in tasca, alzò la mano destra sullo zucchetto, tolse il nero e vi mise il rosso. [Insomma, si tratta di un cardinale*]
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*Il Belli fa nome e cognome: era il cardinale Domenico de Simone, creato da Pio VIII nel 1830.

3 marzo 2010

Ma che grande attore "Peppe er tosto". Firmato: Gogol

Belli, grande "dicitore dei suoi sonetti", nota il filologo belliano Pietro Gibellini. Ne abbiamo testimonianze concordi - scrive - a partire da quella formidabile di Gogol, che lo sentì a Roma in casa Volkonskij, e ne scriveva subito, 1838, alla Balòbina: riderebbe di gusto l’amica russa, udendo i sonetti trasteverini del Belli, "che peraltro vanno ascoltati quando egli stesso li recita".
Domenico Gnoli rievocando il Belli ormai vecchio: "In verità i suoi sonetti, recitati da lui con voce alquanto sommessa, con espressivo spianare e aggrottare di ciglia, col più puro dialetto trasteverino e certe gradazioni di voce e inflessioni finissime, pigliavano un colore che, recitati o letti, non avranno mai più".
Paolo Campello Della Spina lo ricorda nelle serate in casa di monsignor Bonaparte, il futuro cardinale, quando la sera, dopo il caffè, e fattosi un po’ pregare, accettava di recitare i sonetti proibiti: "Pareva che egli non potesse declamare a modo, se non sedeva comodamente e non metteva in capo un berrettino di seta nera, che durante la recitazione veniva rigirando sul cranio. Non era possibile non smascellarsi dalle risa, soprattutto per la serietà a cui atteggiava il suo volto sbarbato, sul quale invano avresti aspettato un sorriso. Quei versi che declamava quasi a ritegno, come ad esempio "Il Papa non fa niente", non c’era caso di farglieli ripetere".
Altre testimonianze - continua Gibellini - anche se non espressamente applicate ai sonetti romaneschi (penso a Spada, a Tarnassi…) lasciano indovinare un formidabile comico-serio, una sorta di Buster Keaton, mentre certe lettere del Belli lasciano intendere che questa serietà nel comico corrispondesse davvero a una interna nevrosi, al sentimento tragicomico proprio del grottesco. "L’assetto filologico delle poesie romanesche conferma le testimonianze biografiche: i pochi sonetti che circolarono semiclandestini durante la vita di Peppe er Tosto evasero dalla clausura cui li relegava lo scrupolo dell’autore proprio grazie alle dizioni ch’egli ne teneva: e le varianti che caratterizzano le copie apografe hanno il carattere "orizzontale" tipico della tradizione orale ("Sette appunti", 1987; Studi di filologia italiana, XXXI 1973; G.G. Belli, Sonetti, a cura di P.Gibellini, Milano 1974).
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Gustosa la ricostruzione. E certamente sulla costante presenza di ecclesiastici alle letture salottiere o accademiche dei sonetti del Belli, anche i più "sconci", anticlericali, antipapisti e antireligiosi, dovremo tornar sù con qualche articolo. Ad essere ambivalente non era più solo il Belli, di giorno prima ragioniere (computista) e poi addirittura "censore teatrale" per il Governo della Chiesa, e di notte poeta satirico amante di "oscenità" e irrisioni.
Dunque, quella di Belli sarebbe una "scrittura orale". Del resto lo scrive egli stesso nella Introduzione ai sonetti: non ha voluto riportare una inesistente scrittura romanesca, ma ha tentato di trascrivere con segni noti le voci e i suoni ignoti del popolo di Roma. Questo, però ha portato tutta una serie di problemi.
La filologia fa progressi, com’è giusto. Però resta il fatto che oggi perfino un romano che voglia leggere i sonetti del Belli – tanto più se ad alta voce e in pubblico – trova più ostica da pronunciare che in passato la metrica del grande poeta romanesco.
Eh, scusate, quanno ce vo’, ce vo’ (anzi sce vo’, come si trova nelle ultime e più fedeli edizioni), bisognava che qualcuno scrivesse di questo side effect degli studi filologici moderni sull’uso pratico e non scientifico dei Sonetti. Dopotutto, "Peppe er tosto" (così il Belli firmò molti sonetti) non li scrisse per gli studiosi, ma per i lettori e ascoltatori qualunque.
Ci sia consentita, perciò, una punta di irrazionale nostalgia per la fluente poesia curata nella celebre edizione del Vigolo, dove da poeta egli stesso (e grande poeta, tra l’altro) e comunicatore, il curatore avendo a cuore soprattutto la musicalità e il ritmo, qualità essenziali della poesia, addolcì giustamente la grafia belliana fino a renderla leggibile.
Perché si sa, o meglio dovremmo saperlo come italiani – per i quali il tosco-romano colto ("lingua toscana in bocca romana") è la pronuncia ideale – che nella nostra bella lingua dominano ovunque non solo le consonanti raddoppiate ma anche le aspirate. E quindi, per esempio, l’avverbio certo si pronuncia in perfetto italiano non certo, ma quasi scerto.
D’accordo, ma noi continuiamo a scrivere certo, non scerto. E se il Belli ha scritto sce anziché ce, cercando di riprodurre come un antropologo senza registratore la pronuncia onomatopeica del popolino, questo semmai fu un suo "errore" di angolazione piccolo-borghese, perché immaginava che il pubblico dei salotti non romani e perfino qualcuno dei romani non avrebbe saputo pronunciare correttamente le consonanti aspirate e raddoppiate romanesche (per esempio, cqui per qui).
Questo ci porta immediatamente sul carattere di oralità, recitatività, insomma di vera e propria trascrizione fonetica che hanno i sonetti del Belli. Dapprima, possiamo immaginare, tratti dalle sue "indagini sul campo" tra i vicoli e nelle botteghe di Roma, e subito appuntati sulla carta, ma poi rielaborati con successivi perfezionamenti linguistici e grafico-fonetici per renderli più aderenti allo stile "romanesco", secondo modelli o ideali che lo stesso Belli doveva avere. Come testimoniano innumerevoli correzioni e ripensamentei puramente grafici sui manoscritti.
E se i manoscritti a noi pervenuti sono le "belle copie", figuriamoci quali geroglifici dovessero contenere i brogliacci delle sue prime bozze. Quelle che bruciò nella cucina della casa di via Monti della Farina, chissà perché, terrorizzato dai rivoluzionari che sotto le sue finestre, a lato della chiesa di S.Carlo ai Catinari, davano alle fiamme i confessionali. Confessionali che proprio il Belli nei suoi sonetti aveva contribuito a distruggere.
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IMMAGINE. 1. La lettura delle proprie poesie agli amici un tempo era abitudine comune tra le persone colte. Qui è riprodotto il dipinto del pittore espressionista danese Jens F. Willumsen (1863-1958) che rappresenta una lettura del poeta Sophus Claussen (1915, Aarhus, Kunstmuseum). 2. La targa con dedica a Gogol, grande ammiratore del Belli, in via del Babuino.

1 marzo 2010

Dr. Jeckyll & Mr. Hyde, doppia vita nella Roma dei Papi

La storia non ha dimenticato Giuseppe Gioachino Belli, il cantore romanesco della prima meta' dell'800. Alberto Moravia lo considerava fra i maggiori poeti italiani del XIX secolo. Il Dizionario Bibliografico degli Italiani gli dedica ampio spazio. Numerosissimi i saggi e gli scritti che ne celebrano la poesia romanesca.
Molteplici le edizioni dei suoi famosi sonetti, monumentale descrizione della Roma di Gregorio XVI. Scarse le tirature delle sue opere, nonostante le diverse edizioni, come e' tipico della poesia. "Rara avis" il lettore, relegato spesso nel novero degli studiosi o appassionati romanisti. Anche per la non facile comprensione del dialetto romanesco dell'epoca. Le due edizioni sulla mia scrivania, per esempio, le ho acquistate sulle bancarelle, mesta anticamera del macero.
Nella vita pubblica romana il Belli fu uno dei letterati piu' inseriti e presenti nelle Accademie poetiche, ma pochi oggi ne ricordano la produzione in lingua, ossequiosa nei confronti del potere papale e della religione. Ben diversamente dai suoi celebri sonetti romaneschi.
Ci piace, perciò, immaginarlo come un Dr. Jeckyll-Mr.Hyde "ante litteram": di giorno impiegato modello del Papa, e di sera libero pensatore nei suoi sonetti graffianti e satirici, poderoso affresco della vita, dei vizi, delle miserie, del popolo di Roma e della corte papalina.
E di questa opera monumentale, che il grande critico Giorgio Vigolo ha definito "geniale", si occupera' il presente blog.
IMMAGINE. Un'osteria romana nell'800 (dipinto di C.Bloch, 1866). Eloquente lo sguardo da "rugantino" (v. Vocabolario minimo) del giovane popolano.
 
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