11 aprile 2014

Altro che “madre delle Sante”: la fica è il vero motore del Mondo!

Origine du Monde. Museo d'Orsay (picc.) (G.Courbet 1866) Tre anni dopo la morte di G.G. Belli (1863), che nel 1832 aveva scritto il famoso sonetto La Madre de le Sante, il pittore francese Gustave Courbet dipinge un piccolo quadro a olio che rappresenta il soggetto considerato da secoli il più “osceno” di tutti, anche se, viste le statuette della Grande Madre, primordiale divinità femminile comune a tutte le culture, e le numerose raffigurazioni nella cultura Indu della yoni o “vulva sacra” (v. immagine in basso), è paradossalmente – perdonate il calembour – “il mito più antico della Storia dell’Uomo: il pube della donna”.

Fatto sta che Courbet intitola il quadro “L’origine du Monde(v. immagine qui sopra). Siamo nel 1866, e per la prima volta quello che sta tra le gambe d’una donna diventa notizia pubblica, e fa scandalo grazie alla morbosità diffusa dalla malizia cattolica (al tema sono dedicati parecchi Sonetti del Belli: si pensi solo alla Confessione. Ma ancor oggi una pittura del genere non la passerebbe liscia, e sicuramente qualche gruppo di bigotti “padri di famiglia” o associazione cattolica denuncerebbe l’evento come “osceno”.

Lontani i tempi (XII sec.) in cui uno scultore popolare poteva raffigurare in un bassorilievo esposto alla vista di tutti, col consenso di popolo, aristocratici e preti, una donna (influente: ha la corona) – forse la moglie del Barbarossa – che allarga le gambe e mostra un foltissimo pube, con in mano una cesoia allo scopo di tosarlo (statua di Porta Tosa, v. immagine in basso, e qualche notizia in più in Giustizia a Milano). Che fosse giusta vendetta dopo la distruzione di Milano da parte del Barbarossa o che avesse uno scopo apotropaico, cioè secondo le superstizioni popolari beneaugurante e scaccia-guai, resta il fatto che ancora nell’Alto Medioevo il pube femminile era alla portata visiva di chiunque. D’altra parte, ammettiamolo, gli organi genitali hanno sempre avuto una grande importanza nella vita dei popoli latini, e specialmente nella vita del popolo italiano, come ha scritto Curzio Malaparte.

Ma torniamo a L’Origine du Monde del Courbet. Come per i Sonetti erotici del Belli, vergognose autocensure si accaniscono sull’opera per più d’un secolo. Dipinto su commissione del diplomatico ottomano Khalil Bey, il quadro divenne subito clandestino anche tra galleristi e collezionisti, tra cui si nascondevano non pochi erotomani. Rivenduto più volte, nascosto dalle mogli dei vari proprietari con ridicole tendine o pannelli dipinti sovrapposti, trafugato, ricercato dai nazisti e dai sovietici, poi miracolosamente recuperato, approdò infine alle pareti di casa del celebre psicanalista francese Jacques Lacan, che poi lo lasciò al museo parigino d’Orsay, dove tuttora è stabilmente esposto.

Eppure, se nell’atavico immaginario maschile il desiderio ha un organo bersaglio, si concentra e si simbolizza da milioni di anni proprio lì. La “topa”, insomma, è anche un topos. Simbolo primigenio, perché nonostante la quotidianità e banalità del corpo umano è stato rappresentato nei miti ancestrali della fertilità (Grande Madre), quando il matriarcato voleva che prima ancora dell’organo fecondatore maschile, come poi accadde per millenni, quello fecondato femminile fosse dominante, visto che “misteriosamente” coincideva con il luogo da cui originava una nuova vita. Fu così che una divinità femminile col pube in evidenza s’imponeva nei miti pagani delle Origini, e la vulva scoperta ha sempre una funzione beneaugurante. Fertilità per gli Antichi voleva dire figli numerosi, perciò lavoro, ricchezza, felicità.

Porta Tosa (Milano) bassorilievo (picc.) Ma il Cristianesimo, negando corpo e sessualità e fondando ordini monastici e sacerdozio sulla castità, fa sì che la rappresentazione realistica della vulva sia vietata o considerata molto sconveniente. Tanto che ancor oggi l’angolo visuale del quadro di Courbet, che coincide col tema del sonetto del Belli, è considerato “di cattivo gusto” perfino in ambienti non religiosi e “progressisti”, come se fosse tipico dell’ominide, del ginecologo e del maniaco, a quanto pare tre gradi successivi di abiezione.

Certo, rappresentare il ventre femminile da un’angolazione visiva impossibile alla donna stessa, ma tipicamente maschile, e per di più identificarlo tout-court con “la donna” (la sineddoche o parte per il tutto è del resto una figura retorica antica), urta nello stesso tempo contro la Chiesa, che quella parte ha sempre umiliato tirando in ballo una presunta “anima”, e contro il femminismo che quella parte ha sempre esaltato, opponendo al posto dell’anima il cervello e dipingendo ogni sua ingiustificata esibizione da parte dei maschi (fica=donna) come o giovanile fissazione goliardica o volgare provocazione maschilista.

Ma né il Courbet, né il Belli cadono nel tranello maschilista: la parola “donna” hanno il buongusto di non scriverla, e così si salvano, a futura memoria, dalle femministe d’oggi. Il primo, infatti, intitola il ritratto di quella piccola parte anatomica ripresa dalla sua modella, con ironica metafora, L’Origine du Monde (l’origine del mondo), volendo significare quello degli esseri umani. Ma perché “mondo”? Meglio avrebbe fatto a intitolarla L’Origine de l’Homme, cosa biologicamente più sensata, visto che perfino un bambino sa che da quell’orifizio, temuto neanche si trattasse delle gole dell’Ade o desiderato come il giardino dell’Eden, non nascono fiumi, montagne o pesci, e neanche solo donne, ma nientedimeno il genere umano tutto.

Più bravo titolista, certamente, il Belli nel suo sonetto, famoso tra i cultori belliani e i collezionisti di letteratura “vietata”, La madre de le Sante. Anche qui è in primo piano l’organo femminile, ma solo linguisticamente, cioè con i suoi quaranta sinonimi. Il sonetto diventa, così, una mirabile esercitazione acrobatica e virtuosistica, un capolavoro di ricerca nel linguaggio popolare, che fa il paio col sonetto "gemello" sul nome dell' organo maschile, a cui abbiamo dedicato un articolo ancora pià curioso e interessante: Il Padre de li Santi.

Yoni o vulva sacra Anche qui, come nella Origine du Monde, una metafora forte nel titolo, col medesimo artificio semantico, ma con qualche differenza. Non potendo essere chiamato col proprio nome, il sesso della donna viene accreditato o di aver generato il Mondo (che esagerazione!), dal Courbet, o di aver dato origine alle Sante (più vero, anche se paradossale). Che cosa non si fa per essere inattaccabili dalla censura sessuofobica o ecclesiastica! Due diverse strategie: la prima scientista e laicista, tutta esterna alla Chiesa, secondo il costume francese adatto agli eredi della Rivoluzione borghese (Courbet); la seconda religiosa e tutta interna alla Chiesa, secondo il costume cattolico adatto alla beghina Roma dei Papi.

Insomma, due trovate geniali, ma la palma del titolo più ironico spetta al Belli. E in effetti – sembra sfidare beffardamente l’autore – signori papi, cardinali, vescovi, monsignori e preti, è inutile che mi scomunichiate: la vulva della donna che voi considerate strumento del Demonio è la stessa che hanno avuto le Sante (e che le ha generate), senza contare le vostre nonne, madri e sorelle. E allora, vogliamo almeno chiamarla col suo nome, anzi con tutti e quaranta i suoi nomi, dotti, familiari e popolari?

LA MADRE DE LE SANTE
Chi vvò cchiede la monna a Ccaterina,
pe ffasse intenne da la ggente dotta
je toccherebbe a ddí vvurva, vaccina,
e ddà ggiú co la cunna e cco la potta.
Ma nnoantri fijjacci de miggnotta
dìmo scella, patacca, passerina,
fessa, spacco, fissura, bbuscia, grotta,
fregna, fica, sciavatta, chitarrina,
sorca, vaschetta, fodero, frittella,
ciscia, sporta, perucca, varpelosa,
chiavica, gattarola, finestrella,
fischiarola, quer-fatto, quela-cosa,
urinale, fracoscio, ciumachella,
la-gabbia-der-pipino, e la-bbrodosa.
E ssi vvòi la scimosa,
chi la chiama vergogna, e cchi nnatura,
chi cciufèca, tajjola, e ssepportura. 
6 dicembre 1832

Versione. La madre delle Sante. Chi vuol chiedere sesso a Caterina, per farsi capire dalla gente dotta, dovrebbe dire vulva, vagina, e seguitare con cunna e potta. Ma noi altri figliacci di mignotta [semplici e duri, gente del popolo che parla come mangia, NdR] diciamo cella, patacca, passerina, fessa, spacco, fessura, bugia, grotta, fregna, fica, ciabatta, chitarrina, sorca, vaschetta, fodero, frittella, cicia, sporta, parrucca, varpelosa, chiavica, gattarola, finestrella, fischiarola, quel-fatto, quella-cosa, orinale, fracoscio, lumachella, la gabbia-dell’uccello, e la brodosa. E se vuoi la cimosa [l’aggiunta], chi la chiama vergogna e chi natura, chi ciufèca, tagliola e sepoltura.

Insomma, è un tipico sonetto-elenco del Belli. Colpisce che i sinonimi dell’organo della donna sono solo 40, mentre quelli dell’organo maschile (“Il padre de li santi” già citato), più polisignificante, arrivano a 53. Non meraviglia, invece, che l’opportunista Belli, rimatore spregiudicato, non fa qui alcuna gerarchia tra i sinonimi in base a popolarità e frequenza d’uso, ma li mescola a caso come più gli torna comodo per comodità di metrica e rima. Ha scritto un noto critico: «A Belli piacevano gli elenchi. Elencava nomi, sinonimi: li metteva in fila, ritmandoli in splendidi endecasillabi, disegnandoli nell'arco di un sonetto che – scrisse Gadda – “sgorga di vena e chiude di necessità”» (Enzo Siciliano, Corriere della Sera, 15 marzo 1984). A noi appaiono “pezzi di bravura”, scommesse acrobatiche con la metrica e con se stesso, ma già il grande belliano GiorgioVigolo aveva espresso qualche riserva: «La mania del catalogo era latente nel Belli, sempre pronta a venir fuori nei Sonetti, non appena il tessuto si allentasse. Si pensa che, anche dormendo, continuasse a fare sonetti con la testa ronzante di endecasillabi e di sostantivi in elenco. Sempre che gli se ne presenti il destro, ecco che apre il rubinetto dei nomi e se ne serve per rincalzo ritmico o piú semplicemente per riempitivo. Si può affermare a ogni modo, fin d'ora, che il Sonetto a catalogo, o i versi di molti nomi in fila, denunciano sempre una mi­nore presenza di autentico parlato popolaresco e uno schema di origine letteraria in cui può andare a defluire una ricchezza lessicale, ma non sintattica. È insomma l'equivalente del gusto per i sinonimi del Tommaseo che qui si traspone al vernacolo e arriva a comporsi in sonetti che sono articoli di vocabolario romanesco messi in rima» (Giorgio Vigolo, Saggio sul Belli).

Paradossale, piuttosto, che nella lunga elencazione belliana i due sinonimi più comuni nella lingua popolare romanesca, fregna e fica, appaiono come nascosti. Eppure lo stesso Belli li usa molte volte. Io vorrei tanto, dice p.es. l’innamorato pazzo di Geltrude, che noi due amanti fossimo “Giartruda tutta sorca, io tutt’uscello” (L’incisciature). Del resto il popolino non diceva anche di Santaccia, famosa prostituta di piazza Montanara, che “ddiventava fica da ogni parte”, grazie alle sue ben note virtù acrobatiche per accontentare insieme anche quattro clienti per volta?

E la fica poteva anche essere vantata come intatta, non si sa se in modo veritiero, da qualche ragazza denunciata al capo rione per condotta immorale da una gelosa concorrente. Con argomentazioni difensive geniali, degne del più capzioso degli avvocati. Non solo, e va bene, “sta fica è ancora sana”, ma “io sò zzitella ppiú de la Madonna, perché llei, nun fuss’antro, ha ffatto un fijjo” (Er presidente dell’Urione, 26 giugno 1832).

Ma perché “fica”? Per la vaga somiglianza dell’esterno dell’organo sessuale, dicono gli etimologi, almeno in molte donne, col frutto del fico, che nell’italiano delle origini doveva per forza essere sostantivo femminile (“fica”), come tutti i frutti (la mela, la pera, la susina), mentre maschili sono gli alberi corrispondenti (il melo, il pero, il susino). Questa è la regola ancor oggi. Perciò se fico è l’albero, fica era e dovrebbe essere il frutto. E tale è ancora presso sempre più rari contadini laziali e venditori di frutta del Centro-Italia e del Sud (p.es. a Lecce e nel Salento qualche banco di fruttivendoli vende “le fiche bone”), cioè dove le tradizioni del latino volgare si sono conservate meglio. Ma ben presto, dato il diffondersi della metafora anatomico-sessuale “fica” nel linguaggio popolare, per evitare confusioni si fece eccezione solo per il frutto del fico, e così fu volto al maschile. Fatto sta che fica o figa come organo sessuale appare già nell’Alto Medioevo ed è presente nelle Trecentonovelle del fiorentino Sacchetti (1393 circa). Invece, dove fica vuol dire solo il frutto, il nome è rimasto tuttora al femminile, come nei dialetti ligure, napoletano, leccese ecc. e nelle lingue neolatine (francese: la figue). Eppure, nella Roma di ieri ancora qualche venditrice di frutta urlava: «quant’è bbona la fica mia» (Zanazzo), e il medesimo invito, per niente sessuale, è stato ascoltato di recente al mercato Trionfale da più d’una venditrice “rustica”, cioè di quelle venute dalla campagna, che con astuzia commerciale faceva leva sulla sua esibita rusticità linguistica per dare a intendere che anche il frutto fosse rustico e genuino.

Fica, dunque, come organo sessuale della donna, ma anche come attività sessuale in generale. Nel sonetto La vita dell’omo che cosa di male e di bene deve attendersi dalla vita l’uomo adulto? “Lo spedale, li debbiti, la fica...” E qual è il problema principale dei monaci in convento, per dirla con Er Padre Suprïore (14 marzo 1834)? “So’ ddisperati pe la fica”. Dura, infatti, è la vita del prete: può e non può, vuole e non vuole. D’altra parte – argomenta il popolano del Belli con eversivo ma stringente sillogismo – “ssi vvoleva Iddio dajje er cappello / a lluminetto, e llevajje la fica / l’averebbe creato senz’uscello” (se Dio avesse voluto un prete immune dalla tentazione del sesso lo avrebbe fatto senza organo maschile). E, in effetti, allargando la visuale all’uomo in genere, è tale il brulicare di donne facili che “diteme cuale cazzo nun z’addrizzi / fra ttanto pipinaro de miggnotte”, cioè ditemi quale uccello non vada in erezione tra tanto brulicare di donne facili (Li preti maschi, 11 gennaio 1833).

Ma sì, lo sanno tutti: alla fin fine, che cosa muove l’universo Mondo? Non i potenti, ma la fica e i soldi. I soldi e la fica. Due cose che vanno sempre insieme: tanto la fica attira i quattrini, quanto i quattrini attirano la fica (Un indovinarello, 8 novembre 1832):

UN INDOVINARELLO
Sori dottori, chi ssa ddimme prima
come se chiama chi ggoverna er monno?
Cuello che mmanna tanta ggente in cima,
cuello che mmanna tanta ggente in fonno?
Er Papa? er Re? - De cazzi, io ve risponno:
sete cojjoni, e vve lo dico in rima.
Er pelo e er priffe è cquer che ppiú se stima
pe cquanto è llargo e llongo er mappamonno.
Er priffe e ’r pelo sò ddu’ cose uguale,
der pelo e 'r priffe sò ttutti l'inchini,
p'er priffe e 'r pelo se fa er bene e 'r male.
E una cosa dell'antra è tanta amica
cuanto la fica tira li cudrini,
e li cudrini tireno la fica.
8 novembre 1832

Versione. Un indovinarello [gioco infantile dell’indovinare]. Signori sapienti, chi sa dirmi prima che cosa governa il mondo, che manda tanta gente in cima, e manda tanta gente in fondo? Il Papa? Il Re? Nient’affatto, vi rispondo: siete degli stupidi e ve lo dico in rima. La fica e il denaro è quel che più si stima per quanto è largo e lungo il mappamondo. Il denaro e la fica sono due cose uguali [per potere], per la fica e il denaro sono tutti gli inchini, per il denaro e la fica si fa il bene e il male. E una cosa dell'altra è tanto amica che tanto la fica attira i quattrini, quanto i quattrini attirano la fica.

Anche la fica, ma meno dell’organo maschile, ha anche altri significati traslati, tra cui anche ozio, nel senso che una donna che non ha niente da fare che fa? “Si gratta la fica” (Er lavore, 30 gennaio 1833):

Cuanno che fussi dorce la fatica,
La voríano pe ssé ttanti pretoni
Che jje puncica peggio de l'ortica.
Va' in paradiso se cce sò mminchioni!
Le sante sce se gratteno la fica,
E li santi l'uscello e li cojjoni.

Versione. Se la fatica fosse piacevole, la vorrebbero per sé tanti preti furbi, a cui punge più dell’ortica. Guarda in Paradiso, se ci sono gli stupidi: le sante si grattano la fica [stanno in ozio] e i santi l’uccello e i coglioni

Ma è anche la parte per il tutto, specialmente una parte anatomica per l’intero corpo (sineddoche), cioè una bella donna. In questo caso la regina è Anna Bolena in un’opera del Donizetti vista a teatro (La ssedia de Tordinone): Ierassera cuer bon pezzo de fica de la reggina,

E fica e fregna sono sinonimi, proprio come la Roma di ieri e la Roma di oggi sarebbero la stessa cosa, secondo la singolare tesi storica del Belli, che si finge popolano ma in realtà è un piccolo-borghese ultraconservatore (Rom’antich’e mmoderna, 23 marzo 1834):

Bbravi! Roma moderna, e Rrom’antica!
Sarebbe com’a ddí: «Vostra sorella
lo pijja ne la freggna e nne la fica».

Ma fregna vuol dire anche capriccio o fisima, tanto che ancor oggi nel raro parlare romanesco delle donne più anziane resiste l’espressione “Ci ha le fregne”, riferita a una donna un po’ svitata, con la luna storta. E il Belli infatti riporta: Chi lo sa cc’antra fregna j’ha ppijjata? (Chi s’impicca se spicca, 24 novembre 1831).

E fregna, alla fin fine, non sembra anche un peggiorativo di fica? In alcuni casi, sì. Infatti è anche usato nel significato di cosa da nulla, bazzecola. Non per caso fregnaccia è una stupidaggine. Figuriamoci, poi, quando due uomini si litigano una fregna senza valore [anche qui sineddoche per donna], che per essere rimasta senza peli non dà neanche la dote, per riferirsi a un antico e oggi sibillino proverbio romano poco chiaro anche per lo stesso Belli, come ammette in nota: “Peli e fregna so’ la dote de Carpegna” (La donna liticata, 21 dicembre 1832). Che questa famiglia entrata nel proverbio fosse così povera o avara da dare in dote solo la “fregna” delle proprie donne? Non lo sapremo mai. Fatto sta che il concetto è ribadito qui:

E accusì in dua se litica una freggna
che pper èsse arimasta senza peli
nun dà mmanco la dota de Carpeggna

AGGIORNATO IL 6 NOVEMBRE 2014

 
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