Nulla è stato in passato più mutevole e opinabile del tentativo di scandire il tempo. Nonostante che l’orologio portatile, individuale, si fosse diffuso in tutt’Europa a partire dal Seicento, fino agli inizi dell’800 la stessa divisione in ore del quadrante di un orologio non era per niente una regola esatta.
Intanto, mancavano o erano rarissimi gli orologi meccanici pubblici. Nei Paesi più arretrati, come lo Stato pontificio, erano ancora visibili sulle mura esterne e nei cortili dei palazzi signorili le antiche e tradizionali meridiane, con un’assicella che proiettava l’ombra su una scala graduata a seconda delle stagioni.
Del resto, nei Paesi cattolici le autorità religiose facevano di tutto per imporre al posto dell’orologio della torre municipale, tipica dei Comuni liberi e dei Paesi liberali, la campana del campanile della chiesa parrocchiale.
Altrimenti le autorità religiose e i vecchi nobili, se avevano bisogno, molto di rado, di una sorta di cronometro “esatto” per un periodo da qualche minuto ad alcune ore (in questo caso rovesciandola più volte), usavano l’antichissima clessidra a sabbia, indispensabile anche per le misurazioni rituali e legali (assemblee, cerimonie, contratti ecc).
Fatto sta che nessuno sapeva mai l’ora esatta: le chiese suonavano le campane per dare il mezzogiorno, ma ognuna col tempo suo. Avevano il quadrante “all’italiana” o “all’antica”, cioè diviso in sei ore, più o meno come gli antichi Romani (quello a 12 ore era detto “alla francese”. Per cui il popolo diceva: “Ci vediamo sul tardi, alla quart’ora”. Poi, come ricorda Vacca più avanti commentando la battuta d’uno svizzero registrata dal Belli, le lancette dei rari orologi sulle chiese o altri edifici residenza di religiosi (come quello del torrino sul Quirinale, residenza del Papa, v. immagine in alto) non corrispondevano al numero dei tocchi delle campane. E i pochi orologi personali non avevano un segnale orario di riferimento. Con immaginabili inconvenienti. Per ovviare al problema e uniformare il segnale di mezzogiorno dato dalle campane, a Roma papa Pio IX decise di far sparare un colpo di cannone a salve da Castel S.Angelo, in modo che lo sentisse tutta la città e tutti potessero regolare il proprio orologio su quel segnale univoco. Si iniziò il I dicembre 1847:
«A maggior comodo del pubblico, affine di ovviare al disordine che può non di rado arrecare il diverso andamento di tanti orologi in questa Capitale, per ordine superiore cominciando da domani 1.o dicembre un colpo di cannone tirato dal forte S.Angelo annunzierà ogni dì alla popolazione il vero istante e preciso del mezzogiorno, quale appunto dovrebb'esser in par tempo indicato da tutti gli orologi ben regolati della città» (Diario di Roma, 30 novembre 1847).
Ma chi aveva un orologio? Solo i ricchi o benestanti. Purché fossero contemporaneamente modernisti, non avari, un po’ eccentrici ed esibizionisti. Pochi possedevano le grandi e rumorose pendole con scappamento a pesi, pochissimi addirittura un orologio personale da tasca.
Orologio che fino alla giovinezza del Belli, visto il conservatorismo o la povertà del poeta, poteva benissimo ancora essere uno di quelli grossi e spessi tipici del ‘700, a causa delle dimensioni del meccanismo interno. Meccanismo a cui si accedeva aprendo strati successivi (di qui, sia per gli strati, sia per la grossezza dello spessore, il nomignolo di “cipolla”).
Questi vecchi “orioli” dovevano costare poco, ormai, verso la metà dell’800, tanto da essere caratteristici di vecchi avari o persone all’antica. Il Belli, così passatista in molte cose, diventa modernista riguardo agli orologi, e in un sonetto prende in giro un tradizionalista che usa ancora uno di questi apparecchi pesanti e ingombranti, oltreché imprecisi. Arnesi fatti apposta, si direbbe, per scivolare fuori dal taschino del gilet o dei pantaloni, e cadere dove meritavano, cioè, nella puzzolente “seggetta”, il recipiente di ceramica del cesso. Tipica caduta comica belliana.
E questo accadeva ancora agli inizi del secolo “della scienza e della tecnica”, cioè il XIX.
Ma i contadini, così come i tanti tradizionalisti, per vendicarsi, andavano dicendo che l’orologio “non serviva a niente”, e che dovevano essere un po’ matti quei signori che per sapere che tempo faceva guardavano anziché in alto verso il cielo, in basso, in un apparecchio estratto dal taschino.
Marchingegno che al popolino, così come ai preti, doveva apparire misterioso e diabolico. A loro, invece, bastava guardare il sole, o ascoltare i rintocchi delle campane. Su quelle regolavano le semplici fasi della loro vita e perfino i lavori agricoli. Campane, però che cambiavano ritmo a seconda delle stagioni, se è vero che i rintocchi dell’Ave Maria, sul far della sera, potevano variare tra estate e inverno anche di più di un’ora.
Il Belli nei suoi sonetti ha un curioso e un po’ maniacale rapporto con l’orologio. Intanto nei suoi frequenti viaggi in diligenza avrà dovuto portarsene appresso uno da taschino, necessariamente, visto che nei suoi resoconti (vedi le sue Lettere a Cencia) è così pignolo sugli orari di viaggio, di arrivo e partenza, tra locande, stazioni di posta e dazi. Ecco, perciò, la foto di un grosso orologio “da carrozza”, coevo del Belli giovane, per metà rivestito in pelle, quindi protetto dagli urti del viaggio, ma anche adatto ad essere maneggiato dal freddolosissimo poeta nelle giornate d’inverno.
Sul poeta romanesco e gli orologi, pubblichiamo un articolo che abbiamo avuto l’onore di ricevere dal grande scrittore scientifico e futurologo Roberto Vacca, lo stesso poi pubblicato nel maggio 2007 sulla rivista L’Orologio. Vacca – pochi lo sanno – registrò nel 1997 una sua conversazione sul “Progresso scientifico e tecnico nei sonetti di G.G.Belli” (con tanto di declamazione di 12 sonetti), ora raccolta in un disco cd che può essere richiesto all’autore. Complimenti all’amico Vacca.
NICO VALERIO
OROLOGI IN CERTE POESIE CURIOSE: IL BELLI
“Oh, Griste sante! Segnar quattro, sonar tiece e star fentitue!”
(Oh, Cristo santo! Segna le quattro, suona le dieci, ma sono le 22!)
Questa lamentela pronunciata con accento tedesco da uno svizzero del papa, fu registrata dal poeta Giuseppe Gioachino Belli nel 1846 a commento del suo sonetto del 22 ottobre, “L’orloggio”.
Per capirla bisogna sapere che fino a quell’anno il grande orologio del Palazzo Pontificio al Quirinale [v. immagine in alto, NdR] e quelli installati sui campanili romani avevano quadranti divisi solo in 6 ore invece che in dodici. Il primo giro finiva alle 6 del mattino – e la campana batteva sei colpi. Il secondo a mezzogiorno – dodici colpi. Il terzo alle 18 – sei colpi di nuovo - e, 4 ore dopo, mentre le lancette segnavano le 4, la campana batteva 10 colpi per le 10 di sera – che gli svizzeri contavano come le 22. Da qui l’esclamazione stupita della guardia svizzera: “Oh Cristo santo! L’orologio segna le quattro, la campana batte dieci colpi e sono le ventidue!”
Pare che i quadranti con dodici ore fossero stati introdotti a Roma al tempo di Napoleone. Con la Restaurazione si era tornati a 6 ore, ma nell’autunno del 1846 papa Pio IX (Giovanni Mastai, incoronato il 21 giugno) stabilì di nuovo che i quadranti fossero organizzati all’astronomica – o alla francese – e i francesi venivano ancora chiamati giacobini. Il Belli fa parlare un popolano romano che rimpiange il sistema tradizionale e dice:
……er zanto padre ha la corata
D’arimette l’orloggio a la francese
Un papa ammalappena ar quarto mese
Der papatico suo! Brutta fumata!
Disse bene er decan de Lambruschini
Ar decan de Mattei: “Semo futtuti
Qua torneno a regna’ li giacubbini!”
‘Sto sor Pio come voi che Dio l’ajuti
Quanno ce vie’ a imbroja’ per li su’ fini
Sino l’ore, li quarti e li minuti?
Versione. Il Santo Padre [Pio IX] ha il cuore (coraggio) di rimettere il quadrante degli orologi alla francese. Un papa a mala pena al quarto mese del suo papato! Che brutta fumata (elezione)! Disse bene il cameriere decano (anziano) del card. Lambruschini [che, particolare non secondario, aveva conteso l’elezione a Pio IX] al decano del card. Mattei: “Siamo rovinati, qua tornano a regnare i giacobini!” Questo signor Pio, come vuoi che Dio lo aiuti, quando ci viene a imbrogliare per i suoi scopi perfino sulle ore, i quarti e i minuti?
Nei sonetti del Belli gli orologi appaiono spesso come oggetti rubati e il poeta non disapprova molto i ladri. Il 24 ottobre 1835 scrive:
Perché quello va in chiesa la mattina
Rubanno qualche orloggio o fazzoletto
C’entra da staje a fa’ tanta marina?
Bisogna compatillo, poveretto.
Come dice er proverbio, sora Nina?
“Ama l’amico tuo cor su’ difetto”
Versione. Perché quell’uomo va in chiesa al mattino per rubare qualche orologio o fazzoletto, dobbiamo poi condannarlo duramente? Bisogna compatirlo, poveretto. Come dice il proverbio, signora Nina? “Ama il tuo amico col suo difetto”.
Il Belli nomina anche gli orologi come sintomi o indicatori della ricchezza notevole di chi li sfoggiava. Sembra che venissero offerti anche come ex voto per grazie ricevute e appesi alle statue della Madonna. Nel sonetto del 2 febbraio 1833 descrive la statua della Madonna col bambino, (opera di Jacopo Sansovino nella chiesa degli Agostiniani):
“ …..la Madonna de Sant’Agustino,
quella ch’Iddio je le dà tutte vinte.
Tra du’ spajere de grazzie dipinte
Se ne sta a sede co Gesù bambino
Co li su bravi orloggi ar borsellino
E catene e scioccaje e anelli e cinte.
Versione. La Madonna di Sant’Agostino, quella a cui Dio esaudisce tutte le richieste, tra due spalliere di Grazie dipinte se ne sta seduta con Gesù bambino, con i suoi bravi orologi al borsellino, e catene e pendenti e anelli e cinture.
Il poeta doveva anche tenersi informato sul valore delle varie marche. Varie volte cita come esempi di perfezione gli “orioli” prodotti a Ginevra dal famoso Isaac Soret del quale storpia il nome alla romana. Nel sonetto del 19 aprile 1834, un ebanista descrive due scatole intarsiate che si accinge a produrre e ne giustifica il prezzo elevato assicurando il cliente che saranno perfette. Saranno:
du’ cose arissettate
Come du’orloggi de Sacchesorette
Due cose rimesse in sesto come due orologi di Isaac Soret
Naturalmente il poeta romano, così attento alle ansie e alle paure di una popolazione che non viveva in situazione prospera e che aveva una speranza di vita alla nascita pari a poco più di metà di quella di oggi, non manca di interpretare l’orologio in modo pessimista e rassegnato come simbolo del tempo che passa e del fato inevitabile che incombe su ciascuno di noi.
La morte sta anniscosta in ne l’orloggi
E gnisuno po’ dì “domani ancora
Sentirò batte er mezzogiorno d’oggi”.
Versione. La morte se ne sta nascosta negli orologi. E nessuno può dire: “Domani ancora sentirò battere il mezzogiorno”.
ROBERTO VACCA
IMMAGINI. 1. Orologio “italico” o “all’italiana” a sei ore (contrapposto a quello di 12 ore, detto “francese”) sul Torrino del palazzo del Quirinale, oggi residenza del Presidente della Repubblica, ma ai tempi del Belli sede del Papa. 2-3. Orologio da tasca di Andreas Mahl (1710) chiuso e aperto. Rappresenta il tipico orologio che nell’Ottocento apparirà antiquato, ingombrante, di grosso spessore e con più coperchi, perciò detto “a cipolla”. 4. Orologio da carrozza di Robert & Courvoisier (1780-1800) con chiavetta di carica (Museo Nazionale Scienza e Tecnica “Leonardo da Vinci”, Milano). 5. Orologio da tasca di Isaac Soret (Ginevra 1770-80), nome che per deformazione popolare il Belli fa diventare “Saccherosette”.
AGGIORNATO IL 16 APRILE 2014
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