3 marzo 2010

Ma che grande attore "Peppe er tosto". Firmato: Gogol

Belli, grande "dicitore dei suoi sonetti", nota il filologo belliano Pietro Gibellini. Ne abbiamo testimonianze concordi - scrive - a partire da quella formidabile di Gogol, che lo sentì a Roma in casa Volkonskij, e ne scriveva subito, 1838, alla Balòbina: riderebbe di gusto l’amica russa, udendo i sonetti trasteverini del Belli, "che peraltro vanno ascoltati quando egli stesso li recita".
Domenico Gnoli rievocando il Belli ormai vecchio: "In verità i suoi sonetti, recitati da lui con voce alquanto sommessa, con espressivo spianare e aggrottare di ciglia, col più puro dialetto trasteverino e certe gradazioni di voce e inflessioni finissime, pigliavano un colore che, recitati o letti, non avranno mai più".
Paolo Campello Della Spina lo ricorda nelle serate in casa di monsignor Bonaparte, il futuro cardinale, quando la sera, dopo il caffè, e fattosi un po’ pregare, accettava di recitare i sonetti proibiti: "Pareva che egli non potesse declamare a modo, se non sedeva comodamente e non metteva in capo un berrettino di seta nera, che durante la recitazione veniva rigirando sul cranio. Non era possibile non smascellarsi dalle risa, soprattutto per la serietà a cui atteggiava il suo volto sbarbato, sul quale invano avresti aspettato un sorriso. Quei versi che declamava quasi a ritegno, come ad esempio "Il Papa non fa niente", non c’era caso di farglieli ripetere".
Altre testimonianze - continua Gibellini - anche se non espressamente applicate ai sonetti romaneschi (penso a Spada, a Tarnassi…) lasciano indovinare un formidabile comico-serio, una sorta di Buster Keaton, mentre certe lettere del Belli lasciano intendere che questa serietà nel comico corrispondesse davvero a una interna nevrosi, al sentimento tragicomico proprio del grottesco. "L’assetto filologico delle poesie romanesche conferma le testimonianze biografiche: i pochi sonetti che circolarono semiclandestini durante la vita di Peppe er Tosto evasero dalla clausura cui li relegava lo scrupolo dell’autore proprio grazie alle dizioni ch’egli ne teneva: e le varianti che caratterizzano le copie apografe hanno il carattere "orizzontale" tipico della tradizione orale ("Sette appunti", 1987; Studi di filologia italiana, XXXI 1973; G.G. Belli, Sonetti, a cura di P.Gibellini, Milano 1974).
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Gustosa la ricostruzione. E certamente sulla costante presenza di ecclesiastici alle letture salottiere o accademiche dei sonetti del Belli, anche i più "sconci", anticlericali, antipapisti e antireligiosi, dovremo tornar sù con qualche articolo. Ad essere ambivalente non era più solo il Belli, di giorno prima ragioniere (computista) e poi addirittura "censore teatrale" per il Governo della Chiesa, e di notte poeta satirico amante di "oscenità" e irrisioni.
Dunque, quella di Belli sarebbe una "scrittura orale". Del resto lo scrive egli stesso nella Introduzione ai sonetti: non ha voluto riportare una inesistente scrittura romanesca, ma ha tentato di trascrivere con segni noti le voci e i suoni ignoti del popolo di Roma. Questo, però ha portato tutta una serie di problemi.
La filologia fa progressi, com’è giusto. Però resta il fatto che oggi perfino un romano che voglia leggere i sonetti del Belli – tanto più se ad alta voce e in pubblico – trova più ostica da pronunciare che in passato la metrica del grande poeta romanesco.
Eh, scusate, quanno ce vo’, ce vo’ (anzi sce vo’, come si trova nelle ultime e più fedeli edizioni), bisognava che qualcuno scrivesse di questo side effect degli studi filologici moderni sull’uso pratico e non scientifico dei Sonetti. Dopotutto, "Peppe er tosto" (così il Belli firmò molti sonetti) non li scrisse per gli studiosi, ma per i lettori e ascoltatori qualunque.
Ci sia consentita, perciò, una punta di irrazionale nostalgia per la fluente poesia curata nella celebre edizione del Vigolo, dove da poeta egli stesso (e grande poeta, tra l’altro) e comunicatore, il curatore avendo a cuore soprattutto la musicalità e il ritmo, qualità essenziali della poesia, addolcì giustamente la grafia belliana fino a renderla leggibile.
Perché si sa, o meglio dovremmo saperlo come italiani – per i quali il tosco-romano colto ("lingua toscana in bocca romana") è la pronuncia ideale – che nella nostra bella lingua dominano ovunque non solo le consonanti raddoppiate ma anche le aspirate. E quindi, per esempio, l’avverbio certo si pronuncia in perfetto italiano non certo, ma quasi scerto.
D’accordo, ma noi continuiamo a scrivere certo, non scerto. E se il Belli ha scritto sce anziché ce, cercando di riprodurre come un antropologo senza registratore la pronuncia onomatopeica del popolino, questo semmai fu un suo "errore" di angolazione piccolo-borghese, perché immaginava che il pubblico dei salotti non romani e perfino qualcuno dei romani non avrebbe saputo pronunciare correttamente le consonanti aspirate e raddoppiate romanesche (per esempio, cqui per qui).
Questo ci porta immediatamente sul carattere di oralità, recitatività, insomma di vera e propria trascrizione fonetica che hanno i sonetti del Belli. Dapprima, possiamo immaginare, tratti dalle sue "indagini sul campo" tra i vicoli e nelle botteghe di Roma, e subito appuntati sulla carta, ma poi rielaborati con successivi perfezionamenti linguistici e grafico-fonetici per renderli più aderenti allo stile "romanesco", secondo modelli o ideali che lo stesso Belli doveva avere. Come testimoniano innumerevoli correzioni e ripensamentei puramente grafici sui manoscritti.
E se i manoscritti a noi pervenuti sono le "belle copie", figuriamoci quali geroglifici dovessero contenere i brogliacci delle sue prime bozze. Quelle che bruciò nella cucina della casa di via Monti della Farina, chissà perché, terrorizzato dai rivoluzionari che sotto le sue finestre, a lato della chiesa di S.Carlo ai Catinari, davano alle fiamme i confessionali. Confessionali che proprio il Belli nei suoi sonetti aveva contribuito a distruggere.
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IMMAGINE. 1. La lettura delle proprie poesie agli amici un tempo era abitudine comune tra le persone colte. Qui è riprodotto il dipinto del pittore espressionista danese Jens F. Willumsen (1863-1958) che rappresenta una lettura del poeta Sophus Claussen (1915, Aarhus, Kunstmuseum). 2. La targa con dedica a Gogol, grande ammiratore del Belli, in via del Babuino.

1 commento:

Mary the Red ha detto...

Bell'articolo. Hai fatto bene a sottolineare che tutti i poeti antichi, specialmente i satirici, recitavano in pubblico le proprie satire. Besos.

 
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