14 febbraio 2011

“Sì, sono puttana, ma quante signore mi rubano il mestiere!”

Il sesso, insieme con la prostituzione (la sua applicazione commerciale) e il matrimonio (il suo lato ipocrita e istituzionale), muove da sempre le ruote del Mondo. Sia con uomini ricchi che poveri, sia con donne belle che brutte. Perché, come dice un proverbio contadino (e ai contadini non potete chiedere finezza), “tira più un pelo di fica che un carro di buoi”.
Recenti cronache dal Palazzo, riportano in auge l’antica supremazia di Eva sul povero Adamo, in quanto detentrice monopolistica d’un bene economico scarso: la fica. E il potente di turno, anche a volerlo (ma non lo vuole), non potrebbe neanche difendersi eccependo: “Vostro Onore, si sa, la carne è debole, fu lei a provocarmi…”
Eppure, gira e rigira è sempre la solita merce, cambia solo l’entità della retribuzione. Che però, noterebbe un economista, è congegnata curiosamente non come prezzo di mercato, ma come una specie di tassa. Colpisce, infatti, con maggior durezza impositiva i ricchi e i potenti, mentre è dolce coi poveri. La prostituta d’alto bordo (“escort”), può chiedere ad un Capo di Governo anche centinaia di migliaia di euro, mentre se la medesima battesse nei vicoli maleodoranti d’un angiporto, malgrado la biancheria firmata, racimolerebbe a malapena pochi euro. Solo 3 giuli, infatti, chiede la simpatica e umanissima “puttana sincera” così efficacemente descritta di G.G.Belli. Compresa l’assicurazione “religiosa” dalle malattie, da cui si diceva esente grazie ad un lumino acceso alla Madonna. Altri tempi: altro “scortico” (puttaneria), altre escort:
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LA PUTTANA SINCERA
Io pulenta? Ma llei me maravijjo!
Io sò ppulita com’un armellino.
Guardi cquà sta camiscia ch’è de lino
si ppe bbianchezza nun svergogna un gijjo!
Da sí cche cquarc’uscello io me lo pijjo
io nun ho avuto mai sto contentino,
perché accenno ogni sabbito er lumino
avanti a la Madon-der-bon-conzijjo.
Senta, nun fò ppe ddillo, ma un testone
lei nu l’impiega male, nu l’impiega,
e ppò rringrazzià Ccristo in ginocchione.
Lei sta cosa che cqui nun me la nega,
che invesce de bbuttalli a ttordinone
tre ggiuli è mmejj’assai si sse li frega.
28 gennaio 1832
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Versione. La puttana sincera. Io non ho la gonorrea, mi meraviglio di lei: sono pulita come un ermellino. Guardi questa camicia, che è di lino, se per biancore non fa vergognare un giglio. Da quando piglio qualche uccello, non ho mai avuto questo regalo, perché accendo ogni sabato un lumino alla Madonna del Buon Consiglio. Senta, non fo per dirle, ma un testone [moneta di tre paoli] lei non l’impiega male davvero, e può ringraziare Cristo in ginocchio. Lei non mi può negare che invece di buttarli a Tor di Nona [un teatro dove si davano cattive opere], tre giuli è molto meglio se se li frega [gioco di parole per: li usa per fregare, cioè scopare].
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Fatto sta, che anche nei Governi, non solo nei racconti polizieschi, vale il detto “cherchez la femme”. Lontani i tempi (acrobatici) in cui da sotto una scrivania una stagista lavorando efficacemente di labbra quasi fece dimettere e porre sotto accusa di impeachment un Presidente degli Stati Uniti d’America, oggi nella più tradizionale Italia alle benefiche “escort” da beneficare lautamente si chiede anche di saper ballare discinte, sia pure il bunga-bunga.
Senonché, il presidente americano, venendo da una rigorosa morale protestante, finì sotto processo non per aver fatto sesso (come il rigore degli Antichi avrebbe voluto), ma solo per essersi ostinato a negarlo (ipocrisia dei Moderni).
Ma quelle erano sottili distinzioni etiche degne d’un grande Paese liberale. Da noi, invece, la rozzezza del Potere non si nutre né di filosofia politica né di Bibbia (del Libro, semmai, prende quando fa comodo la parte peggiore, quella del Nuovo Testamente, laddove si parla d’una certa Maddalena, presunta amante poco di buono del leader Joshua il Nazareo, cioè il rivoltoso…), ma si limita a negare l’evidenza, a mentire spudoratamente, certo della comprensione corriva e dell’assoluzione d’un Grande Paese Cattolico, cioè peccatore.
Però, al dunque, nell’Occidente cristiano le due anime, protestante e cattolica, si riuniscono nella scandalosa prassi che si riassume nel motto di comodo: puoi fare quello che vuoi, basta che poi lo confessi e ti dichiari pentito. In pubblico (Paesi anglosassoni e protestanti) o nel segreto del confessionale (Paesi latini e cattolici). In entrambi i casi, un po' peggio nel secondo, è la morale di Pulcinella.
Ma nel sonetto del Belli neanche il giudice del severissimo Vicario della Roma papalina, supremo censore, riesce a far ammettere ad una donna che fa “il mestiere” di essere una puttana. Quella ha più parlantina e dialettica di lui, e nega l'evidenza, però contraddicendosi. E, sicura di sé, finisce l’autodifesa con una comica contraddizione: lo invita addirittura a casa sua, perché provi se è vero che è ormai così virtuosa da avercela "quasi richiusa”, insomma come quando era vergine. Una faccia tosta irresistibile:
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ER GIUDISCE DER VICARIATO
Senta, sor avocato, io nun zò mmicca
da nun intenne cuer che llei bbarbotta.
Lei me vò ffà sputà ch’io sò mmignotta:
ma sta zeppa che cquà nun me la ficca.
La verità la dico cruda e ccotta,
ma cquesta nu la sgozzo si mm’impicca.
S’io me fesce sfasscià ffu pe una picca,
pe ffà vvedé cche nu l’avevo rotta.
D’allor’impoi sta porta mia nun usa
d’oprisse a ccazzi: e ssi llei vò pprovalla,
sentirà cche mme s’è gguasi arichiusa.
...Bbè, rrestamo accusí: su un’ora calla
lei me vienghi a bbussà co cquarche scusa,
e vvederemo poi d’accommodalla.
26 gennaio 1832
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Versione. Il giudice del Vicariato. Senta, signor avvocato, io non sono stupida da non capire quel che lei borbotta. Lei mi vuole far sputare che io sono mignotta, ma questo tranello lei non me lo gioca. La verità la dico cruda e cotta, ma questa non la tiro fuori neanche se m’impicca. Se io mi feci sverginare fu per ripicca, per far vedere che non ce l’avevo rotta. Ma da allora in poi questa porta non ha l’abitudine di apirsi ai cazzi: e se lei vuole provarla sentirà che mi si è quasi richiusa. Va bene, restiamo d’accordo così: verso un’ora calda [nel pomeriggio] lei venga a bussarmi con qualche scusa, e vedremo poi di accontentarla.
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Proprio come la puttana interrogata dal giudice del Vicariato, con la stessa improntitudine, i nostri politici non confessano mai, ma si affidano a “Santa Nega”, come dice il Belli, cioè dicono no su tutta la linea, negando anche l’evidenza. Che dire, infatti, d’una ministra accusata dalla vox populi e da intercettazioni illegali di aver guadagnato la carica per la sua abilità, diciamo così, oro-genitale, cioè di aver praticato quella che i preti maliziosi e causidici hanno classificato in latino come fellatio in ore (vulgo: "pompino") ad un Capo del Governo? E potremmo continuare in un lunghissimo, interminabile elenco, dalla A della prima Ava (Eva) alla Z dell’ultima Zhara della Terra.
E la Chiesa, così severa su cose “di pensiero”, che dice di questo peccato così materiale, “di carne”, come quello di una prostituta e del suo cliente? Poco o nulla, è di manica larga, al solito. Il sesso non generativo e non matrimoniale è catalogato tra i “peccati minori”. E ci sembra logico, dal loro punto di vista. Anche perché il cristianesimo, o peggio il cattolicesimo, non è dei virtuosi, dei buoni, degli onesti, degli asceti – ripete un mio amico prete che la sa lunga – ma è la comoda e consolatoria religione dei peccatori, dei cattivi, dei corrotti, dei lascivi. E così, grata di questa benevolenza inaspettata da parte del Divino, una puttana lercia come poche (v. il famoso sonetto belliano "Santaccia di piazza Montanara"), offre sotto forma di pia beneficienza, “in zuffraggio di quell’anime sante benedette”, non so più quale parte del corpo ad un povero ragazzo senza il becco d’un quattrino che sta in disparte a guardarla. O generosità delle prostitute d'un tempo! Altro che quelle avide di oggi, che per un semplice pompino o un balletto da niente, se sei per sventura Capo di Governo, sono capaci di chiederti anche 500 mila euro. Che tempi!
Dignità e umanità nella figura della zoccola di ieri (contrapposta alla escort di oggi) che traspare anche da un altro bel sonetto belliano, quasi femminista, tutto scritto “dalla parte di una mignotta”, che non nega nulla della sua professione, anzi tiene a ricordare che si è fatta da sé e non deve nulla a nessuno, e si permette alla fine una frecciata moralistica, lei puttana, contro le “dame”, le “signore per bene” dell’aristocrazia o le mogli dei professionisti, che consapevoli di quanto rende la puttaneria, ben nascoste nei salotti eleganti e nei talami a baldacchino, la danno a tutti, proprio come fa lei, facendole una concorrenza sleale.
La satira contro le donne, del resto è ricca di accuse velenose. Ma le stesse donne, specie le femministe, hanno più volte preso le distanze (anche ieri, alla grande adunata delle donne a piazza del Popolo, a Roma, che verteva proprio su questo tema) dalle solite segretarie, stagiste, hostess, massaggiatrici, ma perfino docenti universitarie, giornaliste, attrici, deputate e presidentesse di enti e società, che vanno avanti nella vita grazie al sesso. Per colpa degli uomini, che non antepongono certo il merito. E non parliamo dei matrimoni di convenienza, così antichi che sono all’origine stessa del matrimonio. Quando mai una donna - ribattono gli uomini - non mette nel conto delle nozze anche professione, soldi e conto in banca del futuro marito? Come credete che molte signore si “innamorino”, facciano carriera, conquistino fidanzati, amanti, soldi, agguantino mariti (spesso vecchi), raggiungano status sociale, mettano le mani su cospicue eredità – direbbe la moralissima puttana del Belli – se non vendendo furbescamente pezzo a pezzo, cioè a più caro prezzo di lei, il proprio corpo?
Ma certo. Anzi, è la vita stessa una puttaneria (uno "scortico"), e per tutti, donne e uomini. Che altro fa, in fondo, un impiegato, un manager, un pubblicitario, un politico, un professore o un giornalista, se non vendere pro quota il proprio cervello? E non è più grave, addirittura, vendere la propria intelligenza che un organo sessuale?
E se così va il mondo, allora, a conti fatti, che differenza pratica c’è tra una prostituta professionista e una donna qualunque? Nessuna o quasi. Chi disse che il matrimonio stesso è la forma più antica e istituzionalizzata di prostituzione? Il che porterebbe a due conseguenze: stimare un po’ di più la prostituta e un po’ meno la “signora per bene”.
E se così è, se dunque per il maschilista nascosto nell’uomo di ogni tempo e Paese tutte le donne sono puttane, perché mai una puttana patentata dovrebbe vergognarsi? Anzi, dovrebbe prendersela a morte per la concorrenza illecita che le “donne per bene”, le “dame virtuose”, borghesi, aristocratiche o popolane, le fanno. Senza pagare neanche le tasse e senza neanche farsi prima la dovuta visita medica. Che vergogna!
Come non dare ragione alla buona mignotta del Belli? La sua filosofia, la sua ritrovata “dirittura” morale si rivolta contro il senso comune, ma resta perfettamente dentro il buon senso. L’anticonformismo morale ed esistenziale del Belli si diverte perciò a sorprednere il lettore con un impensato e paradossale ribaltamento di fronte: è la puttana, in qualche modo “moralista”, a mostrarsi orgogliosa e dignitosa nel suo essere e nella sua dichiarata professione, mentre è la donna comune ipocrita, la signora “per bene”, la vera mignotta, senza perdono e senza scuse:

ER COMMERCIO LIBBERO
Bbe’! Ssò pputtana, venno la mi’ pelle:
fo la miggnotta, sí, sto ar cancelletto:
lo pijjo in cuello largo e in cuello stretto:
c’è ggnent’antro da dí? Che ccose bbelle!
Ma cce sò stat’io puro, sor cazzetto,
zitella com’e ttutte le zitelle:
e mmó nun c’è cchi avanzi bajocchelle
su la lana e la pajja der mi’ letto.
Sai de che mme laggn’io? nò dder mestiere,
che ssaría bbell’e bbono, e cquanno bbutta
nun pò ttrovasse ar monno antro piascere.
Ma de ste dame che stanno anniscoste
me laggno, che, vvedenno cuanto frutta
lo scortico, sciarrubbeno le poste.
16 dicembre 1832.
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Versione. Ebbene, sì, sono puttana, vendo il mio corpo, faccio la mignotta [ripetizione, v. l’etimologia nel Vocabolario minimo nel colonnino], sì, sto al cencelletto [le prostitute ricevevano in appartamenti al pianterreno muniti di cancelletto privato, per non far notare il via-vai dei clienti agli altri condomini]: lo prendo davanti e anche dietro. C’è qualcos’altro da dire? Che cose belle! Ma sono stata anch’io, signor babbeo, zitella come tutte le zitelle: ed ora non c’è chi possa rivendicare soldi sulla lana e la paglia del mio letto. Piuttosto, sai di che mi lagno? Non del mestiere, che sarebbe bello e buono, e quando va bene non si può trovare al mondo altro soddisfazione. Ma di tutte queste signore per bene che si nascondono, mi lagno, che vedendo quando frutta il puttaneggiare ci rubano i clienti.
IMMAGINI. Due fotogrammi tratti dal film "Il Marchese del Grillo", ambientato all'inizio dell'800, proprio gli anni della giovinezza e prima maturità del Belli.

1 febbraio 2011

Candelora. Dalla Madonna alla festa degli orsi e dei femminelli

Dimani, s’er Ziggnore sce dà vvita,
vederemo spuntà la Cannelora.
Sora neve, sta bbuggera è ffinita,
c’oramai de l’inverno semo fòra.

(dal sonetto Er tempo bbono)*
La festa religiosa cristiana delle candele, Candelòra o Candelaia, ricorda il rito di purificazione che la Madonna dovette seguire dopo aver dato alla luce Gesù Cristo, in conformità con la legge mosaica. Nel libro della tribu' di Levi, il Levitico, era infatti prescritto che ogni madre, che avesse dato alla luce un figlio maschio, sarebbe stata considerata impura per sette giorni, e che per altri trentatré non avrebbe dovuto partecipare a qualsiasi forma di culto. Il libro e' piu' noto per la sua condanna senza appello della omosessualita': Levitico 18,22 “Non avrai con maschio relazioni come si hanno con donna: è abominio”, e in 20,13: “Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro”.
Per una strana legge del contrappasso ai nostri tempi si sta invece consolidando una vocazione della Candelora come festa anche dei "femminelli". Da qualche anno a Montevergine in Irpinia si celebra con una "tammurriata" cui ora e' ammessa a partecipare anche la comunita' degli omosessuali, discriminata a morte piu' di 2000 anni fa.
Ma torniamo alle origini di questa festa di mezzo inverno. Le popolazioni celtiche, a latitudini molto piu' elevate, parliamo degli irlandesi e di altre genti del nord Europa, la interpretavano come il passaggio dal culmine dell'inverno alla discesa verso la primavera. A meta' strada fra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera. Un primo timido segnale del risveglio della natura.
Nella Roma del Belli, dove ogni festa era legata alla religione e percio' a qualche avvenimento della vita di profeti, santi e divinita', questa connotazione, di tipo astronomico, era stata completamente rimossa, cancellata, come ogni altro riferimento agli antichi rituali pagani.
Presso le popolazioni Celtiche del Nord Italia, e dell’Europa si celebravano festeggiamenti per una ricorrenza chiamata Imbolc (o anche Oimelc) o festa di mezzo inverno,
Il nome Imbolc è di origine irlandese.
La celebrazione di Imbolc iniziava al tramonto del sole, perché secondo il calendario celtico il giorno iniziava appunto dal quel momento. La traduzione del termine e' letteralmente "in grembo" e fa riferimento alla gravidanza delle pecore, cosí come Oimelc sta per "latte ovino", a indicare che in origine si trattava di una festa legata al latte dei greggi dei pastori. E’ in questo periodo, infatti, che nascevano gli agnellini, e di conseguenza le pecore avevano il latte. Era un momento importantissimo, poiché per le societa' dedite alla pastorizia la produzione del latte rappresentava il rinnovarsi di un ciclo vitale.
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Delle tradizioni legate alla Candelora presso le popolazioni alpine ci resta anche "La Festa dell’Orso", tipica delle zone di montagna. Anticamente, nelle zone dell’Arco Alpino, nel giorno di Candelora un montanaro-domatore girava per le piazze dei paesi facendo ballare un orso, simboleggiando il risveglio dal letargo della fiera e di tutta la natura.
Presso i Romani il risveglio dopo il periodo piu' freddo dell'inverno era celebrato con i Lupercalia.
La festività si svolgeva il 15 Febbraio (questo mese era il culmine del periodo invernale nel quale i lupi, affamati, si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi) in onore del dio Fauno nella sua accezione di Lupercus cioè protettore del bestiame ovino e caprino dall’attacco dei lupi.
Secondo Ovidio i Lupercalia furono istituiti da Romolo per una grazia ricevuta da Giunone, dea della casa, della famiglia e della fertilità.
Al tempo di re Romolo si verifico' un periodo di sterilità che coinvolse tutte le donne, incapaci di procreare. Per questo Ovidio racconta che la popolazione si reco' al bosco sacro di Giunone, ai piedi dell’ Esquilino. Attraverso lo stormire delle fronde, la divinita' annuncio' che le donne dovevano essere penetrate da un sacro caprone.
Un àugure perspicace interpretò l’oracolo e fu sacrificato un capro. Quindi tagliò dalla sua pelle delle strisce con le quali colpí le terga delle donne e dopo dieci mesi lunari le donne partorirono. In latino le fruste sono "februa", da cui il nome di febbraio, il mese in cui si svolgevano questi rituali.
Nella notte dei tempi passati, la commemorazione del rituale di purificazione di rito ebraico, dal vicino Oriente passò a Roma e già dal VIII secolo d.C. la festa aveva raggiunto grande solennità e partecipazione popolare. A Roma, nel Medioevo, si svolgeva una processione che attraversava mezza citta', partendo da Sant'Adriano, per i fori di Nerva e di Traiano, il colle Esquilino, per raggiungere infine la basilica di Santa Maria Maggiore, dove avveniva il rito della benedizione e distribuzione delle candele. 

Con il cristianesimo, insomma, i tanti caratteristici antichi rituali metainvernali sono stati eliminati e sostituiti dalla ricorrenza della Candelora. Nella Roma dello Stato pontificio si celebrava (e ancora si celebra oggi) questa strana purificazione di origine inconfutabilmente ebraica, dove la Madonna veniva finalmente restituita, dopo 40 giorni, alla societa' tribale degli antichi giudei e il bambinello veniva circonciso e presentato al tempio. Ma in fondo per il popolino dei fedeli del Papa re questa ricorrenza si traduceva nella possibilita' di arraffare una candela, come spiega il Belli nel finale del sonetto:
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ER DUA DE FREBBARO
Uh! cch’edè ttanta folla a la parrocchia?
Perch’entri tutta eh! nunn j’abbasta un’ora.
E in sta cchiesa piú cciuca d’una nocchia
sai cuanti n’hanno da restà de fora!
Senti, senti la porta come scrocchia!
Guarda si ccome er gommito lavora!
Ma pperché ttanta ggente s’infinocchia
drento? Ah è vvero, sí, sí, è la cannelora.
Ecco perché er facchino e ffra Mmicchele
usscirno dar drughiere co una scesta
jeri de moccoletti e dde cannele.
Tra ttanta divozzione e ttanta festa
tu a ste ggente però llevejje er mele
de la cannela, eppoi conta chi rresta.
Roma, 2 febbraio 1833
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Versione. Il due di febbraio. Uh! che cos'e' tanta folla alla parrocchia? Perche' ci entri tutta eh! non basta un'ora. E in questa chiesa piu piccola di una nocciola sai quanti ne debbono restare di fuori! Senti senti come scricchiola la porta! Guarda come lavora il gomito (per cercare di entrare)! Ma perche' tanta gente si ficca dentro? Ah e vero, si, si, e' la candelora. Ecco perche' il facchino e frate Michele uscirono dal droghiere con una cesta di moccoletti e di candele. Tra tanta devozione e tanta festa tu a questa gente pero' leva il dolce (l'utile) della candela, e poi conta chi rimane.
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*Il tempo buono. Domani, se il Signore ci da' vita, vedremo spuntare la Candelora. Signora neve, questa fregatura e' finita (personificazione dell'inverno), che ormai dell'inverno siamo fuori . . .

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IMMAGINI. La festa delle candele ("Candelora") partiva in epoca cristiana dalla consacrazione rituale dei ceri, a cui seguivano di solito processioni, danze popolari e perfino il "ballo dell'orso" (stampa di B. Pinelli, 1809).

5 gennaio 2011

Befana. Se i regali sono troppo cari, li faccio un altro giorno.

Quanta gente in giro, e tutta per i regali! Se oggi ti azzardi a seguire la folla, insomma a fare quello che fanno tutti, e fai l’errore di entrare in una bottega di giocattoli o di dolci, ci resti secco. I negozianti hanno il coltello dalla parte del manico in questo giorno, e per tutta la notte. Prendere o lasciare. Chiunque voglia comperare anche il più piccolo giocattolo deve sottostare al loro prezzo. Di Befana ce n’è una, dopotutto, e questo i bottegai lo sanno benissimo. E sanno anche che domani è troppo tardi. Ma se la merce, dopo la festa, gli resterà sugli scaffali? Per loro è un dramma, e per ridurre le perdite dovranno svendere. Allora, sai che ti dico, i regali per la Befana ai figli non glieli faccio domani, ma fra otto giorni. Così imparano quei bottegai della malora. Fra otto giorni i prezzi saranno molto più bassi: spenderò baiocchi anziché zecchini. Ma sì, solo uno scemo potrebbe cascarci.
      Questo l’originale ragionamento economico, certamente logico ma insensato, che un romano dei tempi del Belli fa nell’attualissimo e gustoso sonetto dedicato al giorno precedente l’Epifania, festa molto popolare che nella Roma d’un tempo era più sentita dello stesso Natale, anche perché i regali si usava farli il 6 gennaio, non il 25 dicembre:

LA VIGGIJJA DE PASQUA BBEFANIA
La bbefana, a li fijji, è nnescessario
de fajjela domani eh sora Tolla?
In giro oggi a ccrompa’ cc’è ttroppa folla.
A li mii je la fo nne l’ottavario.
A cchiunque m’accosto oggi me bbolla:
e ccom’a Ssant'Ustacchio è cqui ar Zudario.
Dunque pe st’otto ggiorni io me li svario;
e a la fine, se sa, cchi vvenne, ammolla.
Azzeccatesce un po’, d’un artarino,
oggi che ne chiedeveno? Otto ggnocchi;
e dd’una pupazzaccia un ber zecchino.
Mò oggnuno scerca de cacciavve l’occhi;
ma cquanno sémo ar chiude er butteghino,
la robba ve la dànno pe bbajocchi.

6 gennaio 1845

Versione. La vigilia di Pasqua Epifania. La befana (cioè i doni che si fanno per l'Epifania, Vigolo), ai figli, è necessario fargliela domani eh signora Tolla (diminutivo di Vittoria)? In giro oggi a comperare c’è troppa folla. Ai miei figli gliela faccio tra otto giorni. Qualunque bottega a cui mi avvicino oggi, mi dà una batosta: è così ovunque, a Sant’Eustachio come qui al Sudario. Dunque per questi otto giorni io li distraggo (i figli, con qualche scusa); e alla fine, si sa, chi vende deve cedere. Indovinate un po’ per un altarino oggi che cosa m’hanno chiesto? Otto scudi; e per una bambola scadente un bello zecchino. Ora ognuno cerca di cavarvi gli occhi (prendervi per il collo, scrive il Vigolo); ma quando saremo alla chiusura del botteghino, la roba ve la danno per pochi baiocchi.
Altro che re Magi. Sulla leggenda evangelica si è sovrapposta nei secoli la più antica leggenda pagana della Befana, di maggior impatto psicologico sui bambini. Ma perfino per gli adulti, l’Epifania era ancora nell’Ottocento una ricorrenza così sentita da essere preceduta addirittura dal termine di “Pasqua”, forse perché attesa da tutti.
      "Er giorno de Pasqua Bbefania, che vviè a li 6 de gennaro – scriveva il grande Giggi Zanazzo – da noi, s’aùsa a ffasse li rigali. Se li fanno l’innamorati, li spòsi, ecc. ecc. Ma ppiù dde tutti s’ausa a ffalli a li regazzini. Ortre a li ggiocarèlli, a questi, s’ausa a ffaje trovà a ppennòlòne a la cappa der cammino du carzette, una piena de pastarèlle, de fichi secchi, mosciarèlle, e un portogallo [arancia, NdR] e ‘na pigna indorati e inargentati; e un’antra carzètta piena de cennere e ccarbòne pe’ tutte le vorte che sso’ stati cattivi"
("Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma”, 1889).
      Lo spettacolo migliore avveniva dentro casa, anzi tra letto e cucina, per via della notte e della cappa del camino, essenziale per la discesa della Befana e la mostra dei regali. "La sera de la viggija de la Bbefana, a ttempo mio – dice Zanazzo – li regazzini se manneveno a ddormi’presto, e sse ffacevano magnà ppoco pe’ ffaje lascià una parte de la céna a la Bbefana".
      I bambini, nonostante molti di loro fossero terrorizzati dalle leggende e dalla messinscena (v. incisione del Pinelli in alto) erano i veri protagonisti. Nelle famiglie dei popolani il giorno dell’Epifania “si usa esporre al camino della casa i denti che cadono a’ bambini, onde la Befana vi sostituisca qualche moneta” (il Belli in nota al Sonetto “La guittaria II” del 1831).
      "Nelle vecchie famiglie – riporta un altro cronista romano – le costumanze perdurano; sicché i bambini lasciano volentieri parte della loro cena alla Befana, che dovrà scendere dalla cappa del camino coi suoi befanini, per portare dal lontano paese di Befania i dolci e i giuocattoli da tanto tempo desiderati, come premio della diligenza nello studio, dell’amore e del rispetto ai genitori. Ogni bambino ha già scritto alla Befana una letterina commoventissima, nella quale domanda quei ninnoli che vide, passeggiando colla mamma, nella tale vetrina di un chincagliere, e che più colpirono la sua fantasia. Ma la Befana è inesorabile, poiché tiene il registro di tutte le mancanze di ogni fanciullo, e, a chi non lo merita, invece di dolci e giuocattoli, lascia una calza piena di cenere e carbone. Ed allora quel fanciullo che non fu buono in famiglia e studioso in iscuola, rimpiange inutilmente la sua disubbidienza e la sua pigrizia; e si ripromette, nel venturo anno, di meritare tutti i favori della severa Befana (Francesco Sabatini, 1890).

 LA NOTTE DE PASQUA BBEFANIA 
Mamma! mamma! - Dormite. - Io nun ho ssonno.
Fate dormì cchi ll'ha, ssor demonietto.
Mamma, me vojj' arza’. - Ggiù, stamo alletto.
Nun ce posso sta’ ppiù; cqui mme sprofonno.
Io nun ve vesto. - E io mò cchiamo nonno.
Ma nun è ggiorno! - E cche mm'avevi detto
che cciamancava poco? Ebbè? vv'aspetto?
Auffa li meloni e nnu li vonno!
Mamma, guardat’ un po’ ssi cce se vede?
Ma tte dico cch’è nnotte. - Ajo! - Ch'è stato?
Oh ddio mio!, m'ha ppijjato un granchio a un piede.
Via, - 'Statte zitto, mò attizzo er lumino.
Sì, eppoi vedete un po' cche mm'ha pportato
la bbefana a la cappa der cammino.
6 gennaio 1845

Versione: La notte di Pasqua Epifania. Mamma! mamma! - Dormite. - Io non ho sonno. Fate dormire chi ce l'ha, signor demonietto. Mamma, mi voglio alzare. - Giù, stiamo a letto. Non ci posso stare più; qui mi sprofondo. Io non vi vesto. - E io ora chiamo nonno. Ma non è giorno! - E che mi avevate detto, che ci mancava poco? Ebbene? Vi aspetto? Uffa, i meloni gratis, e non li vogliono! (Gioco di parole, secondo Vigolo, tra "uffa" della madre spazientita e auffa, a ufo, cioè gratis, del verso dei venditori di meloni. Sia pure, ma mi sembra più sensato interpretare il senso generale della frase, diventata proverbio, così: Ma come - dice la madre al bambino - ti permetto di stare a letto più a lungo, cosa sempre desiderata da ogni bambino, te compreso, e tu non vuoi? ). Mamma, guardate un po’ se ci si vede (cioè se fuori c'è luce, se è già l’alba). Ma ti dico ch’è notte. - Ahi! - Ch'è stato? Oh dio mio!, m'ha preso un crampo a un piede. Via, - Sta’ zitto, ora accendo il lumino. Sì, e poi vedete un po' che cosa mi ha portato la befana a la cappa del camino.

Questo sonetto è uno dei migliori dell'ultimo periodo, sostiene il Vigolo con un'enfasi forse eccessiva. "Non più il greve vernacolo, procace, barocco, a momenti surrealista, della prima scoperta del romanesco, ma la sua stessa pronunzia familiare, addolcita e fatta più lieve. Anche la rappresentazione del bambino impaziente di vedere sorgere l'alba è una pittura delicatamente lirica, in cui non v'è più traccia di satira o di tensione irosa nell'animo, ma si scorge lo stesso sorriso paterno che è nel son. La Banna de Termini del 3 gennaio '45 ..."
      Ma torniamo alla ricorrenza della Befana, che poteva essere un incubo per i genitori più indigenti, visto che anche allora, anzi soprattutto allora, i giocattoli erano molto costosi, come abbiamo visto nel primo sonetto. Pochi sanno, perfino tra i romani, che “la bbardoria che sse fa adesso a Ppiazza Navona tempo addietro se faceva a Ssant’Ustacchio e ppe’ le strade de llì intorno”, spiega Giggi Zanazzo. “In mezzo a ppiazza de li Caprettari ce se faceva un gran casotto co’ ttutte bbottegucce uperte intorno intorno, indove ce se vennévano un sacco de ggiocarèlli, che èra una bbellezza. Certi pupazzari, metteveno fòra certe bbefane accusì vvere e bbrutte, che a mme, che ero allora regazzino, me faceveno ggelà er sangue da lo spavento!".
      Fu stranamente con l’Italia unita e Roma liberale che le bancarelle per la Befana furono trasferite nella vicina e molto più grande piazza Navona, non appena terminati nel 1872 i lavori di pavimentazione con i famosi "sampietrini", cubetti non di porfido, come comunemente si ritiene, ma di leucitite, pietra lavica laziale di color grigio scuro, così chiamati perché impiegati per la prima volta in piazza San Pietro. Arrivò anche l’illuminazione a gas. Sul bordo dell’enorme marciapiede centrale, che sostituiva l’incavo originario, furono allestiti a cura del Comune un centinaio di casotti di legno. Insomma, il nuovo Stato portava ordine e pulizia, ed ampliava anche la festa, dandole la cornice della piazza più bella.
      E, incredibile da credersi, perfino il Papa, anziché darlo, riceveva il regalo dell’Epifania. Era uso, fino al 1802, che il Pontefice la mattina della Befana ricevesse in dono cento scudi d’oro dall’antico Collegio dei “novantanove scrittori apostolici”. Nel corso di una cerimonia rituale, uno di loro, dopo aver pronunciato un’allocuzione in latino, poneva il suo tributo in una coppa d’argento, immaginiamo, con un rumore squillante, che alla fine il cardinale pro-datario consegnava al Papa. Questi, solo allora concedeva agli scrittori il bacio della pantofola.
      Dal che si possono trarre due conseguenze: che quei benedetti “scrittori apostolici” dovevano essere così tromboni e così raccomandati da dover ogni anno pagare uno scudo d’oro di tassa, pur di essere conservati nella carica onorifica che probabilmente non meritavano. Del resto, che nella Chiesa apostolica romana le cariche si vendessero è noto da sempre. In secondo luogo, i conti al cardinale pro-datario non tornano: cento dovevano essere gli scudi d’oro nella coppa d’argento, ma i sapienti erano solo 99. Solite irrazionalità astruse della Chiesa, direte voi. Ergo: a meno che non ci dovesse rimettere uno scudo di tasca sua il cardinale (con la tirchieria e l'avidità che avevano i cardinali...), uno dei cosiddetti "scrittori", il più giovane o il più sfortunato o il meno raccomandato, doveva pagare 2 scudi anziché uno. Pensate che Befana, per lui…

IMMAGINI. La Befana in casa e in piazza (due incisioni di Bartolomeo Pinelli, contemporaneo del Belli).
AGGIORNATO IL 6 GENNAIO 2019

3 gennaio 2011

Altro che il popolo. Contro la scienza è il Belli il reazionario.

Ma quale popolo, quale “monumento alla plebe romana”! Che millantatore questo Belli: quale plebe poteva satireggiare sulle prime carrozze e navi a vapore (sonetti del 1834 e del 1843), o sulla pretesa di pesare "l'antimosfera", cioè l’aria, come si legge in un altro sonetto. Dunque non più ghiotti pettegolezzi da mettere in bocca a decani (servitori anziani), barbieri o calzolai, depositari del "gossip" nella Roma del Papa Re, ma addirittura la scienza, le nuove tecnologie, le nuove frontiere della medicina, dalle teorie del britannico dottor Brown all’omeopatia, alle prime vaccinazioni contro il vaiolo ("Er l'innesto", 21 aprile 1834), all’uso del parafulmine:

Che ssò sti parafurmini der cazzo,
ste bbattecche de ferro de stivale (…)
Nun ce sò le campane bbenedette
pe llibberà le frabbiche cristiane
da lampi, toni, furmini e ssaette?

("Li parafurmini", 11 novembre 1832).

Versione: Che cosa sono questi parafulmini della malora, queste aste di ferro da stivale (doppiosenso per persona sciocca)... Non ci sono le campane benedette, per liberare le case dei cristiani da lampi, tuoni, fulmini e saette?

Che dire poi della pubblicazione di confidenze filtrate dalle sedi diplomatiche (i tanti riferimenti alle lettere dello scrittore Stendhal, allora console di Francia), che ci ricordano alla lontana Wikileaks, o addirittura le notizie di politica internazionale, come i nuovi regni di Grecia ("Er re novo", 2 febbraio 1833) e del Belgio ("L'immasciatore", 23 novembre 1932), la caduta di Carlo X in Francia ("Ar zor Carlo X", 15 agosto 1830), la guerra di successione in Portogallo e tante altre notizie che esulano certamente dagli interessi popolare dell'epoca.

Il grande poeta, trascrittore in versi del dialetto parlato dal popolo di Roma, si è lasciato trascinare dalla sua erudizione, con centinaia di sonetti che nulla o ben poco hanno a che fare con i pur numerosissimi gustosi quadretti che dipingono l' ignoranza, le usanze, la diuturna fatica di vivere del volgo di Roma. Più si legge e vieppiù traspare un Belli polimorfo con la sua curiosità illuministica verso tutte le novità scientifiche (sia pure per criticarle), con le sue letture e critiche dell'Antico e Nuovo Testamento, nei confronti dei dogmi del cattolicesimo, e tanti altri argomenti lontanissimi dalle ristrette vedute del popolo romano, sempre e quasi soltanto alle prese coi problemi di sopravvivenza.

Addio al "monumento al popolo di Roma"? Almeno in parte.
In compenso si accende un raggio di luce sul Belli erudito, curioso di tutte le notizie scientifiche, le scoperte e le invenzioni, la politica internazionale e le piu' segrete cose del papato, avido lettore di gazzette e fogli di ogni provenienza, non solo di quelli stampati dal Cracas, la stamperia romana che a partire dal 1716 pubblicava il "Diario ordinario" e "Notizie per l'anno", voce della cronaca di Roma degli ambienti ufficiali, aristocratici e mondani, fatta di scarni resoconti, notizie di nascite, matrimoni e morti di insigni personaggi, descrizioni di cerimonie e banchetti, guerre ed episodi curiosi. Ma leggeva certamente anche Bollettini e giornali di provenienza napoletana, piemontese, toscana, austro-ungarica, francese, britannica, degli stati germanici e via dicendo.

Il Belli da giovane aveva visitato molti degli Stati Italiani, Napoli, Milano, Venezia, Firenze, e intratteneva corrispondenza con amici di vari Paesi stranieri. Un Belli in parte inedito e sconosciuto. Gran parte di questi sonetti, per cosi dire atipici, rispetto al dichiarato monumento alla plebe romana, sono deboli o scritti in un "romanesco" minore e percio' meno letti e meno noti anche ai cultori del poeta.
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Dell’utilita' e dell'etica dei parafulmini, che andavano a sostituire le giaculatorie, le invocazioni e il suono delle campane, per scongiurare la caduta delle folgori, il poeta si occupa in due diversi sonetti con lo stesso titolo ("Li parafurmini", 11 novembre 1832 e 28 maggio 1834). Ma critica anche cardinali e preti che adoperano il barometro, come nel sonetto "Er Cardinale caluggnato" (10 giugno 1834), che usava indirizzare la "collecta" nella messa (la preghiera silenziosa dei fedeli) per invocare la pioggia durante le siccita', e poi ancora nel sonetto "Le fattucchierie" (15 novembre 1843).

Il Belli aveva scoperto che in Inghilterra, gia' dal 1831 un certo Mr.Gurney aveva iniziato un servizio pubblico con diligenze a vapore che viaggiavano sulle disastrate vie dell'epoca. Il servizio era poi stato sospeso per le proteste degli operatori con diligenze a cavalli, dando inizio in Inghilterra, ad una lunga diatriba sulla pericolosita' e inadeguatezza delle nuove diligenze a vapore. In effetti ci furono molti tentativi di introdurre il motore a vapore nella locomozione stradale, anche con gravi incidenti, con morti e feriti. Ma il colpo di grazia fu dato dalla insostenibile tassa introdotta per proteggere gli interessi della "lobby" delle diligenze ippotrainate: 2 sterline ogni viaggio a vapore contro 2 scellini per le diligenze tradizionali, tanto che delle diligenze senza cavalli non si parlo' piu'. Era l'inizio invece dell'era delle ferrovie a vapore:
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ER MONNO SOTTOSOPRA
Dunque, quer che ffascéveno una vorta
pe ffiume un venti e ppiú bbufole in fila,
adesso lo fa er fume d’una pila,
e ll’arte mó dder bufolaro è mmorta.
Disce anzi che la ggente oggi s’è accorta
che cquer fume, un mill’ommini e un du’ mila,
co un par de rôte a uso de trafila,
pe cche mmare se sia, lui li straporta.
Pegg’è cche mmó ppe le carrozze vonno
nun ce sii ppiú bbisoggno de cavalli,
e ’r fume le strascini in cap’ar monno.
Eppuro un tempo aveveno er custume
li nostri bboni vecchi, bbuggiaralli,
de dí cch’er ggnente s’assomijja ar fume.
14 marzo 1834
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Versione. Il mondo sottosopra. Dunque il lavoro che facevano una volta lungo il fiume venti e piu' bufale in fila [per trainare dagli argini le barche controcorrente] adesso lo fa il fumo di una pila, [la caldaia del motore a vapore] e il lavoro del bufalaro è finito. Si dice anzi che oggi la gente ha scoperto che quel fumo [il motore a vapore] puo' trasportare in qualsiasi mare mille o duemila persone con due ruote a uso di trafila. Il peggio è che oggi per le carrozze vogliono che non ci sia piu' bisogno di cavalli e che il fumo le faccia viaggiare in capo al mondo. Eppure un tempo i nostri buoni vecchi, che vadano a quel paese, erano soliti dire che il fumo somiglia al niente.
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Siamo ormai verso la fine della sua produzione in romanesco, con il testo dei sonetti che si avvicina alla lingua italiana, e si vede sempre meno il Belli portavoce della vita e delle miserie del volgo di Roma, mentre affiora sempre di piu' un Belli distaccato dalle vicende popolari, ma erudito e attento osservatore (ancorché critico) delle novita' tecnologiche.

Tornando alle "diaboliche" carrozze a vapore, questo è un argomento che stuzzica il nostro poeta a tal punto che ne parla ancora in un sonetto del 15 novembre 1843, scritto dopo un periodo di silenzio:
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LE CARROZZE A VVAPORE
Che nnaturale! naturale un cavolo.
Ma ppò èsse un affetto naturale
volà un frullone com’avesse l’ale?
Cqui cc’entra er patto tascito cor diavolo.
Dunque mó ha da fà ppiú cquarche bbucale
d’acqua che ssei cavalli, eh sor don Pavolo?
Pe mmé ccome l’intenno ve la scavolo:
st’invenzione è ttutt’opera infernale.
Da sí cche ppoco ce se crede (dímo
la santa verità) ’ggni ggiorno o ddua
ne sentimo una nova, ne sentimo.
Sí, ccosa bbona, sí: bbona la bbua.
Si ffussi bbona, er Papa saría er primo
de mette ste carrozze a ccasa sua.
15 novembre 1843
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Versione. Le carrozze a vapore. Quale naturale! Naturale per niente Ma può essere un fatto naturale che un frullone (carrozza chiusa a quattro posti, tipica del seguito dei cardinali, da furlon, prob. spagnolo, secondo il Moroni) voli correndo come se avesse le ali? Qui ci deve essere un patto col diavolo. Dunque ora sarebbe più potente qualche boccale d'acqua che sei cavalli, eh, signor don Paolo? Per me, come la comprendo cosi ve la dico: questa invenzione è un'opera infernale. In tempi in cui si crede poco (diciamo la santa verità) ogni giorno o due ne sentiamo una nuova. Sì, cosa buona, sì, buona la bua (il dolore per i bambini). Se fosse buona il Papa sarebbe il primo a mettere queste carrozze a casa sua.
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Nello stesso giorno 15 novembre l'ispirazione verso la tecnica fa comporre un secondo sonetto, sul barometro, altra diabolica invenzione, questa volta utilizzata da un prete per predire venti e piogge, che fa il paio con quello precedente che coinvolgeva un odiato Cardinale Vicario, Placido Zurla.
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LE FATTUCCHIERÍE
Quant’è vvero, Micchele, che ssò vvivo,
quer prete a mmé mme puzza de stregone:
va in certi loghi e cco ccerte perzone
ch’io nu l’arrivo a intenne, nu l’arrivo.
Tiè un cannello de vetro e argento vivo
attaccat’a un rampino in d’un cantone,
e ’ggni ggiorno sce pijja condizzione
der tempo bbono e dder tempo cattivo.
È ccapasce de divve: «Domatina
vò ttirà vvento, vò ffà ttemporale»;
e ’r pretaccio futtuto sc’indovina.
Abbasta, er zor abbate abbi ggiudizzio,
ch’io nun ce metto né ppepe né ssale
casomai d’accusallo a Ssant’ Uffizzio.
15 novembre 1843
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Versione. Per quanto è vero che sono vivo, Michele, quel prete mi puzza di stregoneria: va in certi posti e con certe persone, che non riesco a capirlo. Ha uno strumento con un tubicino di vetro e mercurio attaccato a un gancio in un angolo, e ogni giorno ne ottiene previsioni sul tempo buono e cattivo. E' capace di dirvi "domattina vuole tirare vento e fare un temporale"; e il pretaccio fottuto ci indovina. Basta, il signor abate abbia giudizio, che io non ci metto niente ad accusarlo casomai al Tribunale del Sant' Uffizio (che giudicava i reati di eresia e stregoneria).
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Non e' un caso che il Belli torni ripetutamente, anche piu' volte, su argomenti che distolgono il poeta dalla descrizione dei quadretti di vita del volgo romano, di critica feroce alle istituzioni papali e al mondo di corruzione e prevaricazione verso i piu' deboli, che ha caratterizzato la produzione degli anni '30.

Gli interessi del poeta stanno cambiando, da vecchio egli ripudiera' la sua produzione in romanesco, ma il distacco e' progessivo e quasi impercettibile, fino al trauma della rivoluzione della Repubblica Romana del 1848, quando il Belli brucio', da vero sanfedista, le copie dei sonetti in suo possesso, mentre i rivoluzionari bruciavano in piazza i confessionali della sua parrocchia. Ma questo è un capitolo della vita del grande poeta. La produzione degli ultimi sonetti del Belli romanesco finisce nel 1847, salvo uno sporadico lamento sulla sua salute, dell'inverno del 49. In questo intervallo di tempo fiorisce e muore infatti l'esperienza della Repubblica Romana di Mazzini e Garibaldi, terminata nell'estate del 1849. Forse involontariamente auspicata con le innumerevoli composizioni di chiara denuncia dell'amministrazione del Papa Re. Ma che lo vide, all'atto pratico, atterrito e silente spettatore.
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IMMAGINI. 1. Carrozza a vapore di Gurney (Inghilterra, 1828). Prestava regolare servizio (dal 1831) e toccava la velocità considerevole di 20 miglia all'ora (circa 32 km/h). 2. Parafulmini ottocenteschi su un tetto. 3. Barometro a mercurio Salmoni (1800 ca).

AGGIORNATO IL 22 MARZO 2015

18 novembre 2010

Piazza Navona e donna Olimpia, papessa e perfida “pimpaccia”.

IERI E OGGI. Oggi è bella solo quando è del tutto deserta, nelle fredde notti d’inverno battute dalla tramontana. Altrimenti ci fa un po’ vergognare, finta, turistica e volgare com’è, con la paccottiglia di plastica del cattivo gusto e i pessimi dolci sulle bancarelle di Natale, e i quadri kitsch per turisti stupidi che amano essere ingannati. Ci vorrebbe una nuova crudele Donna Olimpia per cacciare via non solo i mercanti di robaccia, ma anche i tanti turisti che la frequentano e l’insozzano, e non meritano le bellezze della piazza e del centro storico di Roma.
LA VERA PIAZZA DI ROMA. Eppure, nella città dalle cento piazze, dal Campidoglio a campo de’ Fiori, da piazza del Popolo a piazza Colonna, dalle più grandi alle più nascoste e piccole come cortili, una sola è stata la vera “piazza di Roma”, dove popolo, mercanti, preti e nobili hanno recitato ogni giorno mettendo in piazza la loro vita, la vita di Roma: piazza Navona.  Nella Roma dei papi descritta dal Belli la piazza fu sempre il luogo di giochi e divertimenti pubblici quali la cuccagna, la riffa, la tombola, e di spettacoli teatrali, giostre (storica fu una grandiosa edizione della giostra del Saracino) ed esibizioni di funamboli. Ma fu anche il luogo scelto dai nobili per esibirsi “passeggiando” in carrozza, e dal popolo minuto per incontrarsi, prendere appuntamenti, stipulare contratti o manifestare idee politiche e proteste. "Naturale" che in questo crocevia obbligato le guardie del Papa vigilassero in permanenza e ponessero un palco per le punizioni. A volte, come nel 1702, intervennero gli “sbirri” per sciogliere i capannelli di "coloro che volevano adunarsi per discorrere di novità". Sotto il Papa-re, come in tutte le dittature, le adunate non autorizzate erano vietate. Qui, ovviamente, durante i moti del Risorgimento, liberali esposero il tricolore in barba alla polizia.
INSIEME MERCATO E TEATRO. Ancora nel primo Rinascimento la piazza era un brutto e lungo campo in terra battuta (v. immagine n.5). Dal 1477 cominciò a tenervisi un affollato mercato quotidiano di frutta, verdura ed altri generi alimentari, e quello settimanale (al mercoledi) anche di utensili, cose vecchie, libri usati e lunari, questi ultimi molto di moda nell’Ottocento.
Lo spettacolo, quindi, era assicurato. Le erbe, i rigattieri e i cenciaioli ebrei col carretto, i contadini con le sporte di fichi e uva sull’asino, le ceste con le verdure e le uova, gli storpi, gli acrobati e i questuanti, le guardie civiche con gli alti chepì, il grido dell’arrotino, i cavalli, i nobili in carrozza, le balle di fieno accatastate accanto alle fontane, i preti con cappelloni e breviario, gli escrementi degli animali, il banchetto dello scrivano, il barbiere ambulante, i turisti inglesi e tedeschi col Baedeker in mano, il passeggio delle dame eleganti con l’ombrellino, i bambini a piedi nudi (ma anche i gelatai e cocomerai), il vociare delle popolane, i litigi e i tafferugli, i tavoli affollati delle trattorie, le feste, la musica all’aperto, la tombola (finiva sempre male, con feriti e arresti), le processioni, le maschere di Carnevale, le sfilate delle carrozze nell’acqua d’estate, il vedere e farsi vedere, l’incontrarsi, lo spettegolare, perfino il sadico spettacolo delle frustate in piazza (il palco del cavalletto eretto davanti a S.Agnese a perenne monito del popolo), tutto, insomma, ha dato forma alla rappresentazione realistica, colorita, insieme bonacciona e crudele, del popolo romano.
Nel 1651 papa Innocenzo X, Pamphilij, che aveva il più bel palazzo in piazza Navona, su consiglio della cognata Donna Olimpia, volle trasformare la piazza in un fondale di lusso per le passeggiate in carrozza dei nobili. Ordinò, perciò, di cambiare zona a “fruttaroli, regattieri, librai, et altri venditori di diverse robbe”, e molti ne mandò addirittura in prigione. Molte furono le proteste, represse con galera e torture. Tanto più che i costi dei dispendiosi lavori erano addossati sotto forma di pesanti tasse sul popolo. Il Belli dà un rapido bozzetto della piazza nel sonetto Piazza Navona:
PIAZZA NAVONA
Se pò ffregà Ppiazza-Navona mia
e dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna.
Cuesta nun è una piazza, è una campaggna,
un treàto, una fiera, un’allegria.
Va’ dda la Pulinara a la Corzía,
curri da la Corzía a la Cuccaggna:
pe ttutto trovi robba che sse maggna,
pe ttutto ggente che la porta via.
Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate:
cqua una gujja che ppare una sentenza:
cqua se fa er lago cuanno torna istate.
Cqua ss’arza er cavalletto che ddispenza
sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
e ccinque poi pe la bbonifiscenza.
Roma, 
1° febbraio 1833

Versione. Piazza Navona. Può ridersene, piazza Navona, di San Pietro e piazza di Spagna. Questa non è una piazza, è una campagna, un teatro, una fiera, un’allegria. Và da piazza S.Apollinare alla Corsia Agonale, corri dalla Corsia a via della Cuccagna: dappertutto troverai cose che si mangiano, dappertutto gente che le porta via. Qua ci sono tre fontane ritte come alberi: qua c’è una guglia [l’obelisco] che pare una sentenza: qua si fa il lago quando torna l’estate. Qua si alza il palco del cavalletto che dispensa a chi se l’è meritate trenta scudisciate sulle natiche, più cinque per la beneficenza.

AVEVA COMINCIATO DOMIZIANO. Se c’è stata, insomma, una piazza a Roma dove la vita si è fatta teatro quotidiano, questa è il lungo perimetro ricostruito sulle gradinate di quello che era nato proprio come un monumento allo spettacolo, sia pure sportivo, l’antico grande stadio di Domiziano. Era lungo 276 e largo 54 metri, e poteva contenere circa 30 mila spettatori, ed era dedicato all’atletica leggera e in particolare alle corse. Inaugurato nell’86 d.C. fu restaurato nel III sec. da Alessandro Severo. Con l’avvento del Cristianesimo moralista e oscurantista (non diversamente dall’islamismo di oggi), che disprezzava il corpo, il benessere fisico e l’igiene, lo stadio di Domiziano cadde in disuso, e i suoi marmi furono depredati per costruire chiese e palazzi. Già nel secolo XIII sulle sue gradinate cominciarono ad essere erette le prime abitazioni delle potenti famiglie baronali romane, che vennero a formare la “Platea (piazza) Agonale” o “in Agone”, dal greco agon (gara, lotta, competizione sportiva). Da “in agone” per deformazione del popolino, in tempi in cui non c’erano le targhe toponomastiche e i nomi venivano passati di bocca in bocca, divenne prima “nagone” e infine “Navona”. Ma le navi non c'entrano nulla. E proprio da quello Stadio, riccamente decorato con statue, viene la vicina statua cosiddetta del Pasquino, ciò che resta di un gruppo ellenistico che forse rappresentava Menelao che sorregge il corpo di Patroclo.
ERA UNA PIAZZA BRUTTA E SPORCA. Come si presentava anticamente piazza Navona? Fu mal tenuta, desolata e bruttina per secoli, come mostrano le antiche illustrazioni del Medioevo e del Rinascimento che la mostrano spoglia, ma anche qualche fotografia dell'Ottocento (v. foto in alto del 1870 ca). Era in origine un grande campo in terra battuta, concavo, senza monumenti artistici, ma due abbeveratoi per gli animali. Fu lastricata di mattoni nel 1485, selciata nel 1488, riportano alcune fonti. Soltanto dal 1870, a Italia unita, quando arrivarono i liberali piemontesi, fu coperta di sampietrini, munita di un rialzo centrale che la rese convessa (da concava che era). e di marciapiedi. Però la foto che riportiamo sotto il titolo (1870) ci mostra una piazza evidentemente sterrata e col fondo sconnesso: come si spiega? Erano forse in corso lavori per la nuova pavimentazione in sampietrini?
Nel Cinquecento vi fu trasferito il mercato delle erbe di campo de’ Fiori. E figuratevi il caos, le catapecchie e i tendoni dei mercanti (lo testimoniano varie stampe), i carri degli ambulanti, le brutture e la sporcizia. Finché non fu munita di tre semplici fontane non artistiche (papa Gregorio XIII Boncompagni), compreso un abbeveratoio per i molti animali che - non troppo diversamente dagli "animali" di oggi - la frequentavano.
Per secoli, dunque, piazza Navona è stata sporca, puzzolente, piena di rifiuti, di canestri e sporte, paglia, animali e resti di animali, degradata, con la sua prospettiva architettonica deturpata da tendoni, bancarelle e casupole. Chi la ripulì? Donna Olimpia. Per volontà della “crudele” donna Olimpia, che aveva ottenuto il palazzo Pamphilj in regalo dal cognato papa, e voleva fare della “sua” piazza il salotto della città, quasi un gioiello personale, il rumoroso e sporco mercato fu trasferito di nuovo a campo de’ Fiori. E fece bene. Capiamo la prepotente donna Olimpia che cacciò dalla piazza i mercanti, ortolani, contadini e macellai che animavano, ma insozzavano anche le belle fontane, con rifiuti e animali d’ogni sorta. Ma, come accade anche oggi, lo scontento “corporativo” di mercanti e popolo fu tale da obbligare i papi a ripristinare il mercato delle erbe, sia pure con inascoltate “severissime leggi” sull’igiene e il decoro della piazza. Fatto sta che il mercato a piazza Navona ci fu fino agli anni 60 del Novecento, quando la piazza era molto degradata, affollatissima e piena di automobili parcheggiate. Non vi si potevano ammirare né le fontane, né i palazzi. Evviva l’attuale isola pedonale!
Ai tempi del Belli era di nuovo “la piazza del mercato” più grande e rumoroso di Roma, che soprattutto al mercoledi si trasformava in una fiera caotica e multicolore dove si vendeva di tutto. Ma lo strano sonetto Er mercato de piazza Navona non parla di oggetti popolarissimi come scaldini, fusi, conocchie, scialli, berretti, seghe, martelli, casseruole e cùccume, e invece si concentra, pensate un po', sui libri, che i popolani ignoravano del tutto. Un'ennesima prova, questa volta di argomento e non di lingua, della differenza nel Belli tra "popolare" e "popolaresco", tanto da avvalorare la tesi che i sonetti non sono soltanto, come invece egli asserisce, un "ritratto della plebe", ma soprattutto l'autoritratto del Belli, erudito e piccolo-borghese, che scrive à la manière de, e si nasconde dietro il popolino romano:

ER MERCATO DE PIAZZA NAVONA
Ch’er mercoledì a mmercato, ggente mie,
sce siino ferravecchi e scatolari,
rigattieri, spazzini, bbicchierari,
stracciaroli e ttant’antre marcanzie,
nun c’è ggnente da dì. Ma ste scanzie
de libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,
che cce vienghen’ a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie?
Tu pijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppo
che ll’hai tienuto per cquarc’ora in mano,
dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.
Che ppredicava a la Missione er prete?
“Li libbri non zò rrobba da cristiano:
fijji, per ccarità, nnu li leggete”.

20 marzo 1834

Versione. Il mercato di piazza Navona. Che il mercoledi al mercato, amici miei, ci siano venditori di ferri vecchi e di scatole, rigattieri, spazzini, bicchierai, stracciaroli e tante altre mercanzie, non c’è niente da dire. Ma queste scansie di libri, e questi libracci e questi librai, che cosa vengono a fare? Cosa impari da tanti libri e tante librerie? Prendi un libro a pancia vuota, e dopo che l’hai tenuto qualche ora in mano, dimmi se hai fame o se hai mangiato troppo. Che predicava il prete al Catechismo? “I libri non sono cosa da cristiano: figli, per carità, non leggeteli!”.
IL MERCATINO DEI LIBRI E LA CULTURA SECONDO SANTA MADRE CHIESA. Sui libri il reazionario clero cattolico apostolico romano aveva molto da ridire, e metteva in guardia i giovani del catechismo dal leggere la carta stampata. Perché, si sa, la stampa insinua dubbi, fa pensare con la propria testa, smitizza i miti, scopre le bugie, diffonde nuove idee, giuste o sbagliate che siano. Insomma. è come il Diavolo: “Figli, non leggete i libri!” Sembra di ascoltare un politico di oggi messo alla berlina dalla stampa per qualche sua magagna: “Non leggete i giornali!”. Sono faziosi e intrisi d’odio”. Così era ed è per la Chiesa.
Balza sùbito agli occhi che l’atteggiamento culturale della Chiesa cattolica è diametralmente opposto a quello di protestanti ed ebrei, che della lettura personale, dell’abitudine all’interpretazione diretta dei Testi sacri, non mediata obbligatoriamente dalla casta dei sacerdoti, e quindi della cultura in genere, hanno sempre fatto una pratica quotidiana. Anzi, gli storici delle idee attribuiscono proprio a questa capacità di leggere e commentare per conto proprio, insomma a questa rivoluzione culturale individualista, non solo l’origine della Riforma protestante ma anche dello stesso Liberalismo. Ecco perché un popolano cattolico nella Roma dell’800 non sapeva né leggere né scrivere, anzi era tenuto dalla Chiesa - specialmente le donne -nella più vergognosa ignoranza, mentre protestanti ed ebrei sapevano leggere ed erano mediamente molto più colti. Una differenza che spiega tutto dell’arretratezza italiana per colpa della Chiesa.
MA IL BELLI DA CHE PARTE STA? Fatto sta che in questo sonetto, in cui piazza Navona è solo un fondale, un pretesto, Belli descrive efficacemente un carattere tipicamente romano, che tocca tutti, popolo e nobiltà nera. E nella sua ben nota ambiguità, come spesso accade nei Sonetti, non si capisce bene “da che parte sta”. Sembra, è vero, in superficie, fare della satira, o meglio dell’ironia anti-Chiesa, ma il Belli è pur sempre l’uomo che sarà capo della Censura vaticana, severissimo e implacabile cancellatore di drammi, romanzi ed opere teatrali (anche Shakespeare e Verdi), per di più caduto in un astioso, cupo, patologico pessimismo senza speranza. Dunque il sospetto che in questo “no ai libri” e alla libertà della cultura vi sia già nel Belli una sorta di compiacimento sadico tra le righe, anzi, un’ombra di immedesimazione, potrebbe essere fondato.
LA PIAZZA, CAPOLAVORO DEL BAROCCO. Ma torniamo a piazza Navona. Un capolavoro di ambiente urbano barocco la piazza divenne solo con papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphilj), che negli undici anni di papato (1644-55) ne fece insieme il simbolo della grandezza della casata e il salotto della città, il centro della vita romana, partendo dalla residenza di famiglia, il grande palazzo Doria Pamphilj, davanti alla fontana del Moro e accanto alla chiesa di S.Agnese. I Rainaldi e il Borromini ingrandirono, restaurarono e abbellirono il palazzo, la chiesa e le costruzioni attigue, mentre il Bernini realizzò la decorazione di due delle tre fontane del 500, per renderle artistiche e imponenti. Ma solo nell’Ottocento, col completamento da parte di artisti minori della fontana a nord, quella “dei delfini”, il magnifico colpo d’occhio barocco della piazza, con le sue guglie e le sue imprevedibili linee curve, poteva dirsi perfetto. un continuum architettonico irripetibile, ben superiore alla somma dei singoli monumenti.

LA FONTANA DEI QUATTRO FIUMI. La fontana dei Quattro Fiumi al centro della piazza ha quattro statue (il Danubio, il Gange, il Nilo e il Rio della Plata) che rappresentano i quattro fiumi più lunghi e i quattro angoli della Terra. L’obelisco, ritrovato nel Circo di Massenzio sulla via Appia, allungato con un basamento svetta da una roccia di travertino su statue e leoni. L’architetto Bernini se l’aggiudicò, al posto del Borromini a cui era stata affidata in un primo momento, con lo stratagemma del regalino alla potentissima donna Olimpia, cognata e ascoltata consigliera di papa Innocenzo X. Le regalò un modellino-bozzetto in argento. Il papa lo poté ammirare, si disse, negli appartamenti di Olimpia e decise con lei di affidare la commessa al Bernini. Del resto era stata la stessa Donna Olimpia a proporre il Rainaldi per il rifacimento del palazzo. La Fontana fu inaugurata nel 1651, ma fu finanziata con nuove imposte sui proprietari di case e impopolarissime tasse su pane, vino e altri generi alimentari, che colpirono la povera gente.
UN ARCHITETTO CONTRO L'ALTRO. E lo scontro Bernini-Borromini? In parte è leggenda. Certo, tra i grandi architetti Bernini e Borromini c’era sicuramente concorrenza professionale, com’è naturale, e contrapposizione stilistica, tanto magniloquente, rotondo e grandioso è lo stile del primo (romano di origine napoletana), quanto introverso, eccentrico, nordico e amante delle guglie e delle facciate concave è il secondo (milanese originario di Lugano, Svizzera italiana). Ma la storiella raccontata da tutte le guide turistiche, secondo cui nella fontana del Bernini la mano alzata della statua del Nilo vorrebbe significare il timore che la prospiciente chiesa di S. Agnese, del Borromini possa cadere da un momento all’altro, è pura invenzione. La chiesa fu ricostruita dal Borromini intorno al 1653 e poi completata dal figlio del Rainaldi nel 1672, mentre la fontana del Bernini era già in costruzione dal 1648 al 1651.
BELLI: PIU’ DEL MONUMENTO, GLI INTERESSA FARE IRONIA SUL POPOLINO. Il Belli nel sonetto Er funtanone de piazza Navona è attratto, come al solito, più dalla plebe attorno che dal monumento in sé. Parla di un fatto di cronaca insignificante, non si sa se vero o inventato: un tumulto popolare per l’aumento dei prezzi alimentari, e una sassata che avrebbe troncato di netto il pollice d’una statua della fontana dei Quattro Fiumi del Bernini, lasciando la mano con quattro dita. Ammesso e non concesso che ciò sia accaduto, oggi il danno non è più visibile. Resta il sospetto dell'ironia sul popolino e il suo scontento. La solita riduzione delle grandi cose a cose minute. La conclusione è irriverente: le quattro dita (anzi, il numero 4) significano secondo la cabala e le superstizioni del popolino romano, nientemeno che il membro virile. Per cui l’epiteto “faccia de quattro”, usato in un altro sonetto belliano, sarebbe un’insultante “faccia di cazzo” (F. Ravaro, Dizionario romanesco, Newton Compton 2005, p. 511). A questo punto, la sibillina espressione con cui si conclude il sonetto, 
“quattro der cazzo”, andrebbe letta come un rafforzativo dell’ingiurioso epiteto romanesco:

…ccor una serciata a cquer pupazzo
je fesceno sartà nnetto er detone.
Chi ddà la corpa a un boccio, chi a un regazzo:
ma er fatt’è cche cquell’omo ar funtanone
pare che ddichi: A vvoi; quattro der cazzo!
10 settembre 1830

Versione. Con una sassata a quella statua gli fecero saltare il pollice. Chi dà la colpa ad un vecchio, chi a un bambino: ma il fatto è che quell’uomo del fontanone sembra che dica: A voi, quattro del cazzo (teste di cazzo)!

LE DUE FONTANE MINORI. Nel 1653 il Bernini modificò la fontana a sud disegnata dal Della Porta nel 1575, aggiungendo un delfino che reggeva una lumaca sulla coda alzata. La composizione non piacque e la gente protestò: il Bernini vi montò allora il busto di un moro che accarezza un delfino. Fu soprannominata la fontana del Moro. Le sculture della fontana a nord, quella del Nettuno (in precedenza “dei calderari”, perché questi artigiani vi si radunavano attorno), è invece opera molto tarda, del 1873, fatta dopo regolare concorso dall'amministrazione di Roma “piemontesizzata” e liberale. E va detto che il buongusto dei misconosciuti scultori Zappalà (Nereidi, putti e cavalli marini) e Della Bitta (Nettuno che lotta con una piovra), che si sono così bene immedesimati nell’ambiente barocco, ha poco o nulla da invidiare all’autore della fontana gemella, il grande Bernini.

IL LAGO DI PIAZZA NAVONA. Prima che fosse costruito il marciapiedi e alzato il livello centrale (fine 800), la piazza era concava e si prestava ad essere allagata per dare frescura nei giorni d’estate. "S'atturava la chiavica della funtana de mezzo - ricorda Zanazzo - e la piazza ch'era fatta a scesa, s'allagava tutta". Per circa due secoli, a partire dal 1652, nei sabati e domeniche di agosto piazza Navona si trasformò in un lago. L’evento coinvolgeva tutti, dai nobili che vi accorrevano in carrozza ai popolani, ed era poi ingrandito nella memoria popolare e tramandato di cronista in cronista fino a tramutarsi quasi in leggenda. Certo, era anche teatro, secondo il gusto eccessivo del Barocco.
Vere e proprie gare di invenzioni e sfarzo coinvolgevano le famiglie aristocratiche, che talvolta facevano teatralmente “solcare le acque” da calessi a forma di gondole o navi di legno e cartapesta, alcune con vele e rematori, musici e sirene. Bambini e perfino adulti del popolo vi si immergevano per fare il bagno, giocare e fare scherzi, dopo essersi spogliati, tanto che un editto proibì di denudarsi per entrare in acqua. Con i soliti metodi spicci e disumani, la giustizia dei preti comminava ai bambini frustate, ma per un adulto che si "metteva nudo o con le mutande per bagnarsi e notare", c’era la tortura in pubblico sul “cavalletto” nella stessa piazza o al Corso. Con le stesse pene erano colpiti i frequenti scherzi dei giovinastri ai danni dei nobili che prendevano il fresco. Col gusto sadico del marchese del Grillo, si narra che nel 1730 il figlio del re d'Inghilterra si divertisse a gettare monete nell'acqua per vedere i ragazzini buttarsi in acqua vestiti facendo a gara per ripescarle. Un po’ come più tardi sarebbe accaduto nella Fontana di Trevi.
Nel 1717 alcune dame "forse scaldate dal vino, spogliatisi si tuffarono (!) in quelle acque". Una fu colta da malore e caduta in acqua fu salvata da alcune persone gettatesi in acqua vestite. E un cavallo del marchese Corbelli vi affogò, perché incastrò una zampa in una buca e cadde in acqua. Questi particolari descritti con parole esagerate e riportati in modo acritico dai soliti cronisti hanno alimentato la leggenda, assurda perché contrasta con tutte le stampe dell’epoca, che l’acqua potesse raggiungere in almeno un punto quasi l’altezza di un uomo, un metro e oltre. E’ nostra convinzione, invece, data la struttura della piazza e i livelli del basamento delle fontane e dei palazzi, che non potesse superare i 50 cm.
E le battaglie navali (naumachie) di cui pure parlano guide e siti web? Non c’entrano nulla: la memoria popolare mette tutto in un calderone: il nome "Navona" (che, come si è detto, non deriva da "nave", ma da "in Agone"), lo stadio di Domiziano (che ospitava solo atletica), il ben più profondo circo Colosseo, dove invece le vere naumachie erano possibili, e le allegorie con finte regate e "battaglie" di barche dei nobili sulla piazza Navona allagata in epoca papale dal 1600 in poi. Nella piazza, tra il 1810 ed il 1839, si tennero corse di cavalli con fantino, come nel Palio di Siena.

LA “PIMPACCIA DI PIAZZA NAVONA”. Ma chi era donna Olimpia, perché era così potente, e come mai si parla così tanto di lei a proposito di piazza Navona e di Roma? Per cominciare, abitava nel palazzo più bello della piazza, nel grandioso e sfarzoso palazzo Doria Pamphilj, che aveva suggerito di costruire e poi ingrandire (Rainaldi, Borromini) e abbellire di opere d’arte (affreschi di Pietro da Cortona), e che poi si era fatto regalare dal cognato papa. La viterbese di origine umbra Olimpia Maidalchini, donna di grande carattere e personalità, era molto più di una cinica e spregiudicata arrivista sociale: era sì una donna anticonformista, spietata e furba, ma anche molto intelligente, tanto da consigliare uno dei più intelligenti papi della storia.
Passò di tetto in tetto, di letto in letto, di trono in trono, pur di avere denaro, lusso, status e soprattutto potere. Non bellissima, ma affascinante e forse dotata di segrete attrattive sessuali, dai e ridai, dopo aver vagliato tanti aristocratici di potere e denaro, finalmente riuscì a sposare quello che le doveva apparire il partito giusto: il nobile Pamphilio della potente famiglia Pamphilj, più vecchio di lei di trent’anni, che ebbe il buon gusto di morire pochi anni dopo lasciandola ricca vedova.
Da qui cominciò la sua scalata. In pochi anni divenne non solo la donna, ma addirittura la personalità più potente e temuta a Roma, una vera e propria terribile “papessa”, capace di fare e disfare cardinali e papi, di far nominare vescovo il padre e cardinale il figlio, di dirigere la Chiesa e lo Stato del Papa attraverso il fratello del defunto marito, Giovanni Battista Pamphilj (papa Innocenzo X), un grande pontefice che pendeva dalle sue labbra e l’aveva come consigliera, e in gioventù, pare, anche come amante. Anzi, sembra che la lungimirante e decisionista Olimpia, l’unica a “portare i pantaloni” nella molle Curia romana, avesse perfino aiutato il cognato nella carriera ecclesiastica. Donna sicuramente di genio, sia pure con risvolti malefici, Olimpia fu abile non solo nell’usare uomini e donne come pedine di un suo gioco diabolico, ma anche nell’arricchirsi con le eredità, manipolando volontà, depredando tesori, e ricorrendo regolarmente anche alla vendita di raccomandazioni e benefici ecclesiastici (questi ultimi calcolati in 500.000 scudi d’oro). Insomma, un’anticipatrice, per conto proprio, dell’attuale tendenza economica dei Governi al più cinico “fare cassa”, svendendo un po’ di tutto. Morto il papa, però, e una volta svelati i suoi intrighi, il successore di Innocenzo X la esiliò. Ma alla morte di Olimpia, nel 1657, il notaio rese noto che aveva lasciato in eredità ben 2 milioni di scudi d’oro.

LA SATIRA POPOLARE CONTRO LA DONNACCIA. Il popolo le aveva attribuito già in vita ogni nefandezza, trasformandola da defunta in un fantasma, l’unico fantasma di Roma, come ha scritto Adele Cambria. E in effetti Donna Olimpia che fugge di notte in una nera carrozza in fiamme portando con sé tutto l’oro accumulato, finché i cavalli indiavolati vanno a gettarsi con lei e le sue ricchezze nel Tevere, è una drammatica raffigurazione romantica della Nèmesi storica, così come la poteva vedere il popolino romano.
La sua avidità, ingratitudine e crudeltà arrivarono al punto da spingerla ad impossessarsi perfino degli averi del papa appena deceduto, proprio il papa che si era fidato solo di lei, l'aveva protetta e resa tanto potente. Ora che non poteva essergli più utile abbandonò il suo cadavere. Per i funerali dovettero tassarsi di tasca propria alcuni monsignori di Curia.
La satira, naturalmente, si scatenò, e nessuna donna, anzi nessun personaggio romano, fu mai bersaglio di critiche e irrisioni più crude. A leggere i biglietti sulla statua del Pasquino, era la famigerata “Pimpaccia di piazza Navona”. E il nomignolo restò, fino a diventare proverbiale. Il suo nome, Olimpia (“Pimpa” in diminutivo romanesco), divenne pretesto per un efficace anagramma di qualche chierico latinista: “olim pia, nunc impia”, cioè un tempo pia, ora empia. Fu “un maschio vestito da donna” per la città di Roma, ma per la Chiesa “una donna vestita da maschio”, si leggeva negli epigrammi. Veniva presa a pretesto anche la sua sessualità senza scrupoli, di volta in volta per arrivare al potere, per ereditare o per il puro piacere. Imitando le targhe che a Roma ricordano nel Centro storico le piene del Tevere, qualcuno la raffigurò nuda, una mano con l’indice puntato sul basso ventre, e la scritta uguale a quella delle inondazioni: “Fin qui arrivò Fiume”. Ma non era il Tevere, era il suo maestro di camera, un certo cavalier Fiume, con il quale se la intendeva.
MACCHE’, LA PAPESSA VA RIVALUTATA. Ma una figura così carismatica come quella della diabolica Donna Olimpia non può essere solo negativa. Ci devono per forza essere lati positivi. Sarà stata autoritaria, avida, crudele e bizzosa quanto si vuole, però è stata sicuramente una donna intelligentissima e versatile. Capace non solo di comandare agli uomini, e agli uomini potenti, ma anche di dirigere e consigliare in tutto uno dei papi più illuminati e attivi della storia della Chiesa. Altro che l'effimera o storicamente incerta papessa Giovanna. La "papessa" vera fu Olimpia Pamphilj, che dopo secoli di ingiurie conosce ora una seconda vita piena di riconoscimenti, se non di elogi.
C’è chi, per dirne una, ne fa una sorta di eroina femminista ante litteram. Di sicuro, ebbe il merito di immettere vitalità e intelligenza nell’addormentata Curia romana, come adombrava la satira del “maschio vestito da donna” in Curia. La citata Cambria, scrittrice femminista, sembra prendere donna Olimpia in simpatia attribuendole le virtù carismatiche della "donna di potere", cioè capace di imporsi sui maschi, e della donna che sfida le convenzioni col suo atteggiamento anticonformista. Tanto da sottolineare positivamente perfino un settore particolare del suo smodato senso degli affari molto criticato ai suoi tempi. Ripercorrendo le orme dell’imperatore e affarista Vespasiano (“pecunia non olet”, il denaro non ha odore, avrebbe risposto a chi lo rimproverava di far soldi con le latrine), la “Pimpaccia” sembra che riscuotesse personalmente le tasse dei bordelli. Tanto, si sa, “tra puttana e puttana” si intendono, avrebbe potuto commentare qualcuno del popolo. Ma almeno, “senza ostentare false pruderie da signora virtuosa”, aggiunge la Cambria. Infatti, aggiunge, “Donna Olimpia dava protezione alle prostitute, portandosele dietro in carrozza nei cortei solenni”. Come fare più contenta una femminista storica?
BRUTTURE DI IERI O DI OGGI? MEGLIO LE PRIME. Ecco la storia colorita a forti tinte di piazza Navona. E viste le sue vergogne moderne, “inutili” a differenza di quelle antiche, e dunque ingiustificabili e in contrasto vergognoso con la bellezza della piazza e di Roma, dal mercatino natalizio di plastica ai pittori di croste di cattivo gusto per turisti di bocca buona, agli invadenti tavoli di bar e ristoranti dove si mangia male e a caro prezzo, fino agli assordanti comizi politici e concerti di musica pop, tutti sconci che neanche il sindaco Argan, che era un critico d’arte, riuscì a vietare, nonostante i propositi (e noi della Lega Naturista gli avevamo inviato una lettera-denuncia), ecco che le “necessarie” vergogne antiche della piazza, come la sporcizia del mercato, la spocchia dei nobili, il palco della tortura, gli intrighi tra potenti, le invidie tra architetti, le inzaccherature e gli scherzi acquatici dei bulli, e le crudeli ambizioni della Pimpaccia, ci sembrano oggi poca cosa, e al posto del cattivo gusto moderno, anzi, danno gusto, fanno da piccante pepe culturale alla Storia di Roma.
Di papa Innocenzo X si parla anche nell'articolo dedicato a un’altra "papessa", la papessa Giovanna, a proposito dell'increscioso "esame" manuale della sedia forata (escretoria) effettuato, secondo un testimone dell'epoca, alla sua incoronazione.
IMMAGINI. 1. Piazza Navona com'è stata realmente per secoli: non lastricata, con cumuli di terra o fango, sporca, e deturpata da carri, bestiame e resti del mercato (1870). 2. Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, detta dal Pasquino la "Pimpaccia" di piazza Navona (ritratto dell'Algardi, part.). 3. Il mercato settimanale di Piazza Navona in una foto all’albumina (circa 1860). In primo piano il posto dei calderai (artigiani di pentole in rame, zingari) che quasi nascondono la fontana che da loro prendeva nome, ancora senza sculture. 4 Lo Stadio di Domiziano (ricostruzione), sul cui perimetro fu costruita la piazza “in Agone”, poi Navona. 5. La piazza nel primo Rinascimento: solo un lungo e brutto campo sterrato, con abbeveratoi, animali e tende. 6. La pena-tortura delle frustate ad una donna, forse prostituta. Nella piazza era eretto in permanenza un palco, come monito per i passanti. 7. La fontana dei Quattro Fiumi del Bernini in un’antica stampa. 8. L’ultima volta che la piazza fu allagata, sia pure parzialmente (1870). 9. Papa Innocenzo X, Pamphilj, cognato, protettore, estimatore e amante di donna Olimpia, in un dipinto del Velasquez.
AGGIORNATO IL 1 OTTOBRE 2015

28 ottobre 2010

Un quartiere delle luci rosse a piazza di Spagna, anzi di Francia

Trinità dei Monti prima della scalinata (picc.verde G.Maggi 1600 ca)

“Come! Ner cor de Roma cuel’ inferno
de le puttane de piazza de Spagna?”
G.G. Belli

Nel 1832 il Belli scriveva un sonetto sul problema del meretricio, attivissimo a piazza di Spagna e dintorni. In chiave moralistica e puritana, ma anche satirica, come si legge nell’ultima strofa (v. in basso). Ma perché proprio in quella piazza, che doveva poi diventare un’icona nota in tutto il mondo?

Dopo il sacco di Roma del 1527 la città si era lentamente ripresa con la ricostruzione prima e la costruzione ex novo poi di edifici pubblici, soprattutto chiese, conventi, ospizi, anche con il contributo dei grandi paesi cattolici, soprattutto Francia e Spagna, che gareggiavano nell'affermare la loro presenza nella Città Eterna.
Goethe, Mozart, Stendhal, Montaigne, Montesquieu, Shelley, Keats, lord Byron, insieme a migliaia di meno famosi pellegrini del "viaggio in Italia", tanto in voga nei secoli dell'illuminismo e del romanticismo, venivano a visitare Roma, Caput Mundi per tanti secoli e presidio del cristianesimo per altrettanti. Il punto di arrivo era, attraverso la via Cassia, la Flaminia e la Porta del Popolo, proprio piazza di Spagna.
Gli alberghi, le locande, le osterie, le stalle per i cavalli, i parcheggi per le diligenze e le carrozze padronali (dice niente il toponimo “via delle Carrozze”?), le botteghe del caffè, e poi barbieri, farmacisti, calzolai, guide turistiche, “ciceroni”, scrivani, ciarlatani e botteghe di ogni genere, si insediarono rapidamente nella zona di piazza di Spagna. I ricchi viaggiatori dell’epoca erano una manna per tante nuove iniziative artigianali e imprenditoriali.

Le prostitute furono fra le prime ad operare in zona, attirate da due elementari considerazioni. I viaggiatori erano quasi tutti maschi e spesso soggiornavano a lungo. Inoltre, e soprattutto dalla fine del ‘600, la zona godeva della giurisdizione di extraterritorialità a favore della corona spagnola.

L’intero quartiere era sotto la giurisdizione e la protezione della Spagna, che aveva facoltà di escludere ogni ingerenza amministrativa e di polizia dello Stato della Chiesa. In pratica era una zona franca per ogni attività economica, compreso l’esercizio della prostituzione. La Spagna, pur potendo disporre di sue soldatesche con funzioni di polizia, si limitava al controllo della propria legazione e del grande complesso (chiesa e ospizio) dei Trinitari Scalzi, anch'esso di sua proprietà.

Ma il "quartiere spagnolo” si estendeva in un ampio circondario che alla metà del ‘700 comprendeva piazza di Spagna, l'attuale attigua piazza Mignanelli, via Condotti, via della Mercede, via Mario de' Fiori, via Capo le Case, via Gregoriana, l'ultimo tratto di via Felice (ora Sistina), piazza Trinità dei Monti, via Vittoria, via della Croce, via Bocca di Leone, via Frattina. L'area contava alcune migliaia di abitanti. I confini furono codificati, come rivela uno studio di Alessandra Anselmi, in una mappa disegnata dall’architetto Antonio Canevari nel 1725 (v. in basso). Gli accordi raggiunti tra Spagna e Papato furono faticosi e contrastati, per la concorrenza della Francia che accampava analoghi diritti.

Ovviamente i vari Papi mai giunsero ad un protocollo ufficiale, che avrebbe comportato nientemeno che la cessione a una potenza straniera di una parte della città. Tutto era stabilito alla stregua di un gentleman agreement. Ma tant’è, la Spagna di fatto esercitava il potere sulla sua giurisdizione, seppure con molta tolleranza verso tutte quelle attività che rendevano il “suo” quartiere il più cosmopolita e accogliente di Roma.

barcaccia piazza di Spagna e Trinità dei Monti senza scalinata (GB Falda modif. blu)

Un passo addietro, come direbbe il Belli. La società misogina e maschilista nella Roma del Papa Re, relegava il ruolo della donna a moglie e madre, monaca o puttana. Rarissime erano le professioni in cui una donna poteva cimentarsi: in pratica la sarta, la "scuffiara" (artigiana di cuffie e cappelli femminili) e le poche serve che accudivano le mogli dei signori. Dimenticavamo le perpetue di preti e parroci, ma molte di esse avevano un doppio, equivoco, ruolo di donna “tutto fare”. La totalità delle altre professioni era riservata ai maschi, perfino il ruolo femminile nelle rappresentazioni teatrali e di musica (be’, proprio maschi no: era l’epoca dei castrati, che cantavano e figuravano come donne a teatro e nella cappella Sistina). Le donne ribelli che non volevano sottostare al maschilismo imperante non avevano molte chances: o puttane o streghe-fattucchiere. Ma quest'ultima professione era molto pericolosa: c’era il rogo, dopo un bel processo della Santa Inquisizione.

La prostituzione, invece, non portava al rogo, e rendeva (e rende) bene. Era l’unica alternativa, sempre illegale ma spesso tollerata, per le donne che non riuscivano o non volevano trovare un marito-padrone. E’ vero che il Cardinale Vicario vigilava sui costumi, “rivedeva il pelo alle puttane”, come diceva il Belli, ma nulla poteva nel quartiere spagnolo.

La prostituzione a Roma era una realtà talmente consolidata che esisteva un ospedale, il San Rocco, per le partorienti al di fuori del matrimonio, e un altro, il San Gallicano, per la cura delle diffusissime malattie veneree. Il “mal francese” o sifilide, era il più diffuso e pericoloso. Per non parlare dell’ospizio per il recupero delle “donne perdute” alle Scalette, in via della Lungara [non sarà, per caso, l’attuale Casa della Donna, sede delle femministe, a cui si accede da una vistosa doppia scalinata? Sarebbe una bella Nèmesi... NdR] e del Cardinal Vicario che vigilava al di sopra di tutto.
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La scalinata di Trinità dei Monti fu costruita su progetto di Francesco De Sanctis con un lascito di 20.000 scudi fatto nel 1655 ai frati Minimi di San Francesco da Paola da parte di un nobile francese, Etienne Gueffier, che aveva ricoperto incarichi all'ambasciata di Francia a Roma. E' interessante notare come i suddetti frati si fossero tenuti in cassa i denari per quasi tre quarti di secolo prima di rilasciarli per la costruzione della scalinata, in seguito alle insistenze del Papa Clemente XI.

La piazza fu terreno di battaglia diplomatica fra Spagna e Francia. In effetti nel '600 la parte nord, verso porta Flaminia, era "piazza di Francia", e quella su cui si affacciava la legazione spagnola, oggi piazza Mignanelli, era piazza di Spagna. Fu l'influenza di Isabella Farnese, moglie del re Filippo V di Spagna, insieme al potente ambasciatore cardinale Trojano Acquaviva d'Aragona, il cui segretario Giacomo Casanova amava definire "uomo che a Roma vale più del Papa", a far pendere la bilancia a favore della giurisdizione spagnola, relegando la zona francese in cima alla famosa scalinata. Nel corso di queste schermaglie della diplomazia, la Spagna vagliò addirittura l'ipotesi di chiudere la scalea con un colpo di mano a base di catene e lucchetti.

Anche prima della costruzione della scalinata di Trinità dei Monti, inaugurata dal Papa nel 1725, lungo il precario pendio alberato (v. immagine, sopra) che collegava la chiesa francese dei Padri minimi di San Francesco da Paola con la piazza della berniniana Barcaccia [a Pietro Bernini, però, fu commissionata l’opera, non al figlio Gian Lorenzo, che comunque collaborò col padre. Del resto, Pietro morì nel 1629, proprio l’anno in cui la fontana fu inaugurata, NdR] e col quartiere spagnolo (in basso), esistevano alcune casupole abitate da donne che praticavano la prostituzione, come documentano le proteste dei preti francesi agli inizi del ‘700, e come risulta da una stampa dell’epoca.

Ed ecco il sonetto del Belli, celebrativo dell’editto che vietava alle prostitute di adescare i clienti stando affacciate alla finestra appoggiate ad un esplicito cuscino, sovente decorato di merletti in modo vistoso, come avveniva senza ritegno nel quartiere di Piazza di Spagna. Strano, però, quello che non si può fare con le prostitute si può fare impunemente con la moglie, nota sarcasticamente il Belli:
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LA GIURISDIZZIONE
È un gran birbo futtuto chi sse lagna
de le cose ppiú mmejjo der Governo.
Come! ner cor de Roma cuel’inferno
de le puttane de Piazza de Spagna?!
S’aveva da vedé ’na scrofa cagna
d’istat’e utunno e pprimaver’e inverno,
su cquer zanto cuscino, in zempiterno
a cchiamà li cojjoni a la cuccagna?
Hanno fatto bbenone: armanco adesso
se fotte pe le case a la sordina,
e ccor prossimo tuo come te stesso.
Mo ttutto se pò ffà ccor zu’ riguardo
co cquella ch’er Zignore te distina;
e ar piuppiú cce pò uscí cquarche bbastardo.
Roma, 5 dicembre 1832
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Versione. E' un gran birbante fottuto chi si lamenta dei migliori provvedimenti del governo. Ma come, nel cuore di Roma quell'inferno delle puttane di piazza di Spagna? Si doveva vedere una scrofa sordida d'estate, autunno, primavera e inverno, su quel santo cuscino tutto il tempo, a chiamare i clienti alla cuccagna? Il governo ha fatto benone: almeno adesso si fa sesso per le case silenziosamente, con il prossimo tuo come con te stesso. Ora si può fare tutto col dovuto riguardo con tua moglie, e al massimo potrà venire fuori qualche bastardo.

Ma le puttane, nonostante editti e proclami, sono tranquillamente restate nella ex "zona spagnola" fino a tempi recenti. Anzi, vi misero casa. Chi non ricorda, fra i vecchi romani, le “case chiuse”, ipocritamente chiamate anche "di tolleranza", di via della Vite, via Belsiana, via Capo le Case, via Mario de' Fiori, via Borgognona (dov'era la "Giorgina", noto ritrovo di gerarchi fascisti) e di tutte le vie all'intorno? La legge Merlin che chiuse i "casini" è del 1958.

IMMAGINI. 1. La boscosa salita di Trinità dei Monti prima della costruzione della scalinata, con tanto di casette delle prostitute (dis. prob. di G.Maggi, 1600 ca.). 2. Le prostitute erano spesso alla finestra. Doppiamente obbligato, perciò, il riferimento al dipinto "Donne alla finestra" dello spagnolo Murillo. 3. In primo piano la fontana della Barcaccia di Pietro Bernini, padre di Gianlorenzo, finita nel 1629, proprio l’anno della morte di Bernini senior. Perciò, Bernini junior può al massimo aver dato le ultime rifiniture, ma non può essere considerato l’autore. Dalla stampa si vede che la fontana offriva molti più getti d’acqua, e più potenti. La piazza era tutta in terra battuta. Sullo sfondo la selvaggia salita di Trinità dei Monti (dis. prob. di G.B. Falda, dopo il 1691). 4. La mappa del "quartiere spagnolo" (Canevari 1725), secondo lo studio di A.Anselmi (Il quartiere dell’Ambasciata di Spagna a Roma, in "La città italiana e i luoghi degli stranieri. XIV-XVIII secolo", a cura di D. Calabi e P. Lanaro, Laterza 1998, pp.206-221). In seguito l'area fu ingrandita fino ad arrivare al Corso, proprio per la costruzione del complesso extraterritoriale spagnolo dei Trinitari Scalzi (iniziata nel 1731-32), con l'approvazione del competente "maestro delle strade" arch. Cipriani.

AGGIORNATO IL 23 FEBBRAIO 2015

 
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