27 agosto 2011

Tasse, Governo ladro! I tempi in cui ti frugavano sotto i vestiti

Bando gabella di un quattrino per foglietta di vino Stato Pontificio A chi si lamenta delle tasse e della crisi finanziaria, e s’illude che sia esistita una qualche felice “età dell’oro” senza tasse, con Governi ricchi, onesti e illuminati, e dai bilanci in pareggio, bisogna proprio far leggere i sonetti del Belli sulle “gabelle” (tasse sui consumi di merci e scambi) e sulle finanze dissestate dello Stato Pontificio. Ma anche qualche saggio di storici dell’economia sembra voler dire agli scontenti di oggi, fatti i debiti confronti: “Macché, piuttosto ringraziate Iddio!”

A proposito, non c’era cosa più odiosa, dice il Belli, che vedersi rubare i soldi in nome di Dio, come facevano alcuni preti intraprendenti (La penale, 1832):

Li preti, ggià sse sa, ffanno la caccia
a ’ggni sorte de spesce de cuadrini.
Mo er mi’ curato ha mmesso du’ carlini
de murta a cchi vvò ddí ’na parolaccia.

[I preti, si sa, vanno a caccia di quattrini con ogni pretesto. Ora il mio parroco si è inventata una multa di due carlini a chi dice una parolaccia.]

Ma le finanze del Governo Pontificio versavano in una situazione ben peggiore di quella degli altri Stati. Le cause sono note: le ruberie di funzionari, monsignori, cardinali e degli stessi Papi, la corruzione generalizzata, gli sprechi dell’amministrazione centrale e locale, le pensioni e le donazioni elargite come elemosine ai tanti raccomandati o poveri questuanti, le truffe di artigiani e impresari, ma anche le spese per mantenere il capillare apparato di controllo politico, di delazione (le spie erano numerose) e di consenso sociale in tutto lo Stato della Chiesa.

20 baiocchi argento Pio IX Ecco perché l’amministrazione pontificia, dal ministero delle finanze (la Reverenda Camera Apostolica), fino all’ultimo camerlengo di paese (una sorta di segretario comunale addetto alle finanze e ai conti), trovavano più conveniente spillare soldi ai più poveri con gabelle sui generi di prima necessità che, almeno, assicuravano un largo e sicuro gettito.

Fatto sta che lo Stato della Chiesa era sempre in deficit, tanto che la Repubblica Romana napoleonica che ne ereditò per poco le finanze (1798-1799) fu costretta ad emettere anche a Roma gli assegnati francesi o “cedole”. Una carta moneta tendente a deprezzarsi, pezzi di carta buoni per soffiarsi il naso, ironizza il conservatore Belli in un sonetto “preventivo”, cioè nel timore che per i traumi politici e finanziari del 1831 anche Papa Gregorio XVI volesse reintrodurla nello Stato Pontificio:

CIAMANCHEREBBE QUEST’ANTRA
Semo fritti, o rreggina: er zor Grigorio
vò arimette le scedole de carta:
eppoi nun lo mannate a ffasse squarta
co ttutto er zu’ piviale e ’r fardistorio!
Si ha bbisoggno de noi, pisscia risorio
e cce fa ttutti cavajjer de Marta;
ma un po’ c’aridà ssú, vviè e cciaribbarta
pe ffijji de Pasquino e de Marforio.
Eh a sta maggnèra cqui ttutti sò bboni
a ppagà cchi ha d’avé, ssenza ch’aspetti:
che bbella forza de li mi’ cojjoni!
Una risma de carta a scaccoletti,
e ecco le mijjara e li mijjoni
pe sserví da quadrini e ffazzoletti.
16 ottobre 1833

Versione. Ci mancherebbe anche questa! Siamo spacciati, o regina [il Belli rifà il verso al “Siam traditi, o Regina” dell’opera “Didone abbandonata” del Metastasio, come fa notare il Vigolo che era anche grande musicologo], il signor Gregorio [papa Gregorio XVI] vuole rimettere in circolazione le cedole di cartamoneta: e poi non lo mandate a farsi squartare con tutto il suo piviale e il faldistorio? Se ha bisogno di noi, piscia rosolio e ci fa tutti cavalieri di Malta; ma per poco che si riprenda, viene e ci rinnega come figli di Pasquino e di Marforio [note statue di personaggi irriverenti]. Eh, a questo modo tutti sono buoni a pagare i creditori, senza che aspettino: che bella forza dei miei coglioni! Una risma di carta tagliata a quadratini, ed ecco le migliaia e i milioni per fare da quattrini e fazzoletti [per pulirsi il naso].

Certificato Rendita Debito Pubblico Stato Pontificio 1829Tutto si risolse, invece, col solito prestito su prestito che rimandava alle calende greche la restituzione del debito pubblico. Soldi e interessi altissimi, oltretutto, buttati in un vuoto assistenzialismo – nota D.Felisini (Le finanze pontificie e i Rothschild, ESI 1991) – senza nessun investimento o tentativo di modernizzare lo Stato stimolando la nascita di una moderna borghesia, come si faceva al Nord. Anzi, le poche fabbriche erano al livello del Medioevo, povere di macchine, e per lo più arcaiche, e ricche di manodopera a bassissima produttività.
Fatto sta che nel 1870 il Tesoro della Chiesa – rivela Felisini – stava proprio per andare in “default”, si direbbe oggi, cioè sull’orlo della dichiarazione d’insolvenza, o impossibilità di restituire il Debito Pubblico ai sottoscrittori, se i bersaglieri e l’Italia liberale non avessero “per fortuna” anche della Chiesa conquistato Roma il 20 settembre, togliendo ad un papa così ottuso e testardo come Pio IX le castagne dal fuoco. Ma oggi, per le nuove crisi finanziarie, non possiamo più sperare nei bersaglieri, conclude con ironia D.Velo (Sole 24 Ore, 8 dic.1991) presentando il saggio.

E’ poi davvero curioso che i papi, che umiliavano gli ebrei richiudendoli nel ghetto, vietando loro studi e professioni, e condannandoli a fare gli stracciaroli, poi dovevano ricorrere ai prestiti della banca parigina dell’ebreo Rothschild (cfr. il sonetto Er Giubbileo III, del 1832, col solito tono anti-giudaico). Nèmesi dell’economia!

Eppure, lo Stato Pontificio non mancava di ingegni: sarebbe bastato ascoltarli. Fu proprio un suddito del Papa, il liberale bolognese Marco Minghetti, a portare le finanze del nuovo Regno d’Italia al bel traguardo del pareggio del bilancio (1875), grazie ai tagli delle spese statali inutili e ad una politica di severa tassazione, compresa l’impopolare “tassa sul macinato”. In precedenza, nel 1847, illudendosi sulla personalità di Pio IX, Minghetti aveva accettato la carica di ministro laico dei Lavori Pubblici nella Consulta romana, lasciandola però quando si accorse che a contare in realtà era solo la reazionaria componente ecclesiastica, contraria anche alle timide aperture papali.

Così, Porta Pia salvò il Papato tre volte: ridandogli un minimo di quella credibilità religiosa e morale persa col potere temporale (cfr. famosa dichiarazione di Paolo VI papa Montini), scaricando l’enorme disavanzo pontificio, compreso i buoni del Tesoro, sul nuovo Regno dell’Italia unita, e infine giù, giù, “per li rami” della Storia, donandogli sulla carta oltre 3 milioni di lire (13 milioni di euro al 2009) con la legge, non accettata, delle Guarentigie del 1871, e poi gli accettatissimi milioni e poi miliardi con i Concordati concessi per cinico calcolo politico dai due socialisti e atei Mussolini e Craxi. Che fortuna, nella sfortuna! Basti pensare che di solo “8 per mille”, una tassa abusiva esistente solo in Italia, pagata anche dai non cattolici e da chi non vuole destinare proprio nulla alla Chiesa, la Chiesa cattolica oggi riceve dallo Stato italiano, cioè dai cittadini, circa 1 miliardo di euro all’anno (2010). Diciamo la verità: a qualunque staterello sarebbe piaciuto “perdere” così la guerricciola simbolica del 20 settembre 1870!

Assegnato Repubblica Romana paoli 10Ma torniamo alle tasse. Ai tempi del Papa-re gravavano sui beni di lusso (cavalli, botteghe, carrozze, case, terreni ecc) o che si volevano moralisticamente scoraggiare (sigari, carte da gioco, calendari da barbieria, riviste straniere ecc), ma soprattutto sui beni di prima necessità, più importanti nel bilancio della povera gente che se le ritrovava comprese nel prezzo (grano, farina, pane, vino, olio, sale, carni conservate ecc), perché davano un gettito totale più alto. Così le tasse le pagavano soprattutto i poveri, lamenta un Belli travestito da moderno sindacalista:

LE GABBELLE
Ah, ddunque, perché nnoi nun negozziamo
e nnun avémo manco un vaso ar zole,
lei vorebbe cunchiude in du’ parole
che le gabbelle noi nu le pagamo?
Le pagamo sur pane che mmaggnamo,
sur panno de le nostre camisciole,
sur vino che bbevémo, su le sòle
de le scarpe, e sull’ojjo che llogramo.
Le pagamo, per dio, su la piggione,
sur letto da sdrajacce, e su li stijji
che ssèrveno a la nostra professione.
Le pagamo (e sta vergna è la ppiú ddura)
pe ppijjà mmojje e bbattezzà li fijji
e pper èsse bbuttati in zepportura.
5 aprile 1836

Versione. Le tasse. Ah, dunque, perché noi non facciamo contratti e non abbiamo neanche un vaso al sole, lei vorrebbe concludere in due parole che le gabelle noi non le paghiamo? Le paghiamo sul pane che mangiamo, sul panno delle nostre camicie, sul vino che beviamo, sulle suole delle scarpe e sull’olio che consumiamo. Le paghiamo, per Dio, sulla pigione, sul letto sul quale ci sdraiamo, e sugli stigli (mobili e arredi) che servino alla nostra professione. Le paghiamo (e questa iattura è la piú dura) per prendere moglie e battezzare i figli e per essere gettati in sepoltura.

Tasse indirette, quindi, non esistendo allora la dichiarazione personale dei redditi (introdotta in Italia solo nel 1974), che finanziavano gli stipendi degli impiegati statali, i servizi, le opere pubbliche, ma anche le spese pazze, le ruberie, e per fortuna anche le bellissime opere d’arte commissionate dalla Casta politica pontificia. Per esempio, la fontana dei Fiumi, inaugurata nel 1651 in piazza Navona, era stata finanziata con nuove imposte sui proprietari delle case prospicienti e con impopolarissime nuove tasse su pane, vino e altri generi alimentari, che colpirono la povera gente.

Editto gabella di un quattrino per libbra di carne Stato PontificioMa non era finito: essendo vietata la libera circolazione delle merci, su una grande quantità di beni, alimentari e no, gravavano i dazi, somme che una speciale polizia esigeva all’ingresso delle città a chiunque passava, fosse pure in carrozza. Quasi sempre bauli e valigie venivano aperti e spesso le persone perquisite. I dazi, dunque, non corrispondevano alle Dogane, ma erano anche interni ad uno stesso Stato e perfino alla stessa provincia. Tutte le città italiane hanno ancora le caratteristiche pedane a bilancia

Narrano i cronisti dell’epoca che nell’800 pre-liberale viaggiando o spedendo merci da Roma a Milano bisognava sottostare ad oltre una ventina di stazioni di dazio. Era dinque una pessima idea portare in regalo un salame ai parenti abitanti in una città lontana: con quello che avreste speso in dazi plurimi, i parenti avrebbero potuto acquistare magari cinque salami locali. E al dazio i dazieri si permettevano di mettere le mani addosso, frugando tra le vesti anche delle donne, con la scusa di cercare un salame di sanguinaccio. A proposito, qui il dazio col daziere ladro che si impossessa del salume senza stendere verbale, simbolo perfetto della corrotta Roma papalina, era sulla via Nomentana, proprio davanti a quella Porta Pia che avrebbe ridato libertà e dignità a Roma:

LA GABBELLA DE CUNZUMO
Fu inzomma che ar partí da Stazzanello
la sora Pasqua la commare mia
me diede un zanguinaccio, e Nnastasia
se lo vòrze agguattà ssotto ar guarnello.
Ce ne venímio1 bberbello bberbello,
quanno propio a l’entrà de Porta Pia,
fussi caso o cc’avessimo la spia,
ce vedemo affermà dda un cacarello.
Lui, visto er bozzo, schiaffò ssotto un braccio
e ll’aggnéde a ttastà ddove capite
co la scusa de prenne er zanguinaccio.
Come finí? ffiní sta bbuggiarata
ch’io perze tutto, e ppe nnun fà una lite
me portai via mi’ fijja sdoganata.
1° dicembre 1834

Versione. La gabella sul consumo. Accadde insomma che al partire da Stazzanello [località nei pressi di Palombara Sabina] la signora Pasqua, mia madrina, mi regalò un sanguinaccio [salume di sangue di maiale], e Anastasia volle nasconderselo sotto il guarnello [semplice abito-grembiule bianco da lavoro o da casa tipico delle popolane, v. immagine]. Ce ne andavamo bel belli [sulla via Nomentana] quando proprio all’entrata di Porta Pia, che fosse il caso o colpa d’una spia, ci vediamo fermare da un ometto. Lui, visto il rigonfiamento, infilò sotto il braccio e andò a tastare dove potete immaginare, con la scusa di prendere il sanguinaccio. Come finí? Finì questa buggeratura che io persi tutto, e per non fare una lite mi portai via mia figlia sdoganata [doppio senso umoristico: sta anche per “sverginata”].

E, con la corruzione che c’era, spinti dalle tasse esose, sai quanti preferivano far scivolare qualche moneta nelle tasche del daziere, per passare di contrabbando, nonostante le gabelle sulle stoffe e le lane, l’intero guardaroba di “Giuseppe ebreo”, che più che un famoso ricco mercante di abiti, sembra un personaggio proverbiale messo lì solo per fare rima:

ER FRUTTO DE LE GABBELLE GROSSE
Capite voi? Pe ccressce la gabbella
fanno cressce li fraudi e ’r contrabbanno.
Capite voi che ppo’ de bbagattella
tre scudi a ccanna de laumento ar panno?
È un affare de venti in ventun anno
ch’io sò ccapo-facchino in doganella;
e ’r fatto sta, ccapite voi?, che cquanno
cressce un dazzio, oggni ggiorno una quarella.
Dico pe cquello che sse scopre: eppoi
sc’è ttutto quanto er resto che ddich’io,
ch’è ccento vorte ppiú: capite voi?
Tre o cquattro piastre in faccia a un proposèo,
e vve fanno passà mmagaraddio
tutti li panni de Ggiusepp’ebbreo.
6 settembre 1835

Versione. Il frutto delle gabelle grosse. Capite? Per aumentare la tassa fanno aumentare le frodi e il contrabbando. Capite che bagattella siano 3 scudi a canna [unità di misura dei tessili pari a m.2,23] di aumento sul panno? È dall’epoca dei miei 20-21 anni che io sono capo-facchino alla Doganella [prob. l’ufficio doganale di porto di Ripetta]; e il fatto è – capìte? – che quando aumenta un dazio, ogni giorno c’è una denuncia. Dico solo per quello che si scopre; e poi c’è tutto il resto, che è cento volte di più, capite? [Voi date] tre o quattro monete in faccia a un soldato di dogana, e vi fanno passare magari tutti i panni di Giuseppe ebreo.

Dazio pontificio sulla lanaSul vino, a parte che si era reso necessario, vista la disonestà diffusa degli osti, creare appositamente la misura standard in vetro trasparente, la mitica foglietta con la linea del bordo obbligatorio (fojetta), poi comunque vanificata dal trucco dell’aggiunta di acqua già nei barili, gravava un’altra odiosa gabella, argomento di malcontento e ironia nelle osterie degli sfaccendati, che il Belli affronta però in modo laterale e imprevedibile facendo straparlare a ruota libera un popolano davanti alla sua fojetta, un po’ come certi discorsi che oggi ascoltiamo al bar:

LA GABBELLA DER VINO
L’entrata c’hanno messo a le cupelle
ve lo dich’io ch’edè: ttutto un ripicco
der Tesoriere, perché nun c’è er micco
che jje dà aggratis da rempí la pelle.
Ma ssi sto grillo in testa io me lo ficco,
lui da mé nun ce pijja bbaiocchelle:
ché a la fine er Governo è ttanto ricco
da fregasse de tutte le gabbelle.
Se sa, vvanno a pportà ste grazzianate
a li piedi der Papa, e ’r Papa appizza,
perché li strozzi nun zò mmai sassate.
Er Papa è un cane avanti de ’na pizza:
si sse la maggna, con chi la pijjate?
O ccor cane, o cco cquello che l’attizza.
24 dicembre 1832

Versione. La tassa sul vino. Il dazio di entrata che hanno messo a le coppelle [misura del vino, frazione del barile di legno] ve lo dico io che cosa è: è tutta una vendetta del ministro delle Finanze, perché non c’è lo stupido che gli dà qualcosa gratis tanto da riempirsi la pancia. Ma se mi ficco questo grillo in testa, lui da me nun prende più un baiocco, perché in fin dei conti il Governo è tanto ricco da poter fare a meno di tutte le gabelle. Si sa, vanno a portare ai piedi del Papa questi gesti per ingraziarselo, e il Papa accetta, perché gli strozzi [denaro per corrompere] non sono mai sassate. Il Papa è come un cane davanti ad una pizza: se se la mangia, con chi ve la prendete? O col cane o con chi lo provoca.

Un prosciutto paga ben 3 giuli di dazio? Non è meglio, allora, dice il popolano belliano, che il ministero delle Finanze, cioè la Reverenda Camera Apostolica, si mangi tutto il grasso? Ma in tal caso sarebbe stata una… Camera Dietetica. Perché il grasso, a quei tempi, a differenza di oggi, era non solo considerata parte prelibata, ma anche completamente calorico essenziale in una dieta popolare spesso poverissima e carente. Insomma, la “Reverenda Cammera Apoplettica” [gioco di parole satirico per Apostolica] non può andare avanti un’altra settimana. Fa troppi angherie: è troppo prepotente e poco cristiana:

LA GABBELLA DE LA CARNE SALATA
Cqua er Governo nun vò mmette ggiudizzio,
perché de noi nun je ne preme un’acca.
Cqua er male nostro nun è mmal de bbiacca,
e sse va de galoppo ar priscipizzio.
Un vizzio suo è cche ar pijjà ss’attacca
a li ferri infocati: e un antro vizzio,
che fforzi fa ppiú ppeggio preggiudizzio,
è cche nun paga, o vvò ppagà a la stracca.
Un presciutto tre ggiuli de dogana!
E nun era un’idea meno bbisbetica
de maggnasse la grasscia sana sana?
La Reverenna Cammera Apopretica
nun pò annà avanti un’antra sittimana.
Fa ttroppe tirannezze: è ttroppa eretica.
18 gennaio 1835

Guarnello, semplice veste popolare da lavoro o da casa Roma 800Versione. La gabella della carne salata. Qua il Governo non vuole mettere giudizio, perché di noi non gli preme affatto. Qua la nostra malattia non è il mal di biacca [saturnismo da idrossido di piombo, colorante bianco] e si va di galoppo al precipizio. Un vizio suo è che in quanto al prendere si attacca ai ferri infuocati [cioè vuole prendere subito], mentre il secondo vizio è che in quanto al pagare fa peggior danno nel non pagare o nel pagare tardi.

In tempi di deficit di bilancio e crisi economica, per colpa anche allora della Casta dei privilegiati, in quel caso di cardinali e monsignori (“settaccia indegna”, brutta setta indegna, nel sonetto Lo stato dello Stato), il Papa è costretto a inventarsi i più diversi rimedi: leggi, aperture e chiusure di imprese, appalti, affidamenti, privatizzazioni e “cartolarizzazioni”, diremmo oggi. Ma non funziona:

LO STATO DE LO STATO
È vvero che nnoi semo sderelitti,
ma ccosa ha dda fà er Papa co sta freggna
de debbiti, de smosse e dde delitti
tutto pe vvia de sta settaccia indeggna?
Dico, cos’ha da fà? Pprova, s’ingeggna,
va ttra una goccia e ll’antra, attacca editti,
opre e sserra bbottega, impeggna e speggna,
s’ajjuta co l’apparti e cco l’affitti.
Però, ppe quanto dichi e cquanto facci,
pe cquanto s’arranchelli a ddà la leva,
la pietra nun ze move, e ssò affaracci.
Ah! ddisse bbene un omo che ddisceva
c’oggi l’editti cqua ssò ttutti stracci
che un Papa mette e un stracciarolo leva.
28 dicembre 1832

Versione. Lo stato dello Stato. È vero che noi siamo prostrati, ma che cosa deve fare il Papa con questo flagello di debiti, commozioni e crimini, tutto per colpa di questa setta indeggna? Dico, che cosa deve fare? Prova, s’ingegna, affronta la pioggia senza riparo, affigge editti, apre e chiude imprese, impegna e riscatta, si aiuta con gli appalti e gli affitti. Però, per quanto dica e faccia, per quanto si sforzi sulla leva, la pietra non si smuove, e sono problemi gravi. Ah! disse bene un uomo che sosteneva che oggi le leggi qui sono tutte stracci [senza valore] che un Papa mette e uno stracciarolo leva.

Bando pontificio per la gabella sui cavalli Perciò, si ricorre alla riduzione degli stipendi degli impiegati dello Stato, anche i subalterni, misura iniqua tipica delle dittature, infatti fu replicata solo dal Fascismo. E si ricorreva anche al “teatrino della politica”, cioè alla comunicazione manipolata, al far vedere, dando in pasto all’opinione pubblica, allora più sprovveduta e ingenua, i gesti simbolici virtuosi degli Alti Gradi. Proprio come oggi? No, anzi, come veniva ordinato di fare ai gerarchi fascisti. Infatti, scrive in nota lo stesso Belli: “Nell’Ordine Circolare, dato il 20 dicembre 1832 sotto il N.30571 dalla Segreteria di Stato a tutti i Capi-di-ufficio, onde avvertissero i loro impiegati subalterni della diminuzione degli stipendi, era espresso che l’alto Clero era spontaneamente andato ad offerire i suoi emolumenti ed averi pei pubblici bisogni”. Così, cardinali e monsignori avidi fanno mostra di apparire all’improvviso economi e virtuosi agli occhi del Papa e dei sudditi che li criticano. Così, è tutta una corsa a dirsi disposti a privarsi di qualche bene o a promettere di donare qualche possedimento alle finanze dello Stato. Non sappiamo poi, quanti di quei “risparmi” abbiano avuto davvero corso, ma che fosse una “favola” per i gonzi il Belli lo dice nel titolo del sonetto e poi nell’accenno satirico al giornale ufficiale equiparato agli oroscopi:

PARE UNA FAVOLA!
Appena er Papa disse chiaramente
che, ssenza arimedià ssubbito ar male,
la Santa-Sede annava a lo spedale,
cuanno nun je pijjassi un accidente;
de posta oggni prelato e ccardinale,
oggni patrasso e oggnantra bbona ggente,
cùrzeno tutti cuanti istessamente
co la lingua de fora ar Qui-orinale.
E ttutti, incomincianno dar Vicario,
disseno ar Papa: «Io do la mi’ abbazzia
pe rriempicce er vòto de l’orario».
Cuest’è una storia che nnun è bbuscía.
Sor Indovinagrillo der Diario,
dite la vostra, c’ho ddetto la mia.
28 dicembre 1832

Versione. Sembra una favola! Appena il Papa disse chiaramente che se non si fosse posto rimedio subito al male [il debito di Stato] la Santa Sede sarebbe andata all’ospedale, se non fosse addirittura morta [non avesse dichiarato bancarotta], di corsa ogni prelato, cardinale, ogni padre graduato e ogni altra buona gente, si precipitarono tutti quanti con la lingua di fuori al Quirinale [residenza del Papa]. E tutti, cominciando dal Vicario, dissero al Papa: “Io do la mia abbazia per riempire il vuoto dell’erario”. Questa è una storia vera, signor Indovinala-grillo del “Diario” [gazzetta ufficiale di Roma], dite la vostra che ho detto la mia [cioè, fine della favola].

Ma allora, tanto vale fare come i musulmani, visto che a questo Governo ormai gli manca solo il nome di turco, dice un francese di Roma che ha viaggiato: pagare con una apposita tassa addirittura il prolungamento della propria vita, ogni sei mesi. Nella speranza che l’attuale ministro delle Finanze non ami il Belli, e quindi non ci legga: non vorremmo dargli un’idea:

LE GABBELLE DE LI TURCHI
Un tar munzú Ccacò, cch’è un omo pratico
e Ddio solo lo sa cquanti n’ha spesi
pe vviaggià ddrent’ar reggno musurmatico
dove nun ce commanneno Francesi,
ricconta che in sti bbarberi paesi
’ggni sei mesi sc’è un uso sbuggenzatico
che sse paga sei mesi de testatico
pe pprologà la vita antri sei mesi.
Dunque disce er Francese che ssiccome
ar Governo der Papa indeggnamente
nun j’amanca de turco antro ch’er nome,
c’è ggran speranza che jje vienghi in testa
de mette sopra er fiato de la ggente
’na gabbella turchina uguale a cquesta.
19 novembre 1836

Versione. Le gabelle dei Turchi. Un certo monsieur Cacò [il Belli e i romani non possono soffrire i francesi, e quando possono li ridicolizzano], che è un uomo pratico e Dio solo sa quanti anni ha speso per viaggiare nel mondo musulmano, dove non comandano i francesi, racconta che in quei barbari paesi ogni sei mesi c’è un uso burgensatico [termine legale tedesco medioevale: in orig. diritto di proprietà borghese, qui suona come sproloquio] per cui si pagano sei mesi di imposta pubblica per prolungare la vita di altri sei mesi. Dunque, dice il Francese, poiché al Governo del Papa, indegnamente [intercalare di modestia, qui caricaturale], non gli manca di turco altro che il nome, si spera che gli venga in mente di mettere sulla testa della gente una gabella turca uguale a questa.

IMMAGINI. 1. Bando pontificio di tassa di un quattrino per “foglietta” (fojetta) di vino. 2. Moneta di 20 baiocchi di Pio IX (1860). 3.Certificato nominativo di Debito Pubblico dello Stato Pontificio (1829). 4. Boiglietto “assegnato” da paoli 10 della Repubblica Romana napoleonica del 1798-99, precursore dei biglietti di banca che tanto preoccupavano Belli e i romani. 5. Editto pontificio di una gabella sulla carne. 6. Notifica del Tesoriere Generale (ministro delle Finanze del Papa) sulle tasse sui tessuti di lana. 7. Il guarnello, semplice abito da lavoro o da casa delle donne del popolo. Ma per quando fosse ampio, non era facile nascondervi oggetti, come il sanguinaccio del sonetto, senza che la mano avida ed indiscreta del gabelliere delle stazioni di Dazio li raggiungesse. 8. Bando per la tassa sui cavalli.

3 luglio 2011

Confidenze delle ragazze: è vera ignoranza del sesso o malizia?

Ragazze all'altalenaLa sessualità è un aspetto importante dell’affresco dal vivo che il Belli dipinge dei popolani romani nell’ultimo secolo dello Stato della Chiesa. Ai nomi stessi (numerosi e coloriti i sinonimi romaneschi) dell’organo maschile (“Il padre de li Santi”) e dell’organo femminile (“La madre de le Sante”), il Belli dedica due separati sonetti, preziosi per la storia del lessico, che riferiscono anche nomi oggi sconosciuti. Noi, da parte nostra, abbiamo presi a pretesto quei due sonetti osé, partendo proprio da quei nomi impronunciabili in un salotto “perbene”, per ricercare nella storia della lingua italiana (e perfino nel teatro inglese elisabettiano) sia l’antichissima, strana origine, sia le alterne fortune e gli usi, addirittura presso i più insospettabili personaggi della cultura, da Machiavelli a Leopardi!

Ecco qui, intanto, un’eccezionale suite di otto sonetti (Le confidenze de le regazze), un divertissement, una sorta di gioco o scherzo in otto quadri scritto di getto con la frenesia nevrotica del rimatore seriale, il 10 dicembre 1832, giornata di furia compositiva senza pari, visto che oltre agli otto sonetti il Belli ne scrisse altri tre di argomento diverso:  dunque ben 11 sonetti in un solo giorno.

E’ il racconto, non facile da interpretare oggi, delle prime curiosità sessuali e addirittura anatomiche di due ragazze molto giovani, poco più che bambine all’inizio dell’adolescenza, che pone al lettore moderno qualche problema di comprensione, vista l’incredibile ignoranza dell’anatomia sessuale maschile manifestata da almeno una delle due ragazze.

In tempi e luoghi (l’ottusa e reazionaria Roma papalina) in cui, d’accordo, l’unica educazione delle fanciulle era il catechismo, unici maestri erano preti e suore, ma, insomma, le bambine dovevano pur giocare tra loro in casa e in strada, e in tutte le abitazioni povere – e non solo – la promiscuità era un dato costante, a cominciare dal rituale bagno una tantum (c’è chi dice mensile…) e coram populo, cioè di fronte a tutti, nella tinozza… Senza contare l’osservazione dei tanti animali.

Insomma, stavolta il Belli non può darcela a bere con tanta facilità. A meno che non si fosse imbattuto in un caso limite degno di essere riferito ai posteri, la gustosissima serie di sonetti risponde subito al dilemma solo teorico se fosse credibile davvero una simile ignoranza tra ragazzine perfino impuberi in piena città, sia pure la più arretrata, oppure se l’autore – come è altamente probabile – abbia voluto giocare sul presunto candore infantile per imbastire maliziosamente una storiella grottesca di grassa e irresistibile comicità, ad uso dei vecchi monsignori e marchesi amici dell’Accademia Tiberina, suoi ascoltatori privilegiati.

In altre parole, il gioco intrigante tra ingenuità e malizia esibizionistica c’è, eccome, ma a giocare è il Belli col lettore di ieri e di oggi, non sono le due ragazze. Un pretesto letterario geniale, il suo, anzi, un invito a nozze per la sua vena comica sempre a caccia di temi nuovi, che faceva sghignazzare l’uditorio – come ricorda il testimone Gogol – al quale l’autore recitava nei salotti con un’aria di seriosa gravità che aumentava l’effetto umoristico i sonetti prodotti giorno dopo giorno. 

Giovane italiana con melangole (K.Makovskij, dopo 1870)La facilità stessa, l’immediatezza, diremmo, con cui la più ingenua o la più bambina delle due ragazze trova subito il giovane più grande e furbo pronto a darle dimostrazione anatomica e a soddisfare immediatamente la sua curiosità sessuale, è la dimostrazione di quanto al contrario erotismo e sesso fossero quotidianamente presenti e diffusi – sarà stato per compensazione naturale della povertà e della oppressione dei preti? - nella Roma papalina poverissima dove non si produceva nulla, dove tutto era corrotto, dove soprattutto i preti pensavano solo al sesso, anzi, dove solo i migliori di loro “andavano a donne” (i peggiori preferendo il sedere dei bambini). Una città insomma in cui la vendita del proprio corpo doveva essere una scelta presa in considerazione – visti i tanti esempi che offriva la realtà del vicinato – da molte donne giovani, e neanche belle, fin dalla primissima adolescenza. Nonostante l’occhiuto controllo del parroco, il vero commissario del Buon Costume nel rione, le tante spie dislocate in ogni vicolo e le possibili denunce al monsignor Vicario.

Tutto ha inizio dal candore di Tuta (diminutivo di Geltrude), probabilmente una bambina, che si rivolge all’amica del cuore Agata, forse poco più grandicella. Della serie di otto è il sonetto I:

Aghita, senti: da un par d’anni bboni
l’ommini io ppiú li guardo e mmeno pòzzo
arrivajje a ccapì cche ssii quer bozzo
che ttiengheno tramezzo a li carzoni.
Pare, che sso... ’na provatura... er gozzo
che cciànno drent’ar petto li capponi...
o cquer coso che ppènne a li craponi...
oppuro er piommo de la molla ar pozzo...
Ma appena viè er cugnato de la sposa
a accompaggnà la sora Bbeatrisce,
propio je vojjo domannà sta cosa.
Ccusí bbon giuvenotto è cquer Felisce,
che, vvedennome a mmé ttanta curiosa,
si cquarche ccosa sc’è, llui me la disce.

Versione. Agata, senti, da più di due anni più guardo gli uomini e meno riesco a capire che cosa sia quel bozzo che hanno in mezzo ai calzoni. Pare, che so, come una scarmorza, il gozzo che hanno nel petto i capponi, o quel coso che pende ai caproni, oppure il piombo della corda al pozzo. Ma appena viene il cognato della sposa ad accompagnare la signora Beatrice, proprio gli voglio domandare questa cosa. E’ così bravo giovane quel Felice che vedendomi tanto curiosa se qualche cosa c’è lui me la dice.

La risposta del Felice, ovviamente, arriva subito, col sonetto II:

Àghita, sai? je l’ho ggià detto a cquello:
e llui s’è sbottonato li carzoni,
e mm’ha ffatto vedé ccome un budello
attaccato a ddu’ ova de piccioni.
Quer coso disce che sse chiama uscello,
oppuro cazzo, e ll’antri dua cojjoni.
Io je fesce: «E cch’edè sto ggiucarello?
E sti du’ pennolini a cche ssò bboni?».
Mo ssenti, Àghita mia, quello che rresta.
Disce: «Fa ddu’ carezze a sto pupazzo».
Io je le fesce, e cquello arzò la testa.
Perantro è un gran ber porco sto sor cazzo,
perché ppoi, strufinannome la vesta,
ce sputò ssopra, e mme sce fesce un sguazzo.

Madre con due bambini e una ragazzetta (part)Versione. Agata, sai, io l’ho già detto a quello, e lui si è sbottonato i calzoni e mi ha fatto vedere come un budello attaccato a due uova di piccioni. Quel coso dice che si chiama uccello, o cazzo, e gli altri due coglioni. E io dissi: è che cos’è questo giocarello, e questi altri pendolini a che servono? Ora senti, Agata mia, quello che resta [da dirti]. Dice: fa due carezze a questo pupazzo. Io le feci, e quello alzò la testa. Peraltro è un gran porco questo signor cazzo, perché poi strofinandomi la veste ci sputò sopra e mi ci fece uno sguazzo.

Dopo l’incidente-rivelazione Agata così risponde all’amichetta Agata (sonetto III):

Tuta, io da un pezzo lo sapevo quello
c’all’omminì je sta nne li carzoni,
pe vvia che ttra li vetri e lo sportello
li guardavo piscià pe li cantoni.
Oh, cche ppoi se chiamassi o ccazzo, o uscello;
che cciavessi attaccati sti cojjoni;
e cche sti cazzi sò ttanti porconi,
io nun potevo, Tuta mia, sapello.
Come torna Felisce, dijje, Tuta,
pe cche raggione quanno se strufina
sto cazzo o uscello su le veste, sputa.
Perch’io stanno a gguardalli la matina
piscià ar cantone, nun j’ho mmai viduta
sta sputarella, ma ’ggnisempre urina.

Versione. Tuta, io già da un pezzo sapevo quello che gli uomini hanno nei calzoni, perché tra i vetri della porta li vedevo urinare ai cantoni [delle strade]. Oh, che poi si chiamasse cazzo o uccello, che ci avesse attaccati questi coglioni, e che questi cazzi sono tanto porconi, io non potevo, Tuta mia, saperlo. Quando torna Felice, digli, Tuta, per quale ragione quando si strofina questo cazzo o uccello sulle vesti sputa. Perché io stando a guardarli la mattina pisciare al cantone, non gli mai vista questa sputarella, ma sempre orina.

Naturalmente Felice vista l’ingenuità di Tuta passa al contrattacco, come riferisce la ragazzina (sonetto IV):

Àghita, senti: jjeri ch’era festa
tornò Ffelisce, er cavajjer zerpente,
pe ddimme s’io sciavevo puramente
er gallo com’er zuo c’arza la cresta.
Io je disse de no, ma ffinarmente,
pe llevajje sti dubbi da la testa,
ridennome de lui m’arzai la vesta
pe ffà vvedé cche nun ciavevo ggnente.
«E cch’edè Ttuta? cqui cce tienghi un buscio»,
me disse lui: «viè un po’ in nell’antra stanza
ch’io co un aco che cciò tte l’aricuscio».
Poi me porta de llà ddove se pranza,
cava er zu’ bbúschero, e a ffuria de struscio
me lo ficca pe fforza in de la panza.

Versione. Agata, senti, ieri che era festa, tornò Felice, il cavalier servente, per chiedermi se avevo anch’io il gallo come il suo che alza la cresta. Io gli dissi di no, ma alla fine per levargli questi dubbi dalla testa ridendomi di lui mi alzai la veste, per far vedere che non ci avevo niente. “E che cos’è, Tuta? qui hai un buco”, mi disse lui. “Vieni un po’ nell’altra stanza che con un ago che ho te lo ricucio”. Poi mi porta si là, dove si pranza, tira fuori il suo arnese, e a furia di strusciare me lo ficca per forza nella pancia.

A questo punto l’amica vuol saperne di più e la incalza di domande (sonetto V):

«E cche ssentissi, Tuta, in ner momento
che Ffelisce te fesce quer lavore?»
«Cominciai a ssentí ttanto dolore,
che vvolevo scappà ppe lo spavento».
«Eppoi?» «M’intese come un svenimento
e inzieme a bbatte presto-presto er core».
«Bbè, ttira avanti». «Eppoi un gran brusciore».
«E allora?» «E allora er coso m’annò ddrento».
«E llui tratanto?» «Se pijjava gusto
de metteme la lingua in de la bbocca,
e ccacciamme le zinne for der busto».
«E ttu?» «E io, si mmaippiú llui me tocca,
nun vojjo ppiú ste bbrutte cose». «Eh ggiusto!».
«No, nu le vojjo ppiú». «Quanto sei ssciocca!»

Versione. «E che cosa sentisti, Tuta, nel momento che Felice ti fece quella cosa?» «Cominciai a sentire tanto dolore, che volevo scappare per lo spavento». «E poi?» «Mi prese come uno svenimento e insieme un batticuore». «Bene, và avanti». «E poi un gran bruciore». «E allora?» «E allora il coso mi andò dentro». «E lui intanto?» «Se prendeva gusto a mettermi la lingua in bocca, e a tirarmi fuori le mammelle dal busto». «E tu?» «E io, se mai più lui mi dovesse toccare, non voglio più queste brutte cose». «Eh, giusto!». «No, non le voglio più». «Quanto sei sciocca!»

Madre sculaccia figlia a lettoQuesto “Quanto sei sciocca!” detto a sorpresa in fine sonetto dalla più esperta Agata, serve al Belli per creare un ponte di suspence, di attesa, che lega il V al VI sonetto. Agata prende le distanze dall’ingenua amichetta Tuta, e infatti si farà avanti al posto suo per restare sola con Felice, allo scopo di godersi anche lei il di lui “arnese”.

Ma qui a sorpresa il Belli, ai versi 5, 6-7 e 14, fa un colpo di teatro. Con l’imprevedibile accusa di scivettola (civettuola, ragazza che si mette in mostra, disponibile) fatta da Tuta ad Agata, fa cadere il castello di carte faticosamente costruito sulla ingenuità totale, infantile, di Tuta. Che maliziosamente fa anche dell’ironia sulla battuta evasiva della “tela fina” dell’amica più esperta, addirittura la accusa di volere anche lei il “coso lungo che gli scola”, e alla fine rimette in discussione perfino il suo no al sesso. Insomma, si instaura una concorrenza tra le ragazzine. E anche la piccola Tuta, dunque, dopo il primo approccio sessuale, come Eva dopo il peccato, sembra acquisire di colpo acume psicologico e malizia. Anche lei è dunque in grado di capire che l’amica più esperta “ci sta”, è disponibile al sesso. E diventa realistica ed esplicita. Un dietro-front, però, troppo repentino e inesplicabile. Una malizia improvvisa che appare in contrasto col personaggio improbabile costruito dal Belli nei sonetti precedenti. Una sceggiatura veloce e incalzante, con svolte continue, a rischio di qualche discrepanza logica, ma con l’effetto sicuro di dare ritmo e interesse al racconto. Ecco il sonetto VI:

«Tuta, si vviè Ffelisce stammatina,
dijje che all’ora ch’io torno da scòla
guardi quanno che Mmamma sta in cantina,
e entri, c’ho da dijje una parola».
«E cche ccosa vòi dijje, scivettola?»
«Ciò da parlà dde scerta tela fina...».
«Ma ppropio propio tela, eh Aghitina?
no de quer coso longo che jje scola?»
«E ssi ffussi accusí, cche cc’è dde male
de vedé si er giuchetto de Felisce
fascènnolo co un’antra è ttal’e cquale,
o ssi ttu mme sciai fatto la cornisce?
Eppoi tu ttanto ggià cciai messo er zale,
e nnu lo vòi ppiú ffà». «Chi tte lo disce?».

Versione. Tuta, se viene Felice stamattina, digli che all’ora in cui torno dalla scuola [di sarta o cuffiaia], quando mamma sta in cantina, entri [in casa mia], perché devo dirgli una parola. “E che cosa vuoi dirgli, civettuola?” “Ho da parlare di certa tela fina…” [modo proverbiale per non rispondere e alludere a qualcosa che non si può dire]. “Ma proprio tela, eh Agatina? Non quel coso lungo che gli scola?” “E se fosse così, che c’è di male a vedere se il giochetto di Felice focandolo con un’altra è tale e quale, o se tu ci hai aggiunto del tuo? E poi tu non lo vuoi fare più, ci hai già messo sopra il sale [modo di dire antichissimo: i Romani sparsero sale sulle rovine di Cartagine, perché mai più risorgesse]. “Chi te lo dice?”

Ma per le due ragazze ecco un’amara sorpresa. Quel lavorio (er zugna’) del furbo Felice su di loro ha prodotto su entrambe conseguenze gravi: la perdita delle mestruazioni, segno evidente che sono incinte. Prima parla Tuta (sonetto VII):

Aghita mia, e cche vorà ddí adesso
ch’è ggià er ziconno e mmommò er terzo mese
che nun vedo ppiú ssegno de marchese?
Aghita, di’, che mme sarà ssuccesso?
Oggnuna de l’amiche che cciò intese
disce: «Vierà sta sittimana appresso»:
ma er pannuccio io però nun l’ho ppiú mmesso;
e lloro stanno a ride a le mi’ spese.
Ch’edè?! ttu ppuro nun t’è ppiú vvienuto?!
Da cuanno, Aghita?, di’... Ppropio è un veleno
duncue er zugnà dde quer baron futtuto!
Oh cche llusce de Ddio! Mo l’ho ccapito
quer lavore ch’edè: ggnente de meno
che cquello che ppò ffa mmojje e mmarito!

Versione. Agata mia, e ora che vorrà dire che è già il secondo e quasi il terzo mese che non vedo più segno di mestruazioni? Agata, dì, che mi sarà successo? Ogni amica a cui l’ho detto dice: “Verrà la settimana prossima”, ma il panno io non l’ho più messo, e loro ridono a mie spese. Che cos’è?! Neanche a te sono più venute? Da quando, Agata, dì… e’ proprio un veleno dunque il lavorio di quel baron fottuto! Oh luce di Dio! Ora capisco che cos’è: niente di meno quello che fanno moglie e marito!

Anche Agata è nei guai, e così risponde all’amica (sonetto VIII, l’ultimo):

Tuta mia cara, come Mamma ha vvisto
ch’io nun davo ppiú ppanni cor rossetto,
m’è vvienuta a gguardà ddrento in ner letto,
m’ha ddetto vacca, e ppoi m’ha ddato un pisto.
Sia tutto pe l’amor de Ggesucristo:
ha vvorzuto accusí Ddio bbenedetto.
Tutti guadagni de quer ber giuchetto
che cc’è vvienuto a ffà vvedé cquer tristo.
Tratanto io sto accusí: vvommito e ttosso;
sino er pane, ch’è ppane, nu lo tocco,
e ppe la vita nun ciò ssano un osso.
Mamma spaccia ch’è stato lo scirocco
che ha ffatto diventamme er corpo grosso;
ma ppoi me manna a vvilleggià a Ssan Rocco.

Versione. Tuta mia cara, appena mamma ha visto che non davo più panni sporchi di rosso, è venuta a guardarmi sotto le lenzuola, m’ha detto “vacca!” e poi mi ha pestata di percosse. Sia tutto per l’amore di Geù Cristo: ha voluto così Dio benedetto. Tutte conseguenze di quel bel giochetto che ci è venuto a far vedere quel tristo. Intanto io sto così: vomito e tossisco; e perfino il pane, che è il pane, non lo tocco, e dappertutto semto le ossa doloranti. Mamma va dicendo in giro ch’è stato lo scirocco a farmi ingrossare; ma poi mi manderà a villeggiare a San Rocco [“l’ospizio – nota il Belli – dove si ricoverano le donne che vogliono sgravarsi segretamente”].

Così si concludono gli otto sonetti. Con la doppia morale cattolica, severissima in teoria (le percosse della madre alla figlia sono come la sfuriata di prammatica d’un predicatore dal pulpito), proprio perché poi sarà di manica larga nella pratica (il perdono della madre come quello del confessore). La mamma, come la Chiesa, è attentissima a evitare lo scandalo, tentando di nascondere la gravidanza ai vicini.

E una ragazza-madre – ulteriore contraddizione, tipica del costume dell’epoca, e della stessa Chiesa romana – nessun parroco l’avrebbe accolta alla Messa. Eppure, suore e medici cattolici la accoglievano, eccome, e su raccomandazione dello stesso parroco, nell’apposito ospizio di S.Rocco – tenuto da suore e preti – che nascondeva, appunto, la madre non sposata, perciò “peccatrice”, agli occhi del mondo, e la faceva comodamente “sgravare”. Roba da far impazzire un protestante!

A questo si aggiunga la discriminazione contro la donna, tipica dei tempi, per cui per il medesimo atto, la ragazza è colpevole, anzi è una puttana (“vacca”, dice la madre), mentre l’uomo non è neanche nominato, ricercato o tantomeno punito. A meno che la giovane popolana “sedotta” non sia così coraggiosa da denunciare al parroco il “seduttore”, affrontando possibili ritorsioni della famiglia del giovane e la sgradita notorietà nel rione. L’uomo, in tal caso, sarebbe costretto, purché non nobile, a sposarla.

Una filosofia di vita pessimistica e anti-edonistica, tipicamente cattolica, incombe sulla conclusione di questo racconto, nato come divertimento e finito nel dramma familiare: il binomio sesso e punizione, che è una riduzione alla romana di Eros e Thanatos, magnificamente interpretato dal Belli, di cui è ben nota l’ambivalenza psicologica e culturale. «Uomini, e soprattutto donne – sembra voler dire la “morale della favola” – non peccate, non abbandonatevi al piacere, perché questo è inevitabilmente legato alla sua naturale punizione: il dolore». Che in questo caso è anche la malattia, i fastidi, le busse, la derisione delle amiche, la delusione, la predica, la vergogna. Insomma, una sorta di legge sadica del contrappasso – sembra volerci dire il grande moralissimo Immoralista – che ci portiamo dietro dal cosiddetto giardino dell’Eden.

IMMAGINI. 1. Ragazze popolane romane dell’Ottocento sull’altalena (“canofiena”). Part. da B.Pinelli. 2. Giovane italiana con melangole (K.Makovskij). 3. Madre popolana con tre figli: al centro la ragazza adolescente, la più grande (part. da B.Pinelli). 4. Madre che alza le coltri e sculaccia la figlia colpevole. Una scena classica in altri tempi.

AGGIORNATO IL 15 GIUGNO 2021

21 giugno 2011

Conquista il mondo la bellezza della donna. Ma quanto dura?

Donna, elaboraz. da Bathsheba di W.Drost Me so ffatto, compare, una regazza
bianca e roscia, chiapputa e bbadialona,
co ’na faccia de matta bbuggiarona,
e ddu’ brocche, pe ddio, che cce se sguazza.

Versione. Ho preso per amante, compare, una ragazza bianca e rossa, chiapputa e prosperosa, con una faccia da matta  malandrina, e due poppe, per Dio, che ci si perde.

Tutti i poeti, da che mondo è mondo, hanno cantato la bellezza, e il Belli non si sottrae al tema. In uno dei suoi primissimi sonetti romaneschi, A ccompar Dimenico [Domenico Biagini, amico del poeta], del 14 febbraio 1830, la bellezza di una ragazza viene sintetizzata in modo brutale ma essenziale: petto, “chiappe” e faccia da malandrina. Anche se in un romanesco un po' acerbo, il sonetto introduce  due  termini pittoreschi: "badialona" da badiale, attinente a badia, abbazia, un tempo con grandi proprieta' terriere, perciò donna opulenta, prosperosa.

E "buggiarona"? Questo termine non è facile da spiegare, perché è usato in mille significati, sia dal Belli, sia da altri autori italiani dell’Ottocento. Ancora oggi si dice: è una buggeratura, l'ho buggerato, nel senso di un imbroglio. Ma i dizionari storici ed etimologici, e il Belli stesso in un altro sonetto, rivelano una complessa radice semantica. “Buggerare” era in origine l’atto carnale del sodomita attivo, per cui venivano accusati dalla Chiesa nel Medioevo certi eretici bulgari, grandi e grossi (infatti, da bulgaroni deriva buggeroni, detto anche di cose o persone grosse). E proprio i preti di Roma, inclini fin da allora alla pedofilia, accusavano i preti e fedeli dissidenti di essere pederasti? Senti chi parla! Ad ogni modo, che l’etimologia sia questa lo provano decine di altri dialetti italiani e lingue straniere. Per cui l’esclamazione molto volgare (in un altro sonetto), "e buggerà Santaccia", nota prostituta romana (come dire “in culo a Santaccia”), era nel romanesco dell’Ottocento un modo proverbiale, un intercalare ricorrente. Ma qui, riferito ad una donna, un termine maschile per eccellenza come buggerone? Va inteso secondo noi per analogia come aggressiva, malandrina, o sessualmente attiva, “scopatrice” ecc. Chi vuole sapere di più della curiosa origine e della strana evoluzione di queste parole, trova un dotto e divertente articolo dedicato, ricco di sorprese.

Ragazza al Carnevale (part) (A.Mokrizkij)Comunque, tornando al sonetto, niente di nuovo sotto il sole, ieri come oggi i canoni della bellezza  femminile non sono poi tanto cambiati.

Ma il Belli  approfondisce il tema della bellezza in modo moderno e molto attuale quando, in un altro sonetto, chiarisce che la bellezza vale più dei quattrini, perché il denaro non può dare la bellezza ma con questa si acquista la ricchezza. E le donne lo sanno bene, come si narra nel sonetto La bbellona de Trestevere:

. . . E' superbiosa come un accidente,
più che si fussi de cristal de monte.
Gran brutto fa' co lei da pretennente!
Lei nun vo pe marito antro ch' un conte . . .

Versione.  E' superba da non dire, neanche fosse di cristallo di rocca. Gran brutto impegno farle la corte! Lei non vuole per marito altro che un conte…

Tipico delle donne belle che oggi come ieri cercano di darsi solo agli altolocati, spesso in cambio di denaro o favori, come la recente cronaca politico-rosa ci ha insegnato.
Ed ecco il primo dei sonetti intitolati

LA BBELLEZZA
Che ggran dono de Ddio ch’è la bbellezza!
Sopra de li quadrini hai da tenella:
pe vvia che la ricchezza nun dà cquella,
e cco cquella s’acquista la ricchezza.
Una cchiesa, una vacca, una zitella,
si è bbrutta nun ze guarda e sse disprezza:
e Ddio stesso, ch’è un pozzo de saviezza,
la madre che ppijjò la vorze bbella.
La bbellezza nun trova porte chiuse:
tutti je fanno l’occhi dorci; e ttutti
vedeno er torto in lei doppo le scuse.
Guardàmo li gattini, amico caro.
Li ppiú bbelli s’alleveno: e li bbrutti?
E li poveri bbrutti ar monnezzaro.
20 ottobre 1834

Italiana con fiori (part.,P.Orlov 1812-1865)Versione. Che gran dono di Dio è la bellezza! Devi considerarla più importante del denaro: perché la ricchezza non dà la bellezza, ma con la bellezza si acquista la ricchezza. Una chiesa, una vacca, una ragazza, se è brutta non si guarda e si disprezza: e Dio stesso che è un pozzo di saggezza, la madre che si scelse la volle bella. La bellezza non trova porte chiuse, tutti le fanno gli occhi dolci; ma tutti vedono in lei il torto dopo le scuse. Guardiamo i gattini, amico caro. I più belli si allevano: e i brutti?  I poveri brutti nell’immondezzaio.

E’ uno dei celebrati sonetti del Belli. Inno alla bellezza che si chiude con la solita sorpresa, un po' brutale, ma velata di commiserazione per i poveri brutti gattini, condannati dal loro aspetto. Una specie di soluzione finale un po' hitleriana nei confronti di chi non fa parte della razza eletta dei belli. Ci ricorda anche qualche episodio del film "Siamo uomini o caporali?", quando Totò, povero e brutto, si presenta per fare teatro, con la sua bella partner, agli americani liberatori nel 1945, e viene ripetutamente rifiutato, maltrattato e quasi cacciato dal "caporale" di turno,  che invece fa gli occhi dolci alla bellona che ottiene immantinente la scrittura.

Non può mancare nel Belli una serie interminabile di accostamenti tra la classe dominante dei preti e la bellezza delle donne. Uno per tutti è il sonetto:

LA BBELLEZZA DE LE BBELLEZZE 
Ce ponn’èsse in ner monno donne bbelle,
ma un pezzetto de carne apprilibbato
come la serva nòva der Curato
nun ze trova, per dio, drent’a le stelle.
Nun te dico er colore de la pelle
piú ttosta assai d’un tamburro accordato:
nun te parlo de chiappe e dde senato
che tt’appicceno er foco a le bbudelle.
Quer naso solo, quela bbocca sola,
queli du’ occhi, sò rrobba, Ggiuvanni,
da fàtte restà llí ssenza parola.
Si è ttanta bella a vvédela vistita,
Cristo, cosa sarà sott’a li panni!
Bbeato er prete che sse l’è ammannita!
11 dicembre 1834

Vera trasteverina (B.Pinelli, elaboraz computer N.Valerio)Versione. Ci possono essere al mondo donne belle, ma un pezzetto di carne prelibato come la serva nuova del curato non si trova, per Dio, nel firmamento. Non ti dico il colore della pelle più soda assai di un tamburo accordato: non ti dico delle natiche e del seno, che ti accendono il fuoco alle budella. Quel naso solo, quella bocca sola, quei due occhi, sono cose, Giovanni, da farti restare senza parola. Se è tanto bella a vederla vestita, Cristo, cosa sarà sotto i panni! Beato il prete che se la gode!

Da notare che il soggetto che si pappa una tale bellezza non è un monsignore o un cardinale, ma un semplice curato, che nell’esercito della teocrazia che comandava a Roma nel regno del Papa poteva essere tutt’al più un “caporalmaggiore”, Notiamo anche che il Belli si concede, nella lode per la bellezza della serva nuova, un paio di bestemmie, tipico riempitivo entusiastico nel parlare del popolino di Roma e anche del suo contado.

Ma poi il nostro poeta, per tragico contrappasso, fa un uso antifrastico della bellezza in un altro sonetto con lo stesso titolo:

LA BBELLEZZA
Viè a vvéde le bbellezze de mi’ Nonna.
Ha ddu’ parmi de pelle sott’ar gozzo:
è sbrozzolosa come un maritozzo
e trittica ppiú ppeggio d’una fronna.
Nun tiè ppiú un dente da maggnasse un tozzo:
l’occhi l’ha pperzi in d’una bbúscia tonna,
e er naso, in ner parlà, ppovera donna,
je fa cconverzazzione cor barbozzo.
Bbracc’e ggamme sò stecche de ventajjo:
la vosce pare un zon de raganella:
le zinne, bborze da colacce er quajjo.
Bbe’, mmi’ nonna da ggiovene era bbella.
E ttu dda’ ttempo ar tempo; e ssi nun sbajjo,
sposa, diventerai peggio de quella.
2 novembre 1833

Italiana (Michail Scotti 1814-1861)Versione. Vieni a vedere le bellezze di mia nonna. Ha due palmi di pelle sotto il mento: è bernoccolosa come un maritozzo [tipico panino lievitato romano con uvetta] e tremola peggio che fosse una fronda [mossa dal vento]. Non ha più un dente per mangiare un tozzo di pane: gli occhi sono persi dentro occhiaie profonde, e il naso nel parlare gli fa  conversazione con il mento. Braccia e gambe sono stecche di ventaglio: la voce sembra quella di una ranocchia: le mammelle borse da colarci il quaglio. Ebbene, mia nonna da giovane era bella. E tu dà tempo al tempo e se non sbaglio, donna, diventerai peggio di quella.

Altro che bellezza ! Spietato commento sulla sua caducità, vedi l'articolo sul sonetto "L'eta' delle donne". Riprendiamo per analogia una quartina del sonetto Madama Lettizzia sulla decadenza del potere e della bellezza. Letizia Bonaparte era la madre di Napoleone e viveva a Roma, quasi in esilio, dopo i fasti dell'impero napoleonico, ridotta ad una specie di larva umana.

MADAMA LETTIZZIA 
. . . sta sopr'a un canape', povera vecchia,
impreciuttita lì peggio d' un osso;
e ha più carne sto gatto in d'un orecchia
che tutta quella che lei porta addosso . . .
8 settembre 1835

Versione. Sta sopra un divano, povera vecchia, rinsecchita peggio di un osso; e ha piu carne questo gatto in un'orecchio che tutta quella che lei ha addosso…

Ritratto di vecchia (elaboraz. da P.Vergine 1800-1863)Ma torniamo ai canoni della bellezza, che non sono cambiati molto dai tempi del Belli ad oggi. Allora la moda imponeva alle donne borghesi e aristocratiche, da una parte sederi finti e dall'altra stecche di balena per stringere la "guépière" e tirar sù il seno. Oggi c’è il chirurgo estetico che taglia e cuce a seconda delle esigenze.
Allora come oggi la bellezza serve alle donne per fare carriera, o meglio, un tempo la bellezza muliebre poteva servire al marito per fare carriera, mentre l'emancipazione femminile oggi consente di mercanteggiare direttamente la bellezza e la giovinezza del corpo con la carriera in politica, all'Università, in grandi aziende di Stato, dove talvolta mogli e mariti occupano in modo un po' spregiudicato le posizioni di vertice.

IMMAGINI. 1. Giovane donna (libera elaboraz da Bathsheba di Drost). 2. Giovane donna romana al Carnevale (part., A.Mokeizkij). 3. Italiana con fiori (part., P.Orlov). 4. Giudicata con gli occhi di oggi la popolana romana dell’800 forse non era propriamente una “bella donna”. Ecco lo sguardo fiero e superbo di una “vera trasteverina”, come riporta l titolo dell’incisione, probabilmente una minente con i suoi tipici orecchini vistosi o “scioccaje” (elaboraz. da B.Pinelli). 5. Per contrasto, l’ideale romantico ed elevato di bellezza toccò nell’800 le donne dell’aristocrazia e dell’alta borghesia (Michail Scotti, 1814-1861). 6. Ritratto di vecchia (elaboaz. da P.Vergine). Anche lei, come madama Letizia, è stata giovane e bella!

AGGIORNATO IL 17 FEBBRAIO 2015

12 aprile 2011

Santaccia di piazza Montanara, la mitica puttana di buon cuore.

Ogni ragazza è seduta sulla sua fortuna, e non lo sa", sosteneva con capitalistico senso pratico e un po’ di ingenua eleganza verso il suo sesso Nell Kimball, autrice di Memorie di una maitresse americana, che di giovani prostitute ne aveva allevate migliaia. E, come vedete, non parlava del viso o della bellezza delle ragazze.

In realtà, diciamocelo in un orecchio, quale giovane donna, sia pure abitante nel più sperduto villaggio, ignora che il suo corpo, per quanto imperfetto, è capace di accendere il desiderio di qualche uomo, e che da questo desiderio può trarre facilmente vantaggio? Le elegantissime "hostess", le diciottenni "escort" alla moda che oggi riempiono le cronache perfino politiche e che, se incontrano il ricco imprenditore o il vecchio politico, riescono a guadagnare in una notte anche centinaia di migliaia di euro, addirittura un appartamento, non l’hanno saputo certo dalla Befana che il proprio sesso può fare miracoli, più d’un lungo e aleatorio cursus honorum.

"Tira più un pelo di fica che un carro di cento buoi" disse un contadino volgare ma sapiente. In mancanza di altre doti, s’intende, che però hanno il difetto di richiedere lunghe e opinabili dimostrazioni. Se poi la ragazza è anche bella, il colpo d'occhio, la valutazione estetica ictu oculi, hanno la meglio sempre: sono una eccellenza evidente. E sì, perché la sottile arte del piacere, l’abilità di conservare o migliorare la sensualità nel tempo, sono spesso doti superiori alla capacità di tradurre dal greco antico o di imparare a memoria qualche libro, segno indubbio di intelligenza, del "divino" che è in noi, come avevano capito bene i giudici di Atene davanti alla etèra Frine nuda. Giustamente, avevano la prova provata che un Logos, un Dio era dalla sua parte. Ecco perché in un articolo ho sostenuto che una modella, una cover-girl, una escort, è molto meglio, perfino sul piano etico ed intellettuale, dell’arcigna professoressa moralista che la critica.

Ma la prostituta non è certo più bella delle altre donne, anzi. E il suo mestiere in una città poverissima, com’era Roma al tempo dei Papi-re, non era tutto rose e fiori, come quello di certe escort di oggi. Altro che "filles de joie", ragazze di gioia. Forse la davano, ma non la ricevevano. I parroci, che nel ‘700 tenevano l’anagrafe, schedavano i neonati lasciati dalle meretrici alla ruota dei conventi o sul sagrato delle chiese, come "f. di m. ignota". Da cui la deformazione latino-romanesca di "mignotta". Neanche passeggiatrici, tantomeno peripatetiche, termine colto e filosofico (che la dice lunga su chi era in grado di andare a puttane) visto che nel Peripatos passeggiavano Aristotele e i suoi allievi! Infatti alle ragazze "facili" era vietatissimo deambulare mettendosi in mostra, e perfino, in certi periodi, affacciarsi alla finestra.

A Roma fare la puttana era spesso la scelta obbligata di povere ragazze senza arte né parte, talora bruttine di viso ma forti e grandi di corpo, con grandi sederi e grosse cosce (questi i gusti della clientela dell’epoca), immigrate dalla campagna, schedate fin da quando varcavano le porte di Roma, sottoposte dagli uffici del Vicario a mille restrizioni e umiliazioni, ma tutto sommato tollerate con benevolenza visto che i loro più assidui e generosi clienti erano monsignori e cardinali. Era grazie a loro, oltre ai pochi e danarosi turisti stranieri (Montaigne e Goethe, però, scrissero che le romane erano brutte) e a qualche commerciante di passaggio, che riuscivano ad evitare di morire di fame. Non tutte avevano la fortuna di poter vivere o lavorare, sia pure in una stanzetta, che spesso era una stamberga, nel privilegiato" quartiere delle luci rosse", come abbiamo scritto in un articolo su piazza di Spagna.

Santaccia, mitica figura di prostituta popolare, personaggio reale di cui il popolino romano conservava ancora memoria ai tempi del Belli, doveva essere, appunto, una di queste ex-giovani immigrate dal circondario (era di Corneto, come si chiamò fino al secolo scorso Tarquinia) che non avevano mai fatto fortuna.

Condannata, o perché poco bella o troppo rustica, a frequentare piazza Montanara, la piazza più colorita e animata di Roma, tra le pendici del Campidoglio e i resti del Teatro Marcello, Santaccia era – scrive il Vigolo – "un'infima Taide, che esercitava il suo commercio en plein air, sulla piazza presso il teatro di Marcello". Ma era diventata così abile con i suoi clienti che il Belli la definisce una che sa "dare il resto", cioè sa trattare, sa dire il fatto suo a chiunque.

Altro che piazza, era un vero théatre de vie, piazza Montanara, così chiamata per una nobile famiglia Montanari. Ogni mattina si trasformava in un brulicante e maleodorante ritrovo di braccianti agricoli, giardinieri, operai a giornata, servette contadine, venditori ambulanti, cavalli, ortaggi, carri di merci, carretti a mano, legumi secchi, formaggi, balle di fieno, letame, scrivani, artigiani, curiosi, preti, nullafacenti, giocatori di "tre carte", truffatori, e bellimbusti rugantini "in cerca di rogna". Le guardie dei Capo-rioni dovevano starsene ben lontane, se tenevano al quieto vivere.

Di questa piazza, non bella ma tipica della Roma dei Papi, distrutta per aprire la via del Mare negli anni ’20, di cui resta il toponimo nel brevissimo "vicolo Montanara" che immette in piazza Campitelli, pubblichiamo qui due belle immagini.

Ma in piazza Montanara, con i poveri prestatori "d’opera", come li chiama il fotografo e pittore E. Roesler Franz, la povera anche se esperta Santaccia non poteva certo sperare di arricchirsi. Aveva perciò inventato un singolare e perfino acrobatico metodo industriale, una letterale "catena di montaggio" – passateci il doppio senso – di stampo taylorista, per poter fornire a quattro clienti tutt’insieme, ad un prezzo pro-capite molto basso, quelle prestazioni che se concesse ad un cliente solo per volta sarebbero state troppo care e quindi fuori mercato.

Oggi c’è il car sharing: perché una sola automobile per un solo passeggero, quando potrebbe soddisfarne quattro con minima spesa e inquinando meno? Ecco, col medesimo senso del risparmio, con la stessa logica ecologica, la Santaccia, antesignana senza saperlo delle attuali donne laureate alla Bocconi in economia e psicologia del mercato, aveva inventato il "sex sharing" intelligente. Il suo slogan avrebbe potuto essere: "perché far godere uno solo ad alto prezzo, quando si può, col medesimo ricavo totale, far godere quattro persone a basso prezzo?" Grande copywriter. Che poi, se ci pensate bene, è stata per decenni la logica della Ford negli Stati Uniti e della Fiat in Italia.

Vista la povertà dei suoi frequentatori, piazza Montanara era dunque un mercato economicissimo, frequentato anche dai romani degli altri rioni che qui convenivano per risparmiare. Tra le tante osterie, per esempio, la locanda "der Bujaccaro" offriva per un baiocco un minestrone fumante che rinvigoriva. E un baiocco appena vi sarebbe costata anche la Santaccia, se vi foste adattati a condividerla per dividere le spese con altri tre rozzi sconosciuti, sicuramente non olezzanti di menta e rosmarino, dietro un muro, una colonna romana, o nella penombra aleatoria d’un sottoscala o cortile. Che tempi:

SANTACCIA DE PIAZZA MONTANARA
Santaccia era una dama de Corneto
da toccà ppe rrispetto co li guanti;
e ppiú cche ffussi de castagno o abbeto,
lei sapeva dà rresto a ttutti cuanti.
Pijjava li bburini ppiú screpanti
a cquattr’a cquattro cor un zu’ segreto:
lei stava in piede; e cquelli, uno davanti
fasceva er fatto suo, uno dereto.

Tratanto lei, pe ccontentà er villano,

a ccorno pístola e a ccorno vangelo
ne sbrigava antri dua, uno pe mmano.
E ppe ffà a ttutti poi commido er prezzo,
dava e ssoffietto, e mmanichino, e ppelo
uno pell’antro a un bajocchetto er pezzo.
12 dicembre 1832

Versione. Santaccia di piazza Montanara. Santaccia era una donna di Corneto [ora Taquinia, ma anche nel doppio senso popolaresco di paese di chi "mette le corna" e di prostitute] da trattare per rispetto con i guanti, e più ancora che fosse di castagno o abete [legni molto resistenti] sapeva trattare chiunque. Prendeva i villani più spacconi a quattro a quattro, con un suo segreto: lei stava in piedi, e quelli, uno davanti faceva il fatto suo, uno dietro. Nel frattempo, per accontentare il villano, a cornu epistulae e a cornu evangeli [il lato dell’Epistola e il lato del Vangelo, i due lati dell’altare della Messa dove legge il sacerdote officiante: come dire destra e sinistra] ne sbrigava altri due, uno per mano. E per fare a tutti un prezzo basso dava didietro, mani e pelo, uno per l’altro, a un baiocchetto al pezzo.

Bellissimo quel verso che volgarizza il linguaggio ecclesiale, e dice "destra" e "sinistra" come li direbbe sull’altare un prete che dice messa. Molto apprezzato dai sacerdoti romani che amano il Belli, visto che l’abbiamo trovato commentato nel sito "Messa in latino". Sempre nel gioco comico belliano di passare rapidamente dal basso all’alto, e viceversa.

Ma nel mito di Santaccia, come per molte prostitute, c’è la pietà umana, oltre alla religione superstiziosa e al rito dei defunti. Generosa del suo corpo fino al punto di darlo (di darne una parte, magari piccolissima) gratis, per pietà tipicamente femminile, anche al giovane così povero da non potersi permettere neanche un baiocco. E con una motivazione "pia" che sorprende, e fa da acme, in un crescendo umoristico, proprio alla conclusione del sonetto.

SANTACCIA DE PIAZZA MONTANARA

A pproposito duncue de Santaccia
che ddiventava fica da ogni parte,
e ccoll’arma e ccor zanto e cco le bbraccia
t’ingabbiava l’uscelli a cquarte a cquarte;
è dda sapé cc’un giorno de gran caccia,
mentre lei stava assercitanno l’arte,
un burrinello co l’invidia in faccia
s’era messo a ggodessela in disparte.
Fra ttanti uscelli in ner vedé un alocco,
"Oh", disse lei, "e ttu nun pianti maggio?"
"Bella mia", disse lui, "nun ciò er bajocco".
E cqui Ssantaccia: "Aló, vvièccelo a mmette:
sscéjjete er búscio, e tte lo do in zoffraggio
de cuell’anime sante e bbenedette".
12 dicembre 1832

Versione. Santaccia di piazza Montanara. A proposito, dunque, di Santaccia, che diventava fica da ogni parte, e con un lato e con l’altro [arma e santo erano per tradizione il dritto e rovescio delle monete dei Papi, come testa o croce per le monete dei Savoia, con cui giocavano in strada i ragazzi del popolo] e con le mani, prendeva uccelli a quattro a quattro, bisogna sapere che un giorno che aveva grande lavoro, mentre stava esercitando l’arte, un burinello col desiderio in faccia si era messo a godersela in disparte. Tra tanti uccelli, nel veder un allocco lei disse: "Oh, e tu non pianti maggio?" ["piantar maggio": antica tradizione di piantare a maggio nel terreno, come simbolo beneaugurante di fertilità, un albero nudo, o meglio un lungo tronco vivo ma senza foglie. Chiara allusione sessuale, sia nella tradizione che qui]. "Bella mia", disse lui, "non ho un bajocco". E Santaccia: "Sù, vieni a mettercelo: scegliti un buco, e te lo dò in suffragio di quelle anime sante e benedette" [dei defunti].

La dedica "in suffragio" che fa la sordida Santaccia, e proprio mentre vende il suo corpo nel modo più abietto, secondo l’uso cattolico delle "intenzioni" per alleviare le pene del Purgatorio dei defunti, o per invocare i Santi, qui mescolate, è un contrasto che più che muovere al riso commuove il lettore.

Insomma, nell’ambiguo e cattolicissimo Belli-dr.Jeckill, in cui il mister Hide segreto decide di incarnare tutte le geniali bassezze della plebe romana come rivalsa contro una vita mediocre e disperata, non deve stupire la compenetrazione tra sacro e profano, o comunque tra registro alto e basso. E’ uno dei filoni più efficaci dei Sonetti belliani. E qui, in particolare, a proposito dei due sonetti su Santaccia – scrive il Vigolo con la sua solita prosa romantica e oscura – "la contaminazione del sacro e dell'erotico raggiunge una specie di "ratto verso il basso" non altrove superato e che sarebbe intollerabile se non vi corresse attraverso come il guizzo di una ambigua illuminazione".

Ma se vi piace questo stile aulico e ottocentesco (ne dubitiamo) entro cui il Vigolo stringe la sua critica ai due sonetti di Santaccia, ce n’è ancora. Così finiamo in pieno neoclassicismo romantico: mai la povera Santaccia, e nemmeno il Belli, avrebbero immaginato di suscitare con le loro opere tali parole:

"È turpe e funebre ma patetico quanto non si può dire. "Un sacrifice à Priape sur un tombeau", dice Stendhal nelle Promenades dans Rome, a proposito di una scultura pagana ,"et de jeunes filles jouant avec le dieu! Il y a loin de là à l'idée d'une messe pour les morts".

"Il sonetto belliano di Santaccia – continua il Vigolo nella sua pesante prosa romantica - sembra indirettamente rispondere che, per quanto lontani, i due fatti possono essere avvicinati nell'insania satiresca del ditirambo comico: e per il suo miscuglio di sacro, di erotico e di funebre, come un nero vino conciato di elleboro e di incenso da versare in terra in un brindisi agli dei infernali, quante volte la poesia del Belli di questo periodo non fa pensare davvero a un "sacrifice à Priape sur un tombeau"!

"Ma qui il satiro romanesco sembra gareggiare con se stesso di empietà e di scurrilità, e si spinge tanto oltre da toccare un limite in cui i motivi piú opposti tendono a risolversi, a tramutarsi l'uno nell'altro in una identità primigenia, elementare.
"E non si può dire che questa Eva miseranda uscita dalla costola del poeta piombato nel piú profondo sonno, sia soltanto lubrica e blasfemante. V'è alla fine, e nel modo piú inaspettato, un improvviso sgorgare di pietà e di tenerezza. Invece che un sorriso tra le lagrime, diresti che una lagrima fugga via fra l'osceno riso del mascherone democritèo.

"Già l'apparire del "burrinello" ("burrini" chiamavano questi rozzi braccianti agricoli per lo piú romagnoli) che resta "in disparte" a guardare il piacere degli altri, porta nella scena una prima incrinatura dolorosa. L'espressione "in disparte" è struggente perché esprime il senso della esclusione e della malinconia.

"Da ciò la pietà della donna e insieme un intenerimento materno per il giovinetto, misto a una solidarietà, nella miseria, col piú povero, tuttavia celata, dissimulata - e questo è il tratto che va piú a dentro nella verità - sotto la meno consueta forma di pudore e dove tutto fuori che il pudore ci si aspetterebbe. Ma il pudore del sentimento, della pietà, dell'amore, è piú tenace, anche negli esseri piú avviliti e corrotti, ed anzi proprio in essi, che non il pudore fisico; e qui insieme al pudore vedrei anche l'onore, l'onore professionale della prostituta, alla quale parrebbe di essere da meno di se stessa e di mancare ai doveri di casta (noblesse oblige), se mostrasse di darsi per nulla a un ragazzotto.

"Perciò la soluzione di darsi in suffragio, che può vedersi anche dettata dall'abito di una sottile casistica e di una fede cieca nell'aldilà in una donna che per questo forse era chiamata Santaccia, e cioè una santa di mal affare, - una bizzoca pure nel mal costume, - questa soluzione per cui, rinunciando al compenso materiale, ella se lo accredita nei lucri spirituali delle opere buone nell'oltretomba, concilia con pratico senso di carità e di invincibile attaccamento al guadagno una quantità di cose, le permette di fare un contrabbando del suo stesso bisogno di amore, di affetto sotto una offerta pia; e infine, ciò che è piú singolare, fa approdare tutto questo groviglio di contraddizioni a un atto di fede, l'affermazione di una credenza assoluta nel mondo degli spiriti e dei compensi trascendenti.

"Certo in pochi sonetti del Belli si rimane alla fine così sconcertati: poiché il fondo demoniaco del poeta viene qui fuori in uno dei suoi aspetti piú sibillini e ambivalenti, lanciando attraverso il ditirambo comico e il distacco turpe dell'oggetto, un amo che pesca molto a fondo in quella infima materia e inferna sottorealtà, che è poi qui anche substantia: l'irrazionale, ma anche cosmica sostanza dell'umano”.

"Come nei vecchi drammi satireschi, una strana, irreale luce mistica si irraggia su codesto basso mondo del comico, caduto in pezzi nella atroce incoerenza; essa forma un'aureola intorno al deforme e barbuto viso del semidio con le cosce di capro, e gli occhi di santo - splendenti dell'amore immenso che vorrebbe ricostituire la spezzata, lacerata unità del mondo - gli si empiono di lagrime". (G. Vigolo, Saggio sul Belli. Introduzione ai Sonetti 1952)

IMMAGINI. 1. In mancanza di immagini plausibili, un ritratto femminile che esprime insieme carnalità, durezza di tratti e bonomia può ben essere assunto come simbolo analogico del personaggio del sonetto belliano (ritratto di F. de Nicola, elaborazione al computer di N.Valerio). 2. Attorno alla fontana di piazza Montanara brulicante di umanità (xilografia di A.Closs). 3. La piazza intera, con le rovine del teatro romano di Marcello in fondo (incisione di G.Vasi). 4. Alcuni "burini" o prestatori d'opera di piazza Montanara (da una foto di E.Roesler Franz).

3 marzo 2011

Quel pazzo Carnevale romano, amato da tutti, ma non dai Papi

“Il Carnevale a Roma non è una festa data al popolo, ma una festa che il popolo dà a se' stesso. Il Governo non
fa né preparativi né spese. Non illuminazioni, non fuochi artificiali, non processioni splendide, ma un semplice segnale che autorizza ciascuno ad essere pazzo e stravagante quanto gli pare e piace, ed annunzia che, salvo le bastonate, e le coltellate, tutto è permesso. . . Soprattutto le ragazze e le donne ne approfittano per spassarsela a loro gusto". Cosi scriveva il Goethe, poeta e romanziere germanico, alla fine del '700 durante il suo viaggio, e lunghissimo soggiorno, in Italia.
E' dalla notte dei tempi che il Carnevale romano rappresenta la festa piu' popolare e indiavolata del mondo. Il volgo si scatenava nella Roma antica quando i potenti dell'epoca concedevano che "semel in anno licet insanire" una volta nell'anno e' lecito folleggiare, pensiero espresso da Lucio Anneo Seneca nel "De Senectute". Il significato del verbo “insanire” sembra doversi rintracciare in quelle feste in cui si capovolgeva l'ordine gerarchico della vita normale, facendo servire i padroni e banchettare i servi.
Anche Orazio e perfino Sant' Agostino sottoscrivevano le follie del Carnevale. Nella Roma di 2.000 anni fa pero' il nome Carnevale non esisteva e questo "insanire" si scatenava durante le feste dei "Saturnalia" in onore di Saturno, il padre degli dei, alla fine del mese di Dicembre, periodo dell' attuale Natale.
Le alchimie della religione cristiana hanno poi rimescolato e rinominato tante se non tutte le feste pagane, declassato e appioppato l' "insanire" dei “Saturnalia” con il nome di Carnevale, a meta' dell'inverno con un farraginoso meccanismo che lo lega alla penitenza della Quaresima e quindi alla Pasqua che e' una ricorrenza mobile.
Il Papato ha comunque dovuto poi tollerare questa ricorrenza di origine pagana, che consentiva, ”semel in anno”, al popolo di esprimere la sua voglia di vivere in liberta', nell' anonimato delle maschere, quasi sempre con corredo di sberleffi e derisione contro il Governo teocratico.
Durante il Carnevale il Cardinale Vicario (che vigilava sui costumi con una lunga gerarchia di monsignori, preti, spie e sbirri, fino ai parroci che avevano funzioni di polizia) doveva "abbozzare" sulle liberta' sessuali che "semel in anno" si sfogavano a tutti i livelli sociali. Tanto che nove mesi dopo le mammane - le levatrici - non sapevano piu' a chi dare il resto, come descrive il Belli con l' istruttivo dialogo del sonetto:
LA MAMMANA IN FACCENNE
«Chi ccercate, bber fijjo?» «La mammana».
«Nun c’è: è ita a le Vergine a rriccojje».
«Dite, e cquanto starà? pperché a mmi’ mojje
je s’è rrotta mó ll’acqua ggiú in funtana».
«Uhm, fijjo mio, quest’è ’na sittimana
che jje se ssciojje a ttutte, je se ssciojje.
Tutte-quante in sti ggiorni hanno le dojje:
la crasse arta, la bbassa e la mezzana».
«E cche vvor dì sta folla?» «Fijjo caro,
semo ar fin de novemmre; e ccarnovale
è vvenuto ar principio de frebbaro.
Le donne in zur calà la nona luna
doppo quer zanto tempo, o bben’o mmale
cqua d’oggni dua ne partorissce una».
31 gennaio 1837
,
Versione. La levatrice affaccendata. "Chi cercate, bel figliolo?" La levatrice". "Non c'e': e' andata a via delle Vergini per un parto". "Dite, e quanto stara'? perche' a mia moglie si sono rotte le acque giu' in fontana". "Uhm, figlio mio, questa e' una settimana che si scioglie a tutte, si scioglie. Tutte quante in questi giorni hanno le doglie: la classe alta, la bassa e la media". "E che vuol dire questa folla (di partorienti)?" "Figlio caro, siamo alla fine di novembre; e carnevale e' venuto al principio di febbraio. Le donne alla fine del nono mese dopo quel santo tempo (del carnevale), o bene o male qua (a Roma) ogni due ne partorisce una.
.
E veramente in una societa' repressiva, pruriginosa e bigotta come quella imposta nel regno del Papa, era l' unica occasione di liberarsi per una settimana da tutte le regole, l'unica "vacanza" per il volgo romano. A cui partecipava pero' anche tutta la citta' con i nobili, i pochi borghesi e perfino il clero. Tutti, proprio tutti, partecipavano allo sfrenato carnevale romano, senza ritegno alcuno, nascosti dietro la maschera. Liberta' sessuale, sopratutto per le "zitelle", come erano dette le ragazze da marito e in presunto stato di verginita'. Storicamente verosimile il gustoso quadretto dipinto nel film "Il Marchese del Grillo" quando la giovane moglie di un nobile un po' debosciato, durante il carnevale per le strade di Roma si allontana dal suo gruppo per adescare un popolano e farsi una bella scopata in un portone. Nessuna meraviglia poi per la ressa di partorienti dopo i fatidici nove mesi.
Il momento culminante era comunque il martedì grasso al Corso, la strada era il palcoscenico del Carnevale romano, dal tramonto si accendeva “un fiume di fuoco” per l’esplodere della festa dei moccoletti. Alla luce di candele di tutte le fattezze e dimensioni, di lampioncini di carta trasparente accesi sui palchi, sulle finestre, sui balconi e tra carrozze illuminate da candelabri, un’enorme folla in maschera si riversava al Corso e nelle strade limitrofe per celebrare la fine del Carnevale in un crescendo indiavolato di balli, canti e scherzi che sovente si trasformavano per un nonnulla in liti e risse anche cruente.
Ogni romano in mezzo a una confusione indescrivibile, che annullava ogni differenza di classe e di censo, aveva tra le mani o sul cappello oppure in cima a una canna un lumino, cercando di mantenerlo acceso e nel contempo cercando di spegnere quello del suo vicino al grido: “Morammazzato chi non aregge il moccolo!”. Anche dalle finestre e dai balconi del Corso si partecipava a questa battaglia dei moccoletti calando dei panni bagnati con cui spegnere le candele della folla sottostante.
Giggi Zanazzo nelle "Tradizioni popolari romane" scriveva:
"L’urtimo ggiorno de Carnovale ammalappena sonava l’Avemmaria (anticamente sparava puro er cannone), tutti quelli che sse trovaveno p’er Corso, sii a ppiede, sii in carozza, sii a ccavallo, sii a le finestre, accennéveno li moccoletti. Poi co’ le svèntole, co’ li mazzettacci de fiori, o co’ le cappellate, ognuno cercava de smorza’ er moccolo all’antro, dicènno: - Er móccolo e ssenza er móccolo!- Avevi voja, pe’ ssarvallo, de ficcallo in cima a una canna o a un bastone, o a fficcatte in un portone! Era inutile. Tutti te daveno addosso; e o ccor un soffietto, o ccor una svèntola o cco’ ’na manata o ’na mazzettata te lo smorzaveno in ogni modo, urlanno: - Er móccolo e ssenza er móccolo; abbasso er móccolo!".
Il carnevale, che per secoli costituì motivo di ammirato stupore per gli stranieri del “Viaggio in Italia”, con tante bellissime immagini lasciate dai pittori in visita a Roma, moriva con l’ultimo moccolo che si spegneva, ma con la robusta appendice di una cena rigorosamente di grasso nelle osterie fino a mezzanotte in punto, una delle tante "cene a punta d' orloggio", come scriveva in un sonetto il Belli:
.
Pe’ mmé vvojjo annà a lletto a ppanza piena
e pprima me darìa la testa ar muro
che cchiude un carnovale senza scena
.
Ma prima della battaglia dei moccoletti si svolgeva la corsa dei barberi, cavalli senza cavaliere che dalla “smossa” a piazza del Popolo correvano fino alla “ripresa” di piazza Venezia. C'erano poi i carri allegorici che venivano allestiti dalla famiglie della nobilta' papalina, la cosidetta nobilta' nera, e talvolta anche a cura di famiglie di altri Stati d' Italia, con una ricchezza e uno sfarzo inimmaginabili ai giorni d'oggi, anche perche' spesso erano proprio i nobili stessi a impersonare il protagonista della allegoria prescelta. Grandissima era la partecipazione popolare con lucrosi affari per il noleggio di finestre, balconi e perfino sedie sui marciapiedi rialzati e negli affacci dei portoni sul Corso.
Storicamente il Carnevale romano dei tempi del Belli trae le sue origini dalle medioevali tauromachie e tornei di cavalieri a piazza Navona, allora platea in Agone.
Successivamente si hanno testimonianze de “la ruzzica de li porci” a Monte Testaccio, presso il confine sud-ovest dell'allora confine urbano; qui, oltre ai divertimenti già citati, si praticava una tradizione piuttosto cruenta. Dalla cima della collina artificiale venivano fatti rotolare carretti con a bordo maiali vivi. Nella corsa i carri si rovesciavano e si fracassavano, mentre a valle si radunava una gran folla che si contendeva gli animali in una gigantesca mattanza.
Si deve arrivare verso la meta' del '400 per la definitiva localizzazione del cuore del Carnevale romano al Corso, allora via Lata. Fu per iniziativa di Papa Paolo II, che essendo veneziano, colse l'occasione per inaugurare il suo nuovo Palazzo Venezia, appena terminato di costruire, dal quale poteva comodamente assistere alla “ripresa” della corsa dei cavalli barberi, beato lui!
E nel Corso si svolgeva una competizione bizzarra e decisamente crudele: una corsa lungo il rettifilo di via Lata a cui dovevano partecipare , di volta in volta, zoppi, deformi, nani, e anche ebrei anziani. Il popolo correva ad assistere e non risparmiava irriverenti battute ed il lancio di ogni sorta d'oggetti.
Clemente IX nel 1667 pose fine alla barbarie, che pero' fu sostituita dall'accollo a carico degli ebrei di gran parte delle spese del Carnevale insieme all'onta di una cerimonia ingiuriosa con la quale lo stesso si apriva. Il Rabbino Capo della comunità doveva andare in Campidoglio e inginocchiato davanti al Senatore e ai Conservatori di Roma, pronunciava un discorso di contrizione, al quale il Senatore rispondeva con le parole: “Andate! Per quest'anno vi sopportiamo”, rifilando al capo degli israeliti romani un calcio nel sedere.
I tempi erano decisamente cambiati all'epoca del Belli e l'occasione del Carnevale assumeva anche il ruolo di imprimere un enorme impulso all' asfittica economia della citta', con il noleggio delle maschere, la vendita dei confetti: piccoli proiettili di gesso colorato che si lanciavano reciprocamente le maschere e che si frantumavano creando variopinte macchie di colore un po' dapertutto e degli sbruffi, gli attuali coriandoli. Osti e locandieri poi erano indaffarati per le nominate cene pantagrueliche “a punta d'orloggio”, a cui nessun romano, o forestiero, voleva rinunciare. Le carrozze dei signori erano poi rivedute dal “facocchio” , l'antenato del moderno carrozziere, che le restaurava e addobbava per 'occasione, come recita il sonetto L’ordinazzione p’er Carnovale:
.
J’ho da annà dar facòcchio sott’all’arco,
pe vvisità li leggni e accommodalli:
poi da padron Cremente er maniscarco
pe rrimette li ferri a li cavalli. . . .
poi ggiú pp’er corzo a accaparrajje un parco:
ortre un antro ar festino pe li bballi. . .
15 febbraio 1847
.
Versione. Le ordinazioni per il Carnevale. Debbo andare dal carrozziere sotto l'arco per controllare le carrozze e aggiustarle: poi da padron Clemente il maniscalco per rimettere i ferri ai cavalli . . . poi giu' al Corso per prenotare un palco e anche un altro al festino per i balli...
.
Insomma tutta l'economia romana subiva una benefica iniezione energetica dalle attivita' che ruotavano intorno al Carnevale.
Il Carnevale a Roma era dunque un momento di pura e costosa follia collettiva, del popolo come delle classi elevate. Ma anche in altri paesi era celebrato con feste e intemperanze talvolta estremamente pericolose, fin dalla notte dei tempi. Vediamo cosa avvenne al Carnevale di Carlo VI re di Francia nel gennaio 1393 allorché, durante I festeggiamenti il re mascherato da orso insieme ad altri cinque nobili, vestiti in costume da selvaggi e incatenati l'uno all'altro stavano ballando. Una torcia dette fuoco all'abito di uno di essi e in pochi istanti, narrano le cronache, le fiamme divamparono e bruciarono vivi gli sventurati, fortunato a salvarsi fu proprio il solo Carlo VI.
I festeggiamenti a Roma non erano pero' affatto garantiti: ogni anno si doveva attendere l' editto del Papa che concedeva la licenza del loro svolgimento. In genere negli anni di Giubileo l'intero programma veniva soppresso e sostituito da celebrazioni liturgiche. Anche la morte di un papa poteva far sospendere le feste (ad esempio quella di Leone XII, nel 1829, costò ai romani il Carnevale di quell'anno).
Inoltre durante questi giorni molti papi temevano rivolte, perché la possibilità di circolare col volto coperto da maschere creava problemi di ordine pubblico. Quindi ogni scusa era buona per abolire le feste in costume. Ad esempio nel 1837 Gregorio XVI vieto' il Carnevale per il pericolo del colera come il Belli scrisse nel sonetto Er carnovale der '37 :
.
Oggi arfine per ordine papale
Cor protesto e la scusa der collèra,
Ma ppe un'antra raggione un po' ppiù vera
Er Governo ha inibbito er carnovale.
20 gennaio 1837
.
Ancora Gregorio XVI, temendo la presenza di liberali, carbonari e framassoni con i loro ricorrenti tentativi rivoluzionari, arrivo' a eseguire arresti preventivi di massa per scongiurare che i piu' noti facinorosi potessero attizzare le fiamme della sommossa. Come racconta il Poeta in quest'altro sonetto:
.
ER MEDICO DE ROMA
Un Medico bbruggnano ha vvisitati
scent’ommini, e ll’ha mmessi a lo spedale:
mica cche ssiino st’ommini ammalati,
ma ppe impedijje che nnun stiino male.
Potríano ammascherasse a ccarnovale,
e accusí, ddioneguardi, ammascherati
pijjasse una frebbaccia accatarrale,
e mmorí, ddioneguardi, accatarrati.
«Bbisoggna prevedelli li malanni»,
lui disce; «e a ttemp’e lloco un lavativo
conzerva er culo e ffa ccacà ccent’anni».
Sto dottore chi è? ccome se chiama?
Er nome nu lo so, ma sso cch’è vvivo
e sta ar Palazzo de Piazza Madama.
24 gennaio 1833
.
Versione. Il medico di Roma. Un medico Browniano (un tipo di medicina alternativa in voga ai primi '800) ha visitato cento uomini e li ha messi all' ospedale: non perche' questi uomini siano ammalati, ma per impedire che stiano male. Potrebbero mascherarsi a Carnevale e cosi, dio ne guardi, mascherati prendersi una febbraccia catarrale e morire, dio ne guardi, accatarrati. "Bisogna prevederli i malanni", lui dice "e a tempo e a luogo una purga conserva il culo e fa cacare cento anni". Chi e' questo dottore? come si chiama? Il nome non lo so, ma so che e' vivo e sta al Palazzo di Piazza Madama (il Palazzo della Polizia).
.
Strana consonanza, arresti preventivi e purghe, fra le procedure di polizia del Papa-re e del Duce del fascismo. E ancora nel 1834, quando si temevano divieti per le feste di Carnevale, (nell’anno precedente il Governo aveva vietato le maschere) in un altro sonetto il Poeta scrive:
.
Ce saranno le maschere quest’anno?
A me me dice er mozzo de Caserta
Che lui ha inteso a dì ppe cosa certa
Da ‘na spia amica sua, che ce saranno.
.
Poi, al solito, anche quell'anno ci furono limitazioni d'ogni tipo ai festeggiamenti. Con le consuete violente proteste del popolo.
.
IMMAGINI. 1. Ultima sera di Carnevale. I moccoletti dovevano essere tenuti bene in alto, perché non venissero spenti per gioco dalle altre maschere (A.Pinelli). 2. Le maschere più popolari a Roma all'epoca del Belli in un'antica stampa. Si noterà che, come per le carte da gioco, Roma era ed è priva, o quasi (il Rugantino è una maschera piuttosto tarda), di maschere sue, ma doveva e deve ricorrere alle varie maschere regionali italiane. Chi dice oggi, mentendo, che in Italia non c'era un sentimento unitario prima della proclamazione dell'Unità nel 1861, e poi dell'entrata in Roma dell'esercito italiano nel 1870, è smentito se non altro dagli usi popolari. Nel suo piccolo, il Carnevale, per esempio, aveva già unificato l'Italia. 3. Carnevale al Corso in un dipinto dell'800.
 
Creative Commons License
Il mondo del Belli di Nico Valerio & Paolo Bordini è protetto da licenza
Creative Commons Attribuzione 2.5 Italia License.
E' vietata la riproduzione senza riportare il nome dell'Autore dell'articolo, il titolo e il link del Blog. E' vietata la modifica, e l'utilizzazione per fini commerciali o per avvalorare tesi contrarie a quelle del mondodelbelli.blogspot.com.