18 novembre 2010

Piazza Navona e donna Olimpia, papessa e perfida “pimpaccia”.

IERI E OGGI. Oggi è bella solo quando è del tutto deserta, nelle fredde notti d’inverno battute dalla tramontana. Altrimenti ci fa un po’ vergognare, finta, turistica e volgare com’è, con la paccottiglia di plastica del cattivo gusto e i pessimi dolci sulle bancarelle di Natale, e i quadri kitsch per turisti stupidi che amano essere ingannati. Ci vorrebbe una nuova crudele Donna Olimpia per cacciare via non solo i mercanti di robaccia, ma anche i tanti turisti che la frequentano e l’insozzano, e non meritano le bellezze della piazza e del centro storico di Roma.
LA VERA PIAZZA DI ROMA. Eppure, nella città dalle cento piazze, dal Campidoglio a campo de’ Fiori, da piazza del Popolo a piazza Colonna, dalle più grandi alle più nascoste e piccole come cortili, una sola è stata la vera “piazza di Roma”, dove popolo, mercanti, preti e nobili hanno recitato ogni giorno mettendo in piazza la loro vita, la vita di Roma: piazza Navona.  Nella Roma dei papi descritta dal Belli la piazza fu sempre il luogo di giochi e divertimenti pubblici quali la cuccagna, la riffa, la tombola, e di spettacoli teatrali, giostre (storica fu una grandiosa edizione della giostra del Saracino) ed esibizioni di funamboli. Ma fu anche il luogo scelto dai nobili per esibirsi “passeggiando” in carrozza, e dal popolo minuto per incontrarsi, prendere appuntamenti, stipulare contratti o manifestare idee politiche e proteste. "Naturale" che in questo crocevia obbligato le guardie del Papa vigilassero in permanenza e ponessero un palco per le punizioni. A volte, come nel 1702, intervennero gli “sbirri” per sciogliere i capannelli di "coloro che volevano adunarsi per discorrere di novità". Sotto il Papa-re, come in tutte le dittature, le adunate non autorizzate erano vietate. Qui, ovviamente, durante i moti del Risorgimento, liberali esposero il tricolore in barba alla polizia.
INSIEME MERCATO E TEATRO. Ancora nel primo Rinascimento la piazza era un brutto e lungo campo in terra battuta (v. immagine n.5). Dal 1477 cominciò a tenervisi un affollato mercato quotidiano di frutta, verdura ed altri generi alimentari, e quello settimanale (al mercoledi) anche di utensili, cose vecchie, libri usati e lunari, questi ultimi molto di moda nell’Ottocento.
Lo spettacolo, quindi, era assicurato. Le erbe, i rigattieri e i cenciaioli ebrei col carretto, i contadini con le sporte di fichi e uva sull’asino, le ceste con le verdure e le uova, gli storpi, gli acrobati e i questuanti, le guardie civiche con gli alti chepì, il grido dell’arrotino, i cavalli, i nobili in carrozza, le balle di fieno accatastate accanto alle fontane, i preti con cappelloni e breviario, gli escrementi degli animali, il banchetto dello scrivano, il barbiere ambulante, i turisti inglesi e tedeschi col Baedeker in mano, il passeggio delle dame eleganti con l’ombrellino, i bambini a piedi nudi (ma anche i gelatai e cocomerai), il vociare delle popolane, i litigi e i tafferugli, i tavoli affollati delle trattorie, le feste, la musica all’aperto, la tombola (finiva sempre male, con feriti e arresti), le processioni, le maschere di Carnevale, le sfilate delle carrozze nell’acqua d’estate, il vedere e farsi vedere, l’incontrarsi, lo spettegolare, perfino il sadico spettacolo delle frustate in piazza (il palco del cavalletto eretto davanti a S.Agnese a perenne monito del popolo), tutto, insomma, ha dato forma alla rappresentazione realistica, colorita, insieme bonacciona e crudele, del popolo romano.
Nel 1651 papa Innocenzo X, Pamphilij, che aveva il più bel palazzo in piazza Navona, su consiglio della cognata Donna Olimpia, volle trasformare la piazza in un fondale di lusso per le passeggiate in carrozza dei nobili. Ordinò, perciò, di cambiare zona a “fruttaroli, regattieri, librai, et altri venditori di diverse robbe”, e molti ne mandò addirittura in prigione. Molte furono le proteste, represse con galera e torture. Tanto più che i costi dei dispendiosi lavori erano addossati sotto forma di pesanti tasse sul popolo. Il Belli dà un rapido bozzetto della piazza nel sonetto Piazza Navona:
PIAZZA NAVONA
Se pò ffregà Ppiazza-Navona mia
e dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna.
Cuesta nun è una piazza, è una campaggna,
un treàto, una fiera, un’allegria.
Va’ dda la Pulinara a la Corzía,
curri da la Corzía a la Cuccaggna:
pe ttutto trovi robba che sse maggna,
pe ttutto ggente che la porta via.
Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate:
cqua una gujja che ppare una sentenza:
cqua se fa er lago cuanno torna istate.
Cqua ss’arza er cavalletto che ddispenza
sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
e ccinque poi pe la bbonifiscenza.
Roma, 
1° febbraio 1833

Versione. Piazza Navona. Può ridersene, piazza Navona, di San Pietro e piazza di Spagna. Questa non è una piazza, è una campagna, un teatro, una fiera, un’allegria. Và da piazza S.Apollinare alla Corsia Agonale, corri dalla Corsia a via della Cuccagna: dappertutto troverai cose che si mangiano, dappertutto gente che le porta via. Qua ci sono tre fontane ritte come alberi: qua c’è una guglia [l’obelisco] che pare una sentenza: qua si fa il lago quando torna l’estate. Qua si alza il palco del cavalletto che dispensa a chi se l’è meritate trenta scudisciate sulle natiche, più cinque per la beneficenza.

AVEVA COMINCIATO DOMIZIANO. Se c’è stata, insomma, una piazza a Roma dove la vita si è fatta teatro quotidiano, questa è il lungo perimetro ricostruito sulle gradinate di quello che era nato proprio come un monumento allo spettacolo, sia pure sportivo, l’antico grande stadio di Domiziano. Era lungo 276 e largo 54 metri, e poteva contenere circa 30 mila spettatori, ed era dedicato all’atletica leggera e in particolare alle corse. Inaugurato nell’86 d.C. fu restaurato nel III sec. da Alessandro Severo. Con l’avvento del Cristianesimo moralista e oscurantista (non diversamente dall’islamismo di oggi), che disprezzava il corpo, il benessere fisico e l’igiene, lo stadio di Domiziano cadde in disuso, e i suoi marmi furono depredati per costruire chiese e palazzi. Già nel secolo XIII sulle sue gradinate cominciarono ad essere erette le prime abitazioni delle potenti famiglie baronali romane, che vennero a formare la “Platea (piazza) Agonale” o “in Agone”, dal greco agon (gara, lotta, competizione sportiva). Da “in agone” per deformazione del popolino, in tempi in cui non c’erano le targhe toponomastiche e i nomi venivano passati di bocca in bocca, divenne prima “nagone” e infine “Navona”. Ma le navi non c'entrano nulla. E proprio da quello Stadio, riccamente decorato con statue, viene la vicina statua cosiddetta del Pasquino, ciò che resta di un gruppo ellenistico che forse rappresentava Menelao che sorregge il corpo di Patroclo.
ERA UNA PIAZZA BRUTTA E SPORCA. Come si presentava anticamente piazza Navona? Fu mal tenuta, desolata e bruttina per secoli, come mostrano le antiche illustrazioni del Medioevo e del Rinascimento che la mostrano spoglia, ma anche qualche fotografia dell'Ottocento (v. foto in alto del 1870 ca). Era in origine un grande campo in terra battuta, concavo, senza monumenti artistici, ma due abbeveratoi per gli animali. Fu lastricata di mattoni nel 1485, selciata nel 1488, riportano alcune fonti. Soltanto dal 1870, a Italia unita, quando arrivarono i liberali piemontesi, fu coperta di sampietrini, munita di un rialzo centrale che la rese convessa (da concava che era). e di marciapiedi. Però la foto che riportiamo sotto il titolo (1870) ci mostra una piazza evidentemente sterrata e col fondo sconnesso: come si spiega? Erano forse in corso lavori per la nuova pavimentazione in sampietrini?
Nel Cinquecento vi fu trasferito il mercato delle erbe di campo de’ Fiori. E figuratevi il caos, le catapecchie e i tendoni dei mercanti (lo testimoniano varie stampe), i carri degli ambulanti, le brutture e la sporcizia. Finché non fu munita di tre semplici fontane non artistiche (papa Gregorio XIII Boncompagni), compreso un abbeveratoio per i molti animali che - non troppo diversamente dagli "animali" di oggi - la frequentavano.
Per secoli, dunque, piazza Navona è stata sporca, puzzolente, piena di rifiuti, di canestri e sporte, paglia, animali e resti di animali, degradata, con la sua prospettiva architettonica deturpata da tendoni, bancarelle e casupole. Chi la ripulì? Donna Olimpia. Per volontà della “crudele” donna Olimpia, che aveva ottenuto il palazzo Pamphilj in regalo dal cognato papa, e voleva fare della “sua” piazza il salotto della città, quasi un gioiello personale, il rumoroso e sporco mercato fu trasferito di nuovo a campo de’ Fiori. E fece bene. Capiamo la prepotente donna Olimpia che cacciò dalla piazza i mercanti, ortolani, contadini e macellai che animavano, ma insozzavano anche le belle fontane, con rifiuti e animali d’ogni sorta. Ma, come accade anche oggi, lo scontento “corporativo” di mercanti e popolo fu tale da obbligare i papi a ripristinare il mercato delle erbe, sia pure con inascoltate “severissime leggi” sull’igiene e il decoro della piazza. Fatto sta che il mercato a piazza Navona ci fu fino agli anni 60 del Novecento, quando la piazza era molto degradata, affollatissima e piena di automobili parcheggiate. Non vi si potevano ammirare né le fontane, né i palazzi. Evviva l’attuale isola pedonale!
Ai tempi del Belli era di nuovo “la piazza del mercato” più grande e rumoroso di Roma, che soprattutto al mercoledi si trasformava in una fiera caotica e multicolore dove si vendeva di tutto. Ma lo strano sonetto Er mercato de piazza Navona non parla di oggetti popolarissimi come scaldini, fusi, conocchie, scialli, berretti, seghe, martelli, casseruole e cùccume, e invece si concentra, pensate un po', sui libri, che i popolani ignoravano del tutto. Un'ennesima prova, questa volta di argomento e non di lingua, della differenza nel Belli tra "popolare" e "popolaresco", tanto da avvalorare la tesi che i sonetti non sono soltanto, come invece egli asserisce, un "ritratto della plebe", ma soprattutto l'autoritratto del Belli, erudito e piccolo-borghese, che scrive à la manière de, e si nasconde dietro il popolino romano:

ER MERCATO DE PIAZZA NAVONA
Ch’er mercoledì a mmercato, ggente mie,
sce siino ferravecchi e scatolari,
rigattieri, spazzini, bbicchierari,
stracciaroli e ttant’antre marcanzie,
nun c’è ggnente da dì. Ma ste scanzie
de libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,
che cce vienghen’ a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie?
Tu pijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppo
che ll’hai tienuto per cquarc’ora in mano,
dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.
Che ppredicava a la Missione er prete?
“Li libbri non zò rrobba da cristiano:
fijji, per ccarità, nnu li leggete”.

20 marzo 1834

Versione. Il mercato di piazza Navona. Che il mercoledi al mercato, amici miei, ci siano venditori di ferri vecchi e di scatole, rigattieri, spazzini, bicchierai, stracciaroli e tante altre mercanzie, non c’è niente da dire. Ma queste scansie di libri, e questi libracci e questi librai, che cosa vengono a fare? Cosa impari da tanti libri e tante librerie? Prendi un libro a pancia vuota, e dopo che l’hai tenuto qualche ora in mano, dimmi se hai fame o se hai mangiato troppo. Che predicava il prete al Catechismo? “I libri non sono cosa da cristiano: figli, per carità, non leggeteli!”.
IL MERCATINO DEI LIBRI E LA CULTURA SECONDO SANTA MADRE CHIESA. Sui libri il reazionario clero cattolico apostolico romano aveva molto da ridire, e metteva in guardia i giovani del catechismo dal leggere la carta stampata. Perché, si sa, la stampa insinua dubbi, fa pensare con la propria testa, smitizza i miti, scopre le bugie, diffonde nuove idee, giuste o sbagliate che siano. Insomma. è come il Diavolo: “Figli, non leggete i libri!” Sembra di ascoltare un politico di oggi messo alla berlina dalla stampa per qualche sua magagna: “Non leggete i giornali!”. Sono faziosi e intrisi d’odio”. Così era ed è per la Chiesa.
Balza sùbito agli occhi che l’atteggiamento culturale della Chiesa cattolica è diametralmente opposto a quello di protestanti ed ebrei, che della lettura personale, dell’abitudine all’interpretazione diretta dei Testi sacri, non mediata obbligatoriamente dalla casta dei sacerdoti, e quindi della cultura in genere, hanno sempre fatto una pratica quotidiana. Anzi, gli storici delle idee attribuiscono proprio a questa capacità di leggere e commentare per conto proprio, insomma a questa rivoluzione culturale individualista, non solo l’origine della Riforma protestante ma anche dello stesso Liberalismo. Ecco perché un popolano cattolico nella Roma dell’800 non sapeva né leggere né scrivere, anzi era tenuto dalla Chiesa - specialmente le donne -nella più vergognosa ignoranza, mentre protestanti ed ebrei sapevano leggere ed erano mediamente molto più colti. Una differenza che spiega tutto dell’arretratezza italiana per colpa della Chiesa.
MA IL BELLI DA CHE PARTE STA? Fatto sta che in questo sonetto, in cui piazza Navona è solo un fondale, un pretesto, Belli descrive efficacemente un carattere tipicamente romano, che tocca tutti, popolo e nobiltà nera. E nella sua ben nota ambiguità, come spesso accade nei Sonetti, non si capisce bene “da che parte sta”. Sembra, è vero, in superficie, fare della satira, o meglio dell’ironia anti-Chiesa, ma il Belli è pur sempre l’uomo che sarà capo della Censura vaticana, severissimo e implacabile cancellatore di drammi, romanzi ed opere teatrali (anche Shakespeare e Verdi), per di più caduto in un astioso, cupo, patologico pessimismo senza speranza. Dunque il sospetto che in questo “no ai libri” e alla libertà della cultura vi sia già nel Belli una sorta di compiacimento sadico tra le righe, anzi, un’ombra di immedesimazione, potrebbe essere fondato.
LA PIAZZA, CAPOLAVORO DEL BAROCCO. Ma torniamo a piazza Navona. Un capolavoro di ambiente urbano barocco la piazza divenne solo con papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphilj), che negli undici anni di papato (1644-55) ne fece insieme il simbolo della grandezza della casata e il salotto della città, il centro della vita romana, partendo dalla residenza di famiglia, il grande palazzo Doria Pamphilj, davanti alla fontana del Moro e accanto alla chiesa di S.Agnese. I Rainaldi e il Borromini ingrandirono, restaurarono e abbellirono il palazzo, la chiesa e le costruzioni attigue, mentre il Bernini realizzò la decorazione di due delle tre fontane del 500, per renderle artistiche e imponenti. Ma solo nell’Ottocento, col completamento da parte di artisti minori della fontana a nord, quella “dei delfini”, il magnifico colpo d’occhio barocco della piazza, con le sue guglie e le sue imprevedibili linee curve, poteva dirsi perfetto. un continuum architettonico irripetibile, ben superiore alla somma dei singoli monumenti.

LA FONTANA DEI QUATTRO FIUMI. La fontana dei Quattro Fiumi al centro della piazza ha quattro statue (il Danubio, il Gange, il Nilo e il Rio della Plata) che rappresentano i quattro fiumi più lunghi e i quattro angoli della Terra. L’obelisco, ritrovato nel Circo di Massenzio sulla via Appia, allungato con un basamento svetta da una roccia di travertino su statue e leoni. L’architetto Bernini se l’aggiudicò, al posto del Borromini a cui era stata affidata in un primo momento, con lo stratagemma del regalino alla potentissima donna Olimpia, cognata e ascoltata consigliera di papa Innocenzo X. Le regalò un modellino-bozzetto in argento. Il papa lo poté ammirare, si disse, negli appartamenti di Olimpia e decise con lei di affidare la commessa al Bernini. Del resto era stata la stessa Donna Olimpia a proporre il Rainaldi per il rifacimento del palazzo. La Fontana fu inaugurata nel 1651, ma fu finanziata con nuove imposte sui proprietari di case e impopolarissime tasse su pane, vino e altri generi alimentari, che colpirono la povera gente.
UN ARCHITETTO CONTRO L'ALTRO. E lo scontro Bernini-Borromini? In parte è leggenda. Certo, tra i grandi architetti Bernini e Borromini c’era sicuramente concorrenza professionale, com’è naturale, e contrapposizione stilistica, tanto magniloquente, rotondo e grandioso è lo stile del primo (romano di origine napoletana), quanto introverso, eccentrico, nordico e amante delle guglie e delle facciate concave è il secondo (milanese originario di Lugano, Svizzera italiana). Ma la storiella raccontata da tutte le guide turistiche, secondo cui nella fontana del Bernini la mano alzata della statua del Nilo vorrebbe significare il timore che la prospiciente chiesa di S. Agnese, del Borromini possa cadere da un momento all’altro, è pura invenzione. La chiesa fu ricostruita dal Borromini intorno al 1653 e poi completata dal figlio del Rainaldi nel 1672, mentre la fontana del Bernini era già in costruzione dal 1648 al 1651.
BELLI: PIU’ DEL MONUMENTO, GLI INTERESSA FARE IRONIA SUL POPOLINO. Il Belli nel sonetto Er funtanone de piazza Navona è attratto, come al solito, più dalla plebe attorno che dal monumento in sé. Parla di un fatto di cronaca insignificante, non si sa se vero o inventato: un tumulto popolare per l’aumento dei prezzi alimentari, e una sassata che avrebbe troncato di netto il pollice d’una statua della fontana dei Quattro Fiumi del Bernini, lasciando la mano con quattro dita. Ammesso e non concesso che ciò sia accaduto, oggi il danno non è più visibile. Resta il sospetto dell'ironia sul popolino e il suo scontento. La solita riduzione delle grandi cose a cose minute. La conclusione è irriverente: le quattro dita (anzi, il numero 4) significano secondo la cabala e le superstizioni del popolino romano, nientemeno che il membro virile. Per cui l’epiteto “faccia de quattro”, usato in un altro sonetto belliano, sarebbe un’insultante “faccia di cazzo” (F. Ravaro, Dizionario romanesco, Newton Compton 2005, p. 511). A questo punto, la sibillina espressione con cui si conclude il sonetto, 
“quattro der cazzo”, andrebbe letta come un rafforzativo dell’ingiurioso epiteto romanesco:

…ccor una serciata a cquer pupazzo
je fesceno sartà nnetto er detone.
Chi ddà la corpa a un boccio, chi a un regazzo:
ma er fatt’è cche cquell’omo ar funtanone
pare che ddichi: A vvoi; quattro der cazzo!
10 settembre 1830

Versione. Con una sassata a quella statua gli fecero saltare il pollice. Chi dà la colpa ad un vecchio, chi a un bambino: ma il fatto è che quell’uomo del fontanone sembra che dica: A voi, quattro del cazzo (teste di cazzo)!

LE DUE FONTANE MINORI. Nel 1653 il Bernini modificò la fontana a sud disegnata dal Della Porta nel 1575, aggiungendo un delfino che reggeva una lumaca sulla coda alzata. La composizione non piacque e la gente protestò: il Bernini vi montò allora il busto di un moro che accarezza un delfino. Fu soprannominata la fontana del Moro. Le sculture della fontana a nord, quella del Nettuno (in precedenza “dei calderari”, perché questi artigiani vi si radunavano attorno), è invece opera molto tarda, del 1873, fatta dopo regolare concorso dall'amministrazione di Roma “piemontesizzata” e liberale. E va detto che il buongusto dei misconosciuti scultori Zappalà (Nereidi, putti e cavalli marini) e Della Bitta (Nettuno che lotta con una piovra), che si sono così bene immedesimati nell’ambiente barocco, ha poco o nulla da invidiare all’autore della fontana gemella, il grande Bernini.

IL LAGO DI PIAZZA NAVONA. Prima che fosse costruito il marciapiedi e alzato il livello centrale (fine 800), la piazza era concava e si prestava ad essere allagata per dare frescura nei giorni d’estate. "S'atturava la chiavica della funtana de mezzo - ricorda Zanazzo - e la piazza ch'era fatta a scesa, s'allagava tutta". Per circa due secoli, a partire dal 1652, nei sabati e domeniche di agosto piazza Navona si trasformò in un lago. L’evento coinvolgeva tutti, dai nobili che vi accorrevano in carrozza ai popolani, ed era poi ingrandito nella memoria popolare e tramandato di cronista in cronista fino a tramutarsi quasi in leggenda. Certo, era anche teatro, secondo il gusto eccessivo del Barocco.
Vere e proprie gare di invenzioni e sfarzo coinvolgevano le famiglie aristocratiche, che talvolta facevano teatralmente “solcare le acque” da calessi a forma di gondole o navi di legno e cartapesta, alcune con vele e rematori, musici e sirene. Bambini e perfino adulti del popolo vi si immergevano per fare il bagno, giocare e fare scherzi, dopo essersi spogliati, tanto che un editto proibì di denudarsi per entrare in acqua. Con i soliti metodi spicci e disumani, la giustizia dei preti comminava ai bambini frustate, ma per un adulto che si "metteva nudo o con le mutande per bagnarsi e notare", c’era la tortura in pubblico sul “cavalletto” nella stessa piazza o al Corso. Con le stesse pene erano colpiti i frequenti scherzi dei giovinastri ai danni dei nobili che prendevano il fresco. Col gusto sadico del marchese del Grillo, si narra che nel 1730 il figlio del re d'Inghilterra si divertisse a gettare monete nell'acqua per vedere i ragazzini buttarsi in acqua vestiti facendo a gara per ripescarle. Un po’ come più tardi sarebbe accaduto nella Fontana di Trevi.
Nel 1717 alcune dame "forse scaldate dal vino, spogliatisi si tuffarono (!) in quelle acque". Una fu colta da malore e caduta in acqua fu salvata da alcune persone gettatesi in acqua vestite. E un cavallo del marchese Corbelli vi affogò, perché incastrò una zampa in una buca e cadde in acqua. Questi particolari descritti con parole esagerate e riportati in modo acritico dai soliti cronisti hanno alimentato la leggenda, assurda perché contrasta con tutte le stampe dell’epoca, che l’acqua potesse raggiungere in almeno un punto quasi l’altezza di un uomo, un metro e oltre. E’ nostra convinzione, invece, data la struttura della piazza e i livelli del basamento delle fontane e dei palazzi, che non potesse superare i 50 cm.
E le battaglie navali (naumachie) di cui pure parlano guide e siti web? Non c’entrano nulla: la memoria popolare mette tutto in un calderone: il nome "Navona" (che, come si è detto, non deriva da "nave", ma da "in Agone"), lo stadio di Domiziano (che ospitava solo atletica), il ben più profondo circo Colosseo, dove invece le vere naumachie erano possibili, e le allegorie con finte regate e "battaglie" di barche dei nobili sulla piazza Navona allagata in epoca papale dal 1600 in poi. Nella piazza, tra il 1810 ed il 1839, si tennero corse di cavalli con fantino, come nel Palio di Siena.

LA “PIMPACCIA DI PIAZZA NAVONA”. Ma chi era donna Olimpia, perché era così potente, e come mai si parla così tanto di lei a proposito di piazza Navona e di Roma? Per cominciare, abitava nel palazzo più bello della piazza, nel grandioso e sfarzoso palazzo Doria Pamphilj, che aveva suggerito di costruire e poi ingrandire (Rainaldi, Borromini) e abbellire di opere d’arte (affreschi di Pietro da Cortona), e che poi si era fatto regalare dal cognato papa. La viterbese di origine umbra Olimpia Maidalchini, donna di grande carattere e personalità, era molto più di una cinica e spregiudicata arrivista sociale: era sì una donna anticonformista, spietata e furba, ma anche molto intelligente, tanto da consigliare uno dei più intelligenti papi della storia.
Passò di tetto in tetto, di letto in letto, di trono in trono, pur di avere denaro, lusso, status e soprattutto potere. Non bellissima, ma affascinante e forse dotata di segrete attrattive sessuali, dai e ridai, dopo aver vagliato tanti aristocratici di potere e denaro, finalmente riuscì a sposare quello che le doveva apparire il partito giusto: il nobile Pamphilio della potente famiglia Pamphilj, più vecchio di lei di trent’anni, che ebbe il buon gusto di morire pochi anni dopo lasciandola ricca vedova.
Da qui cominciò la sua scalata. In pochi anni divenne non solo la donna, ma addirittura la personalità più potente e temuta a Roma, una vera e propria terribile “papessa”, capace di fare e disfare cardinali e papi, di far nominare vescovo il padre e cardinale il figlio, di dirigere la Chiesa e lo Stato del Papa attraverso il fratello del defunto marito, Giovanni Battista Pamphilj (papa Innocenzo X), un grande pontefice che pendeva dalle sue labbra e l’aveva come consigliera, e in gioventù, pare, anche come amante. Anzi, sembra che la lungimirante e decisionista Olimpia, l’unica a “portare i pantaloni” nella molle Curia romana, avesse perfino aiutato il cognato nella carriera ecclesiastica. Donna sicuramente di genio, sia pure con risvolti malefici, Olimpia fu abile non solo nell’usare uomini e donne come pedine di un suo gioco diabolico, ma anche nell’arricchirsi con le eredità, manipolando volontà, depredando tesori, e ricorrendo regolarmente anche alla vendita di raccomandazioni e benefici ecclesiastici (questi ultimi calcolati in 500.000 scudi d’oro). Insomma, un’anticipatrice, per conto proprio, dell’attuale tendenza economica dei Governi al più cinico “fare cassa”, svendendo un po’ di tutto. Morto il papa, però, e una volta svelati i suoi intrighi, il successore di Innocenzo X la esiliò. Ma alla morte di Olimpia, nel 1657, il notaio rese noto che aveva lasciato in eredità ben 2 milioni di scudi d’oro.

LA SATIRA POPOLARE CONTRO LA DONNACCIA. Il popolo le aveva attribuito già in vita ogni nefandezza, trasformandola da defunta in un fantasma, l’unico fantasma di Roma, come ha scritto Adele Cambria. E in effetti Donna Olimpia che fugge di notte in una nera carrozza in fiamme portando con sé tutto l’oro accumulato, finché i cavalli indiavolati vanno a gettarsi con lei e le sue ricchezze nel Tevere, è una drammatica raffigurazione romantica della Nèmesi storica, così come la poteva vedere il popolino romano.
La sua avidità, ingratitudine e crudeltà arrivarono al punto da spingerla ad impossessarsi perfino degli averi del papa appena deceduto, proprio il papa che si era fidato solo di lei, l'aveva protetta e resa tanto potente. Ora che non poteva essergli più utile abbandonò il suo cadavere. Per i funerali dovettero tassarsi di tasca propria alcuni monsignori di Curia.
La satira, naturalmente, si scatenò, e nessuna donna, anzi nessun personaggio romano, fu mai bersaglio di critiche e irrisioni più crude. A leggere i biglietti sulla statua del Pasquino, era la famigerata “Pimpaccia di piazza Navona”. E il nomignolo restò, fino a diventare proverbiale. Il suo nome, Olimpia (“Pimpa” in diminutivo romanesco), divenne pretesto per un efficace anagramma di qualche chierico latinista: “olim pia, nunc impia”, cioè un tempo pia, ora empia. Fu “un maschio vestito da donna” per la città di Roma, ma per la Chiesa “una donna vestita da maschio”, si leggeva negli epigrammi. Veniva presa a pretesto anche la sua sessualità senza scrupoli, di volta in volta per arrivare al potere, per ereditare o per il puro piacere. Imitando le targhe che a Roma ricordano nel Centro storico le piene del Tevere, qualcuno la raffigurò nuda, una mano con l’indice puntato sul basso ventre, e la scritta uguale a quella delle inondazioni: “Fin qui arrivò Fiume”. Ma non era il Tevere, era il suo maestro di camera, un certo cavalier Fiume, con il quale se la intendeva.
MACCHE’, LA PAPESSA VA RIVALUTATA. Ma una figura così carismatica come quella della diabolica Donna Olimpia non può essere solo negativa. Ci devono per forza essere lati positivi. Sarà stata autoritaria, avida, crudele e bizzosa quanto si vuole, però è stata sicuramente una donna intelligentissima e versatile. Capace non solo di comandare agli uomini, e agli uomini potenti, ma anche di dirigere e consigliare in tutto uno dei papi più illuminati e attivi della storia della Chiesa. Altro che l'effimera o storicamente incerta papessa Giovanna. La "papessa" vera fu Olimpia Pamphilj, che dopo secoli di ingiurie conosce ora una seconda vita piena di riconoscimenti, se non di elogi.
C’è chi, per dirne una, ne fa una sorta di eroina femminista ante litteram. Di sicuro, ebbe il merito di immettere vitalità e intelligenza nell’addormentata Curia romana, come adombrava la satira del “maschio vestito da donna” in Curia. La citata Cambria, scrittrice femminista, sembra prendere donna Olimpia in simpatia attribuendole le virtù carismatiche della "donna di potere", cioè capace di imporsi sui maschi, e della donna che sfida le convenzioni col suo atteggiamento anticonformista. Tanto da sottolineare positivamente perfino un settore particolare del suo smodato senso degli affari molto criticato ai suoi tempi. Ripercorrendo le orme dell’imperatore e affarista Vespasiano (“pecunia non olet”, il denaro non ha odore, avrebbe risposto a chi lo rimproverava di far soldi con le latrine), la “Pimpaccia” sembra che riscuotesse personalmente le tasse dei bordelli. Tanto, si sa, “tra puttana e puttana” si intendono, avrebbe potuto commentare qualcuno del popolo. Ma almeno, “senza ostentare false pruderie da signora virtuosa”, aggiunge la Cambria. Infatti, aggiunge, “Donna Olimpia dava protezione alle prostitute, portandosele dietro in carrozza nei cortei solenni”. Come fare più contenta una femminista storica?
BRUTTURE DI IERI O DI OGGI? MEGLIO LE PRIME. Ecco la storia colorita a forti tinte di piazza Navona. E viste le sue vergogne moderne, “inutili” a differenza di quelle antiche, e dunque ingiustificabili e in contrasto vergognoso con la bellezza della piazza e di Roma, dal mercatino natalizio di plastica ai pittori di croste di cattivo gusto per turisti di bocca buona, agli invadenti tavoli di bar e ristoranti dove si mangia male e a caro prezzo, fino agli assordanti comizi politici e concerti di musica pop, tutti sconci che neanche il sindaco Argan, che era un critico d’arte, riuscì a vietare, nonostante i propositi (e noi della Lega Naturista gli avevamo inviato una lettera-denuncia), ecco che le “necessarie” vergogne antiche della piazza, come la sporcizia del mercato, la spocchia dei nobili, il palco della tortura, gli intrighi tra potenti, le invidie tra architetti, le inzaccherature e gli scherzi acquatici dei bulli, e le crudeli ambizioni della Pimpaccia, ci sembrano oggi poca cosa, e al posto del cattivo gusto moderno, anzi, danno gusto, fanno da piccante pepe culturale alla Storia di Roma.
Di papa Innocenzo X si parla anche nell'articolo dedicato a un’altra "papessa", la papessa Giovanna, a proposito dell'increscioso "esame" manuale della sedia forata (escretoria) effettuato, secondo un testimone dell'epoca, alla sua incoronazione.
IMMAGINI. 1. Piazza Navona com'è stata realmente per secoli: non lastricata, con cumuli di terra o fango, sporca, e deturpata da carri, bestiame e resti del mercato (1870). 2. Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, detta dal Pasquino la "Pimpaccia" di piazza Navona (ritratto dell'Algardi, part.). 3. Il mercato settimanale di Piazza Navona in una foto all’albumina (circa 1860). In primo piano il posto dei calderai (artigiani di pentole in rame, zingari) che quasi nascondono la fontana che da loro prendeva nome, ancora senza sculture. 4 Lo Stadio di Domiziano (ricostruzione), sul cui perimetro fu costruita la piazza “in Agone”, poi Navona. 5. La piazza nel primo Rinascimento: solo un lungo e brutto campo sterrato, con abbeveratoi, animali e tende. 6. La pena-tortura delle frustate ad una donna, forse prostituta. Nella piazza era eretto in permanenza un palco, come monito per i passanti. 7. La fontana dei Quattro Fiumi del Bernini in un’antica stampa. 8. L’ultima volta che la piazza fu allagata, sia pure parzialmente (1870). 9. Papa Innocenzo X, Pamphilj, cognato, protettore, estimatore e amante di donna Olimpia, in un dipinto del Velasquez.
AGGIORNATO IL 1 OTTOBRE 2015

28 ottobre 2010

Un quartiere delle luci rosse a piazza di Spagna, anzi di Francia

Trinità dei Monti prima della scalinata (picc.verde G.Maggi 1600 ca)

“Come! Ner cor de Roma cuel’ inferno
de le puttane de piazza de Spagna?”
G.G. Belli

Nel 1832 il Belli scriveva un sonetto sul problema del meretricio, attivissimo a piazza di Spagna e dintorni. In chiave moralistica e puritana, ma anche satirica, come si legge nell’ultima strofa (v. in basso). Ma perché proprio in quella piazza, che doveva poi diventare un’icona nota in tutto il mondo?

Dopo il sacco di Roma del 1527 la città si era lentamente ripresa con la ricostruzione prima e la costruzione ex novo poi di edifici pubblici, soprattutto chiese, conventi, ospizi, anche con il contributo dei grandi paesi cattolici, soprattutto Francia e Spagna, che gareggiavano nell'affermare la loro presenza nella Città Eterna.
Goethe, Mozart, Stendhal, Montaigne, Montesquieu, Shelley, Keats, lord Byron, insieme a migliaia di meno famosi pellegrini del "viaggio in Italia", tanto in voga nei secoli dell'illuminismo e del romanticismo, venivano a visitare Roma, Caput Mundi per tanti secoli e presidio del cristianesimo per altrettanti. Il punto di arrivo era, attraverso la via Cassia, la Flaminia e la Porta del Popolo, proprio piazza di Spagna.
Gli alberghi, le locande, le osterie, le stalle per i cavalli, i parcheggi per le diligenze e le carrozze padronali (dice niente il toponimo “via delle Carrozze”?), le botteghe del caffè, e poi barbieri, farmacisti, calzolai, guide turistiche, “ciceroni”, scrivani, ciarlatani e botteghe di ogni genere, si insediarono rapidamente nella zona di piazza di Spagna. I ricchi viaggiatori dell’epoca erano una manna per tante nuove iniziative artigianali e imprenditoriali.

Le prostitute furono fra le prime ad operare in zona, attirate da due elementari considerazioni. I viaggiatori erano quasi tutti maschi e spesso soggiornavano a lungo. Inoltre, e soprattutto dalla fine del ‘600, la zona godeva della giurisdizione di extraterritorialità a favore della corona spagnola.

L’intero quartiere era sotto la giurisdizione e la protezione della Spagna, che aveva facoltà di escludere ogni ingerenza amministrativa e di polizia dello Stato della Chiesa. In pratica era una zona franca per ogni attività economica, compreso l’esercizio della prostituzione. La Spagna, pur potendo disporre di sue soldatesche con funzioni di polizia, si limitava al controllo della propria legazione e del grande complesso (chiesa e ospizio) dei Trinitari Scalzi, anch'esso di sua proprietà.

Ma il "quartiere spagnolo” si estendeva in un ampio circondario che alla metà del ‘700 comprendeva piazza di Spagna, l'attuale attigua piazza Mignanelli, via Condotti, via della Mercede, via Mario de' Fiori, via Capo le Case, via Gregoriana, l'ultimo tratto di via Felice (ora Sistina), piazza Trinità dei Monti, via Vittoria, via della Croce, via Bocca di Leone, via Frattina. L'area contava alcune migliaia di abitanti. I confini furono codificati, come rivela uno studio di Alessandra Anselmi, in una mappa disegnata dall’architetto Antonio Canevari nel 1725 (v. in basso). Gli accordi raggiunti tra Spagna e Papato furono faticosi e contrastati, per la concorrenza della Francia che accampava analoghi diritti.

Ovviamente i vari Papi mai giunsero ad un protocollo ufficiale, che avrebbe comportato nientemeno che la cessione a una potenza straniera di una parte della città. Tutto era stabilito alla stregua di un gentleman agreement. Ma tant’è, la Spagna di fatto esercitava il potere sulla sua giurisdizione, seppure con molta tolleranza verso tutte quelle attività che rendevano il “suo” quartiere il più cosmopolita e accogliente di Roma.

barcaccia piazza di Spagna e Trinità dei Monti senza scalinata (GB Falda modif. blu)

Un passo addietro, come direbbe il Belli. La società misogina e maschilista nella Roma del Papa Re, relegava il ruolo della donna a moglie e madre, monaca o puttana. Rarissime erano le professioni in cui una donna poteva cimentarsi: in pratica la sarta, la "scuffiara" (artigiana di cuffie e cappelli femminili) e le poche serve che accudivano le mogli dei signori. Dimenticavamo le perpetue di preti e parroci, ma molte di esse avevano un doppio, equivoco, ruolo di donna “tutto fare”. La totalità delle altre professioni era riservata ai maschi, perfino il ruolo femminile nelle rappresentazioni teatrali e di musica (be’, proprio maschi no: era l’epoca dei castrati, che cantavano e figuravano come donne a teatro e nella cappella Sistina). Le donne ribelli che non volevano sottostare al maschilismo imperante non avevano molte chances: o puttane o streghe-fattucchiere. Ma quest'ultima professione era molto pericolosa: c’era il rogo, dopo un bel processo della Santa Inquisizione.

La prostituzione, invece, non portava al rogo, e rendeva (e rende) bene. Era l’unica alternativa, sempre illegale ma spesso tollerata, per le donne che non riuscivano o non volevano trovare un marito-padrone. E’ vero che il Cardinale Vicario vigilava sui costumi, “rivedeva il pelo alle puttane”, come diceva il Belli, ma nulla poteva nel quartiere spagnolo.

La prostituzione a Roma era una realtà talmente consolidata che esisteva un ospedale, il San Rocco, per le partorienti al di fuori del matrimonio, e un altro, il San Gallicano, per la cura delle diffusissime malattie veneree. Il “mal francese” o sifilide, era il più diffuso e pericoloso. Per non parlare dell’ospizio per il recupero delle “donne perdute” alle Scalette, in via della Lungara [non sarà, per caso, l’attuale Casa della Donna, sede delle femministe, a cui si accede da una vistosa doppia scalinata? Sarebbe una bella Nèmesi... NdR] e del Cardinal Vicario che vigilava al di sopra di tutto.
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La scalinata di Trinità dei Monti fu costruita su progetto di Francesco De Sanctis con un lascito di 20.000 scudi fatto nel 1655 ai frati Minimi di San Francesco da Paola da parte di un nobile francese, Etienne Gueffier, che aveva ricoperto incarichi all'ambasciata di Francia a Roma. E' interessante notare come i suddetti frati si fossero tenuti in cassa i denari per quasi tre quarti di secolo prima di rilasciarli per la costruzione della scalinata, in seguito alle insistenze del Papa Clemente XI.

La piazza fu terreno di battaglia diplomatica fra Spagna e Francia. In effetti nel '600 la parte nord, verso porta Flaminia, era "piazza di Francia", e quella su cui si affacciava la legazione spagnola, oggi piazza Mignanelli, era piazza di Spagna. Fu l'influenza di Isabella Farnese, moglie del re Filippo V di Spagna, insieme al potente ambasciatore cardinale Trojano Acquaviva d'Aragona, il cui segretario Giacomo Casanova amava definire "uomo che a Roma vale più del Papa", a far pendere la bilancia a favore della giurisdizione spagnola, relegando la zona francese in cima alla famosa scalinata. Nel corso di queste schermaglie della diplomazia, la Spagna vagliò addirittura l'ipotesi di chiudere la scalea con un colpo di mano a base di catene e lucchetti.

Anche prima della costruzione della scalinata di Trinità dei Monti, inaugurata dal Papa nel 1725, lungo il precario pendio alberato (v. immagine, sopra) che collegava la chiesa francese dei Padri minimi di San Francesco da Paola con la piazza della berniniana Barcaccia [a Pietro Bernini, però, fu commissionata l’opera, non al figlio Gian Lorenzo, che comunque collaborò col padre. Del resto, Pietro morì nel 1629, proprio l’anno in cui la fontana fu inaugurata, NdR] e col quartiere spagnolo (in basso), esistevano alcune casupole abitate da donne che praticavano la prostituzione, come documentano le proteste dei preti francesi agli inizi del ‘700, e come risulta da una stampa dell’epoca.

Ed ecco il sonetto del Belli, celebrativo dell’editto che vietava alle prostitute di adescare i clienti stando affacciate alla finestra appoggiate ad un esplicito cuscino, sovente decorato di merletti in modo vistoso, come avveniva senza ritegno nel quartiere di Piazza di Spagna. Strano, però, quello che non si può fare con le prostitute si può fare impunemente con la moglie, nota sarcasticamente il Belli:
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LA GIURISDIZZIONE
È un gran birbo futtuto chi sse lagna
de le cose ppiú mmejjo der Governo.
Come! ner cor de Roma cuel’inferno
de le puttane de Piazza de Spagna?!
S’aveva da vedé ’na scrofa cagna
d’istat’e utunno e pprimaver’e inverno,
su cquer zanto cuscino, in zempiterno
a cchiamà li cojjoni a la cuccagna?
Hanno fatto bbenone: armanco adesso
se fotte pe le case a la sordina,
e ccor prossimo tuo come te stesso.
Mo ttutto se pò ffà ccor zu’ riguardo
co cquella ch’er Zignore te distina;
e ar piuppiú cce pò uscí cquarche bbastardo.
Roma, 5 dicembre 1832
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Versione. E' un gran birbante fottuto chi si lamenta dei migliori provvedimenti del governo. Ma come, nel cuore di Roma quell'inferno delle puttane di piazza di Spagna? Si doveva vedere una scrofa sordida d'estate, autunno, primavera e inverno, su quel santo cuscino tutto il tempo, a chiamare i clienti alla cuccagna? Il governo ha fatto benone: almeno adesso si fa sesso per le case silenziosamente, con il prossimo tuo come con te stesso. Ora si può fare tutto col dovuto riguardo con tua moglie, e al massimo potrà venire fuori qualche bastardo.

Ma le puttane, nonostante editti e proclami, sono tranquillamente restate nella ex "zona spagnola" fino a tempi recenti. Anzi, vi misero casa. Chi non ricorda, fra i vecchi romani, le “case chiuse”, ipocritamente chiamate anche "di tolleranza", di via della Vite, via Belsiana, via Capo le Case, via Mario de' Fiori, via Borgognona (dov'era la "Giorgina", noto ritrovo di gerarchi fascisti) e di tutte le vie all'intorno? La legge Merlin che chiuse i "casini" è del 1958.

IMMAGINI. 1. La boscosa salita di Trinità dei Monti prima della costruzione della scalinata, con tanto di casette delle prostitute (dis. prob. di G.Maggi, 1600 ca.). 2. Le prostitute erano spesso alla finestra. Doppiamente obbligato, perciò, il riferimento al dipinto "Donne alla finestra" dello spagnolo Murillo. 3. In primo piano la fontana della Barcaccia di Pietro Bernini, padre di Gianlorenzo, finita nel 1629, proprio l’anno della morte di Bernini senior. Perciò, Bernini junior può al massimo aver dato le ultime rifiniture, ma non può essere considerato l’autore. Dalla stampa si vede che la fontana offriva molti più getti d’acqua, e più potenti. La piazza era tutta in terra battuta. Sullo sfondo la selvaggia salita di Trinità dei Monti (dis. prob. di G.B. Falda, dopo il 1691). 4. La mappa del "quartiere spagnolo" (Canevari 1725), secondo lo studio di A.Anselmi (Il quartiere dell’Ambasciata di Spagna a Roma, in "La città italiana e i luoghi degli stranieri. XIV-XVIII secolo", a cura di D. Calabi e P. Lanaro, Laterza 1998, pp.206-221). In seguito l'area fu ingrandita fino ad arrivare al Corso, proprio per la costruzione del complesso extraterritoriale spagnolo dei Trinitari Scalzi (iniziata nel 1731-32), con l'approvazione del competente "maestro delle strade" arch. Cipriani.

AGGIORNATO IL 23 FEBBRAIO 2015

25 ottobre 2010

La buona cena povera: frittata della nonna, insalata, noci e vino.

E’ ora di cena, e siamo in una vecchia casa cadente e scrostata della Roma sparita, forse in un vicolo buio e umido, come certi pittoreschi acquerelli che Roesler Franz fissò sul cartoncino perché gli angoli perduti della vecchia Roma, per quanto fatiscenti e malsani, non andassero del tutto perduti anche nel ricordo. E fece bene, perché fotografie, dipinti e disegni della città all’epoca papalina sono rari.

Dunque, è ora di cena, sono le ore 7 o le 8, a seconda se inverno o estate (“1 ora di sera” per l’arretrato computo romano), e alla luce dell’esile fiammella d’una candela di sego di bue o d’un lume ad olio (*), una vecchiarella smette di filare e attizza un focolare, troppo povero di carbonella per scaldare davvero.

E’ la nonna, patetica figura matriarcale attorno a cui ruota l’intera scenetta, dipinta a pennellate forti e rapide dall’efficace bozzettista Belli.

E se viene definita “nonna” vuol dire che l’io narrante è il nipote, dunque un giovanissimo. I giovani erano numerosi nella Roma dei Papi-re, come tuttora accade nei Paesi poveri, nei quali l’ignoranza, l’alto tasso di morti infantili e le necessità economiche spingono le coppie a ritenere che la loro unica ricchezza sia la prole.

La vecchia attende che arrivi il figlio da qualche effimero o improbabile lavoro, e apparecchia sulla tavola una cena che, per quanto sana, definire povera è poco. Povera anche di calorie, a quanto riferisce il Belli, che non cita neanche il pane, certamente dandolo per scontato, visto che i poveri di città mangiavano pane, sia pure pessimo, anche per ridurre le spese della cottura. Così come quelli di campagna, per i quali la legna era quasi sempre gratuita, polente di grano, granturco e miglio. E sarà stato, immaginiamo, un pane scuro di seconda o terza scelta, forse di cereali misti, certamente troppo ricco di cruschello, che riempie ma non nutre. Insomma il più economico.

La nonna, dunque, prepara una frittata, quasi trasparente per quanto è fina. Il che vuol dire che nella larga padella il battuto di poche uova non riesce a dare spessore e nutrimento proteico adeguato ai quattro poveri commensali. Fortuna che c’è qualche noce, e sicuramente – ma nel sonetto non se ne parla – qualche abbondante fetta di pane bigio, a sfamare davvero con i suoi carboidrati. Ma se così fosse, la cena non sarebbe più tanto povera, anzi sarebbe sufficiente. E se le foglie d’insalata non fossero così poche, e se ci fosse almeno un frutto, sarebbe addirittura perfetta… Anche a Roma, sotto i Papi, il popolo è vegetariano senza saperlo, uno strano vegetarismo forzoso. Mentre sono non solo i nobili ma anche papi, cardinali, monsignori, preti e monaci ad abbuffarsi di carni.

Ma torniamo sulla frittata così fina da essere quasi trasparente, dice il Belli, che forse non s’intende di cucina, e così vuol dare rapidamente al lettore profano una misura materiale di povertà. Ma la cosa è poco credibile, psicologicamente.

Tanto più in ristrettezze, una cuoca sa tutti i trucchi per riempire di nulla una torta o una frittata, ingannando l’occhio e la gola di marito e figli, facendola sembrare spessa, ricca e strapiena, magari grazie solo ad erbe selvatiche, del tutto gratuite. Pensiamo ai getti amarognoli della vitalba, solo leggermente velenosi, che il popolino a Roma usava appunto nelle frittate spacciandoli per “asparagi” (frittata di “vitalbini” o di “ticchi”, come dicevano i tanti "marchiciani" immigrati in città). Decine e decine di erbe comunissime, d’uso quotidiano nella cucina romana, anche miste (“misticanza” a crudo o da cuocere, a seconda della durezza). E del resto, una cipolla o qualche foglia di cavolo, volendo, l’avrebbe ottenuta gratis o quasi dal "verduraro".

Per fortuna qualche noce, qualche foglia d’insalata, immaginiamo poco o per nulla condita, qualche buona fetta di pane bigio, e un piccolo boccale di vino (da centellinare in quattro), completano la cena.

Cena che non potremmo definire “monacale” o “conventuale”, visto che i monaci di Santa Romana Chiesa, al contrario, godevano tradizionalmente di lauti pranzi, che tranne nei pochi giorni di vigilia erano di norma ricchi di carni, in particolare volatili, cacciagione e pesci (cfr. Massimo Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Laterza 1988).

Anche se in questa casa non c’è una sposa giovane e attiva, ma una vecchia (che però ha pur sempre nipoti giovani attorno), questa frugalità, questa risicatezza estrema, a meno che l’autore non intenda descrivere una patologica trasandatezza da depressione (la povertà porta anche all’abulia), ha funzioni del tutto letterarie, serve cioè allo scopo di meglio raffigurare un ambiente, uno stato d’animo, nella brevissima, inesorabile sintesi del bozzetto:
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LA BBONA FAMIJJA
Mi’ nonna a un’or de notte che vviè Ttata
Se leva da filà, ppovera vecchia,
attizza un carboncello, sciapparecchia,
e mmaggnamo du’ fronne d’inzalata.
Quarche vvorta se fâmo una frittata,
che ssi la metti ar lume sce se specchia
come fussi a ttraverzo d’un’orecchia:
quattro nosce, e la scena è tterminata.
Poi ner mentre ch’io, Tata e Ccrementina
seguitamo un par d’ora de sgoccetto,
lei sparecchia e arissetta la cuscina.
E appena visto er fonno ar bucaletto,
’na pissciatina, ’na sarvereggina,
e, in zanta pasce, sce n’annamo a letto.
28 novembre 1831
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Versione. La buona famiglia. Mia nonna ad un’ora della sera (verso le ore 20 d’estate o 19 d’inverno, secondo l’antical’antica divisione delle ore della giornata nella Roma dell’800), quando viene babbo, smette di filare, povera vecchia, accende un tizzo di carbone, ci apparecchia la tavola e mangiamo due foglie d’insalata. Qualche volta abbiamo una frittata, che se la metti vicino ad un lume è trasparente come un’orecchia, quattro noci, e la cena è terminata. Poi mentre io, babbo e Clementina continuiamo per un paio d’ore a farci un goccetto di vino, lei sparecchia e rassetta la cucina. E appena arriviamo al fondo del boccale [sgoccetta’=continuare a sbevazzare per un certo tempo, nota il Belli, cioè il centellinare), una pisciatina, una Salve Regina e, in santa pace, ce ne andiamo a letto.

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FRITTATA DELLA BBONA FAMIJA
Ingredienti: quattro uova, 1 o 2 cipolle (o getti di vitalba, o altro ortaggio o verdura) tagliate fine, mentuccia tritata, olio, sale e pepe q.b.
Istruzioni. Far stufare un poco cipolle o verdure, versarle in una capace scodella o insalatiera, aggiungere la mentuccia, poi le uova ben sbattute, e amalgamare. In una padella larga, scaldare poco olio e versare il tutto. Far cuocere bene, a fuoco basso, da entrambi i lati. Risulterà sicuramente meno trasparente e più gustosa che nel sonetto. I cuochi “filologi” belliani Doc, ovviamente, seguendo pignolescamente il sonetto faranno a meno di cipolle e verdure. Tanto peggio per loro.

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"Malgrado la critica ritenga controversa l'età del locutore [cioè l’io narrante, NdR], ho sempre pensato che a parlare fosse un ragazzo (anche perché la poesia è dominata dalla figura della nonna)”, ha scritto il critico Valerio Magrelli sul Corriere della Sera, a proposito di questo sonetto. “Proprio per questo, nonostante le infinite trasformazioni che la vita quotidiana ha subìto in quasi due secoli, credo che la maggiore differenza rispetto alla Roma dei giorni nostri non riguardi i videogiochi o i poster degli eroi sportivi, bensì la condizione dell'adolescente. Ciò che contraddistingue l'attuale situazione dei giovani è infatti, se possibile, un accresciuto senso di spaesamento, solitudine, estraneità”. Insomma – concludeva Magrelli – che diversità nella condizione di oggi, sia della famiglia, sia della esistenza stessa dei giovani!”

Certo, nel mondo del Belli i giovani sono in maggioranza, anche se per lo più s’intuiscono, s’intravvedono sullo sfondo. L’età media dei romani al tempo del Belli era molto più bassa di quella dei tempi moderni, com’era tipico di una società arretrata e povera.

Il confronto con i giovani di oggi è stridente. «Mangiano, giocano alla play-station e vanno a letto sotto i manifesti di Francesco Totti e Valentino Rossi», aveva scritto sul Corriere Eraldo Affinati, scrittore attento al mondo giovanile, parlando delle tipiche serate dei ragazzi più giovani, a Roma come in altre città. “Leggendo questa frase – gli risponde Magrelli – mi è tornato in mente il sonetto di Belli «La bbona famijja», con la celebre strofa finale: «E appena visto er fonno ar bucaletto/ 'na pisciatina, 'na sarvereggina, / e, in zanta pasce, sce n'annàmo a letto». Quella famiglia del lontano 1831 si preparava al sonno finendo un boccale di vino, andando al gabinetto, recitando le preghiere della sera (Corriere della Sera, 30 giugno 2003).

La stragrande maggioranza della popolazione di Roma ai tempi dei Papi re viveva in condizioni di estrema povertà. Come in tutti i Paesi arretrati, la mancanza di libertà economica, politica e culturale, il fanatismo e il bigottismo religioso, il privilegio sociale, la corruzione diffusa e l’occhiuta censura, impedivano non solo il progresso delle idee, ma anche il fiorire di mestieri, arti, professioni, commerci, industria, insomma non solo la ricchezza diffusa, ma la vita stessa dell’uomo. Anche di questo la Chiesa dovrà essere chiamata un giorno davanti al tribunale della Storia.

Roma, insomma, era un piccola città morta, dove perfino alcuni aristocratici chiedevano pensioni pubbliche, non diversamente dai ricchi di oggi che chiedono la borsa di studio per i figli (cfr. il sonetto La bbonificienza all’articolo precedente). Il divario di status economico, giuridico e sociale tra ecclesiastici e nobili, da una parte, e popolo minuto, dall’altra, era enorme, un dato ritenuto offensivo per la coscienza di oggi, e contraddittorio anche per l’ostentata e ipocrita “morale cattolica”, che solo la cinica promessa della “ricompensa nell’Altro Mondo” riusciva a rendere tollerabile agli occhi del popolo e dello stesso clero. Clero che non poteva non sapere di questa intollerabile differenza tra teoria e pratica.

Così, mentre nobili, papi, cardinali, vescovi, monsignori e parroci vivevano nel lusso, nell’ozio ed esercitando il gusto sadico del Potere (che compensava anche gli ultimi gradi, i più poveri, della gerarchia di comando: i semplici preti), le famiglie di Roma si trascinavano a stento nella vita quotidiana, cercando materialmente di sopravvivere alla fame, alle malattie, all’abulia. Una povertà materiale e psicologica che il Belli descrive con partecipazione, avendola provata egli stesso per gran parte della propria vita.

Intanto, mentre la veccharella prepara la sua esile frittata, i ricchi e i preti gozzovigliano. E, anzi, si mormora che il cardinal Vicario non solo mangi e beva per cento, ma si appropri perfino delle collette pubbliche, da lui indette con un trucco "scientifico" (così appare al popolino), probabilmente un "diabolico" barometro (Er cardinale caluggnato, 10 giugno 1834):
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Nun j’abbasta a l’arètico scontento
de mormorà cch’er Cardinàr Vicario
maggna otto vorte ppiú dder nescessario,
e ccirca ar beve poi bbeve pe ccento.
(…)
Anzi, arriva a l’accesso de scommette
che cco cquello strumento Su’ Eminenza
sce regola l’ingergo a le collètte.
Ché ssi er búggero suo disce: diluvia,
er Cardinale subbito dispenza
una collètta d’appetènna-impruvia.

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Versione. Non gli basta all'eretico scontento [il Demonio?] di mormorare che il Cardinal Vicario [Placido Zurla, citato dal Belli in ben 10 sonetti] mangia otto volte più del necessario, e in quanto al bere, poi, beve per cento persone. (…) Anzi, arriva al punto di scommettere che con un suo strumento [il popolino vociferava che avesse un apparecchio segreto che prevedeva la pioggia] Sua Eminenza manovri l’imbroglio delle collette. Così se l’apparecchio dice: diluvia, il Cardinale subito dispone una colletta pubblica ad petendam pluviam, [cioè per impetrare da Dio la pioggia].

(*) Le candele di sego – a meno che non fossero quelle rinomate di Spoleto, della qualità profumata – emettevano cattivo odore, cosa che non accadeva con le lampade ad olio d'oliva, fosse pure il peggiore e irrancidito (non per caso l'olio immangiabile è tutt'oggi chiamato "olio lampante" o da lampade). Era molto economico, perché un litro bastava ad illuminare una lampada per circa 200 ore, ma dava luce molto flebile, inadatta alla lettura, a differenza del petrolio. Quest'ultimo combustibile si diffuse nelle case di Roma nella seconda metà dell'Ottocento.

IMMAGINI. 1. Ecco come doveva presentarsi un tipico focolare di una casa povera o contadina del primo Ottocento, con le piccole sedie impagliate, il fiasco, la botticella, il paiolo sulla fiamma (era sospeso mediante una catena) e il tavolino. La foto, tratta da internet, è forse la ricostruzione di qualche “museo contadino”. Ma è stato più forte di noi: abbiamo dovuto correggere con del verde il tanto rosso (salsa di pomodoro!) che spiccava sulla tavola (polenta, pizza?). Gli allestitori di quella “scena” devono sapere che il pomodoro – cibo nuovo – o non c’era o era ancora poco usato dai diffidenti contadini dell’Ottocento che lo ritenevano velenoso, o quasi. Comunque, non può essere raffigurato come alimento o condimento “tipico” della nostra alimentazione prima del 1960. 2. Un vicolo della Roma sparita di Roesler Franz: via Giulio Romano. 3. La frittata cotta sul fuoco irregolare della brace.

AGGIORNATO IL 14 NOVEMBRE 2021

30 settembre 2010

Bestemmiatori, bari e violenti? Quei dannati giocatori di carte

Siamo lieti di ospitare un contributo sulle carte da gioco nella Roma dei Papi, della dott.ssa Marina Morena, dell'Archivio di Stato:
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Il “tempo libero”? L’idea stessa di tempo libero nelle epoche passate non esisteva. E’ un concetto moderno, collegato all’attuale organizzazione del lavoro. E c’è chi sostiene che, in fondo, non sia altro che un mezzo per allentare le tensioni psicologiche e sociali, e migliorare il rendimento del lavoro stesso.
A Roma, in passato, oltre agli svaghi organizzati dalla comunità (feste patronali, Carnevale, tombole, giostre, corse di cavalli…) un passatempo molto popolare era quello delle carte da gioco, diffuse in Europa dalla fine del Trecento, e che nel Quattrocento conobbero una espansione notevole grazie alla nascita dell'arte della stampa.
Ma alcuni aspetti trasgressivi legati a certi giochi di carte attirarono sùbito l’attenzione dei governanti. L'abitudine di puntare denaro, il fatto che la vincita dipendesse dalla fortuna, e i comportamenti correlati al gioco d’azzardo, provocavano un accanimento tale da indurre chi li praticava a una vita oziosa, incline alla bestemmia, ai furti e alle risse. Il linguaggio scurrile e le parole forti erano comuni tra i giocatori, come testimonia il Belli. E anche una semplice parolaccia, riferita al parroco, che allora vigilava sui costumi, portava addirittura ad una pena pecuniaria (La penale, 3 dicembre 1832):

...giucanno co ccerti vitturini,
come me vedde vince un lammertini,
disse pe ffoja: "Eh bbuggiarà Ssantaccia!"

Ovvero, giocando [a carte] con alcuni vetturini, quando mi vidi vincere [dal mio avversario] un Lambertini [moneta d'argento di 2 paoli], sbottai per l'ira: "E vada a farsi fottere Santaccia!" [figura proverbiale di prostituta a Roma].

In particolare la bestemmia, abitualmente in bocca al giocatore, era considerata un reato molto grave per la morale cattolica. Lo testimoniano i bandi generali, emanati periodicamente per ricordare al popolo tutto ciò che era proibito. La bestemmia era il reato che veniva nominato per primo. E che fosse collegata alle carte da gioco ce lo ricordano non solo un sonetto del Belli (v. sotto: Er padraccio) ma anche i cartelli affissi fino a pochi decenni fa nelle osterie di paese o di periferia dove si giocava a carte: “I giocatori sono pregati di non bestemmiare!”

Le pene? Chi offendeva Dio, Gesù Cristo, Maria Vergine e i Santi era punito la prima volta con tre tratti di corda in pubblico, la seconda con la pubblica frusta, la terza con la galera per cinque anni. Non si ammetteva come attenuante lo stato di ubriachezza, o l’eccesso di collera.
Barattieri, giocatori, osti e bari costituivano un microcosmo che ruotava intorno al gioco, diffusissimo sia fra i nobili che fra i popolani.
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La rapida diffusione delle carte da gioco, aveva persuaso alla fine del secolo XVI “er papa tosto” Sisto V a tassare questo settore. Detto, fatto. Si delegò ad un appaltatore privato il diritto esclusivo a fabbricare, bollare e vendere le carte da gioco. In cambio egli avrebbe pagato una somma consistente, che Sisto V volle assegnare come rendita all’Ospedale dei poveri mendicanti (il suo San Sisto). Anche più tardi la politica dei papi fu ambigua, sempre in bilico fra tolleranza, per non rinunciare alle entrate connesse, e severità, per cui si vietarono spesso i giochi per i noti fenomeni di disordine sociale.
Le carte da gioco, per essere vendute e poter circolare a Roma e nello Stato pontificio da quel momento in poi avrebbe dovuto avere il bollo. L’idea fu talmente vincente da arrivare, con varie correzioni, fino ai nostri tempi.
Esistevano due tipi di bolli per le carte da gioco: quelle per i mazzi che si usavano in casa e quello per i mazzi che si usavano nei luoghi pubblici.
Tale organizzazione provocò spesso delle infrazioni: il costante uso di carte di contrabbando migliori e più economiche, l’impiego di mazzi non bollati ecc (v. in basso l’intestazione di uno dei tanti Editti contro le carte false).
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Per i ceti nobili e benestanti alcuni giochi di carte erano un passatempo alla moda per impiegare il tempo giocando nelle lussuose dimore, durante feste e balli, scampagnate, oppure nei caffè, nei biliardi. Si ha notizia di consistenti patrimoni nobiliari andati persi sul tavolo del gioco d’azzardo.
Il popolino romano, nonostante i pochi mezzi a disposizione, era caratterizzato da un desiderio costante di svago, in contrasto con le difficili condizioni di vita. E così ogni spazio era buono per tirare fuori un mazzo di carte: nella piazza del mercato, vicino alle chiese e alle fontane, nei “giochi lisci” (campi di bocce) e nelle osterie.
Per motivi di ordine pubblico, nel corso dei secoli, a Roma furono ripetutamente proibiti i giochi di carte nelle strade e piazze, e nelle osterie, dove si beveva la classica fojetta* di vino e giravano le prostitute. Possiamo immaginare l’ira, e le lamentele degli appaltatori di turno, che vedevano così decurtati i loro utili. Erano diffusissimi a Roma nell’Ottocento gli spacci di carte da gioco.
Infine una curiosità: all’epoca del Belli, dopo varie vicissitudini, il settore che si occupava di bollare le carte da gioco era stato affidato proprio all’Amministrazione del Bollo e Registro (ufficio in cui proprio il Belli aveva lavorato dal 1813 al 1828).
Quanto di tutto questo si trova nei Sonetti belliani? Senza distinzione alcuna fra plebe, nobili e preti, la Roma del Belli frequenta l’osteria, gioca a carte e bestemmia (non solo giocando a carte). Anzi, i sonetti costituiscono un’importante fonte di conoscenza per i giochi in uso nell’Ottocento. Belli infatti in più occasioni cita i giochi di carte dell’epoca: faraone, zecchinetto, briscola, tressette, primiera, naso-e-primiera, mercante in fiera.
Un sonetto del Belli, intitolato La partita a ccarte, è dedicato ad un giocatore incallito che a detta d’un amico si atteggia ad esperto, ma invece è una schiappa, dice che la partita lui l’ha “regalata”, ma in realtà di ogni perdita fa un dramma, bestemmiando a più non posso:
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LA PARTITA A CCARTE
Arigalata, eccí! cche bber rampino!
Vedi un po’ de vennécce er zol d’agosto!
Tu mmó a sto ggioco sce fai tanto er tosto,
e nu la vôi capí cche ssei schiappino.
Inzomma è ppatto-fatto c’a ’gni costo
hai da vince ogni sera er tu’ lustrino.
Ma nun zai stacce un cazzo ar tavolino.
Và ar muricciolo, và, quello è ’r tu’ posto.
Guarda io, che cco ttutta la mi’ jjella
pago com’un zignore la mi’ pujja
senza d’ariscallamme le bbudella.
E nun fò ccom’e tté ttutta sta bbujja,
che appena vedi un pò de svenarella,
te bbiastími er pastèco e lla lelujja.
Roma, 19 novembre 1832.
Versione. La partita a carte. Regalata, dici? Eccì! Che bella scusa! Non cercare di venderci il sol d’agosto! Ora tu a questo gioco fai tanto l’esperto, ma non lo vuoi capire che sei una schiappa. Insomma, che cos’è, un contratto, che tu ogni sera devi ad ogni costo vincere il tuo lustrino [grossetto, mezzo paolo d’argento]? Ma non sai stare al tavolo di gioco: va' al muretto, va', quello è il tuo posto. Guarda me, con tutta la mia sfortuna pago come un signore il mio gettone senza riscaldarmi le budella. E non faccio come fai tu tutto questo lamento, che appena vedi che inizia una perdita continua ti metti a bestemmiare il pax tecum e l’alleluja..
La popolare zecchinetta (v. l'incisione del Pinelli), o zecchinetto per il Belli, e la sua variante forse più aristocratica detta faraone, erano giochi d’azzardo per eccellenza. Come tali duramente puniti se scoperti dalle guardie. Ma anche nel Belli il riferimento al gioco è utilizzato comunque sempre per descrivere la zona buia del personaggio in questione. Così è per il padre giocatore che non assolve ai doveri di padre (nel sonetto Er Padraccio):
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ER PADRACCIO
Vestí li fiijj? lui! Santa pascenza!
Che cc’entra lui co li carzoni rotti?
A llui j’abbasta d’annà a li ridotti
a ggiucà a zzecchinetto; ecco a cche ppenza.
Ebbè, cquanno ho strillato? me dà udienza
com’er Papa dà rretta a li sciarlotti.
Bbisoggna che l’abbíla io me l’iggnotti;
nun c’è antro da fà, ssora Vincenza.
Tutto er mi’ studio è ppregà Iddio che vvinchi.
Nò cc’allora sce speri quarc’ajjuto
ma ppe avè mmeno carci in ne li stinchi.
Quela bbestiaccia io la conosco ar pelo;
e quanno torna a ccasa c’ha pperduto,
sora Vincenza mia, òprete scelo!
14 aprile 1835
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Versione. Il pessimo padre. Vestire i figli, lui? Santa pazienza! Che c’entra lui con i calzoni rotti? A lui basta andare nelle salette a giocare a zecchinetta; ecco a che pensa. Ebbene, quando ho strillato? Mi ascolta come il Papa dà retta ai ciarlotti [specie di uccelli: proverbio]. Bisogne che la bile io me la inghiotta, non c’è altro da fare, signora Vincenza. Tutta la mia preoccupazione è pregare Dio che lui vinca. Non per sperare di avere qualche aiuto, ma per avere meno calci negli stinchi. Quella bestiaccia io la conosco dal pelo: quando torna a casa ed ha perso, signora Vincenza mia, apriti Cielo!
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Lo stesso si dica per rappresentare il quadro desolante dei preti romani nel sonetto Li Chìrichi, del 29 novembre 1833. Qui in particolare potrebbe trattarsi di religiosi minori (forse adibiti alle funzioni di sacrestani, dice una nota del Vigolo, ma il Belli usa altrove il termine “sagristano”):
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Li chirici de Roma, crosc e spine!
Dove te vài scavà ppeggio gginìa?
Uno ruffiano, uno gatto, uno spia
uno…inzomma canajja senza fine,
ggiucheno a zzecchinetto in zagrestia…

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Versione. I chierici di Roma, croce e spine! Dove vuoi andare a scavare peggior razza? Uno è ruffiano, uno ladro, uno spia, uno… insomma canaglia senza fine, giocano a zecchinetta in sacrestia…
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E infine il mondo privilegiato dei nobili nella Bbonifiscenza (il secondo sonetto con questo titolo, quello del 5 aprile 1836), in cui sotto il falso nome di “beneficienza” l’amministrazione pontificia scialacqua tanti soldi faticosamente raccolti, addirittura una pensione, per far divertire col gioco delle carte una principessa Chigi.
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Cinquanta scudi ar mese de penzione
a na vecchiaccia frascica de vizzi,
ppe’ mmetteli su un asso ar faraone.

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Versione. Cinquante scudi al mese di pensione ad una vecchiaccia fradicia di vizi, per consentirle di puntarli su un asso al faraone.
MARINA MORENA
IMMAGINI. 1. Il cavaliere di Coppe (carte da gioco prodotte da C.Roxas, 1810). Le carte di stile spagnolo erano diffuse anche a Roma, non esistendo le carte "romane". 2. "Comitiva di oziosi, giocando alla zecchinetta in Roma" (incisione di B. Pinelli, 1816, part.). Da originale in Archivio di Stato, Roma: Nuova raccolta di 50 costumi pittoreschi incisi all'acquaforte da Bartolomeo Pinelli. 3. Un'antica carta da gioco italiana: il Re di Spade. 4. Carte da gioco viterbesi, di Scipione Moscatelli, prodotte a mano, per tutto l'Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento. Erano vendute anche a Roma. 5. Un editto contro le carte da gioco di contrabbando, cioè senza bollo.
* Piccola bottiglia di vetro chiaro trasparente da 500 ml a bocca svasata, con linea della misura esatta e il bollo di Stato. Tipica di Roma e delle Marche. Fu introdotta infatti, per limitare le ricorrenti frodi degli osti, dal papa marchigiano Sisto V.

28 settembre 2010

SPQR, Roma e i preti. Ecco che significa davvero questa sigla

Che vuol dire? Che è un invito irresistibile per i giochi di parole. In ogni epoca gli spiritosi da taberna o thermopolium (oggi diremmo "da bar"), per lo più in provincia – ahimé, ingenuamente sicuri di sé, capaci di tutto e senza vergogna: tipico dei provinciali – si sono sempre esercitati sulla bellissima e orgogliosa sigla che denota la Res Publica, cioè lo Stato di Roma antica: SPQR.
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Che vuol dire questo acronimo formato dalle iniziali di altre parole (dal greco antico àkron=estremità e ònoma=nome)? Come tuttora pochi sanno, significa Senatus Populusque Romanus: il Senato e (è il que aggiunto in coda ad un nome, che vale et, atque o ac messi davanti ma staccati) il Popolo Romano, le due entità che avevano il potere costituzionale e politico. Una diarchia fondata sul diritto, che anticipa genialmente le liberal-democrazie moderne.
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Freud, creatore della psicanalisi, ha scritto un pregevole saggio sui "giochi di parole" e i "motti di spirito", specialità in cui l’italianuzzo medio, convinto a torto di essere spiritoso, crede di eccellere, come si ascolta nei corridoi di tutti gli uffici da Trepalle a Pantelleria. Non c'è impiegato romano di oggi, per esempio, che non dica ancora "olive dorci" (olive dolci) al posto di "arrivederci", imitando Stanlio e Ollio. E non parliamo delle insegne penosamente fantasiose dei negozi della Penisola, da "Scarpe diem" per una bottega di calzature, all'ironico "Non solo fiori" per un fioraio che vende invece soltanto fiori, fino al doppio Kitsch geniale di "Cinecittà" per un negozio di cose cinesi in una via dedicata ad un regista di cinema... A proposito di "Puntini, puntini...", è il negozio di sartoria di una mia amica. Ormai aprire un esercizio commerciale significa cadere in qualche gaffe lessicale, e fare una battuta quando si è inadeguati vuol dire cadere in una figuraccia.

Le sigle, poi, hanno sempre stimolato la fantasia satirica del popolo. La targa SCV della Città del Vaticano, di solito abbinata a lussuose automobili scure di rappresentanza, è ovviamente letta dai romani, che non sono mai stati teneri col clero, "Se Cristo Vedesse". Naturale che l'antichissima SPQR si sia prestata a innumerevoli interpretazioni. Una leggenda da internet, ovviamente infondata e anacronistica, vuole che cominciassero i Sabini, a nord di Roma, fieri e duri come la gente di montagna, ad interpretare SPQR come, nientemeno "Sabinis Populis Quis Resistet?", cioè "Chi potrà resistere ai popoli sabini?" Chiunque. Infatti, furono subito sconfitti e assimilati dai Romani. Che allora erano la gente più tosta di tutte, altro che quei mollaccioni di oggi. E guai a confondere, come fanno ancor oggi i provinciali nelle battute spiritose, i Romani di allora con i romani di oggi. Come passare dal fuoco all’acqua, dal ferro alla ricotta.

Ed è un vecchio vezzo: i soliti nullafacenti amanti della satira a buon mercato e senza conseguenze penali, sicuramente romani medievali, s’inventarono perfino uno "Stultus Populus Quaerit Romam", ovvero "La gente stolta ama Roma".

Noi tutti, da bambini, soprattutto a Roma, ma anche in parecchi luoghi al Sud e al Nord, abbiamo scherzato su una sigla per noi familiare che sta dappertutto: dal sinbolo del Municipio in Campidoglio, allo stemma dell’Azienda Tranviaria ATAC, fino ai tombini dell’acqua e delle fognature. Senza contare le iscrizioni su lapidi e architravi antichi. Ma da piccoli. Naturale che all’asilo, a sei anni di età, e proprio a Roma, ci si consideri spiritosi e anticonformisti con "Sono Porci Questi Romani". Non credo che a Bergamo, a Bari, Sassari o a Enna i bambini di sei anni farebbero altrettanto spirito con la sigla della propria città. C’è anche una graduatoria nella naturale stoltezza dei bambini: ebbene, i piccoli romani sembrano in questo un po' più auto-ironici, dunque più saggi, dei loro coetanei di provincia. Di qui una nota obbligatoria di encomio per i bimbi romani, pur con tutto il male possibile che pensiamo dei romani di oggi, cioè dei pugliesi, siciliani, napoletani, marchigiani, laziali, abruzzesi, calabresi, umbri, sardi ecc., che più o meno abusivamente vivono (viviamo), e senza ringraziare, a Roma. E, di contro, con tutto il bene possibile che pensiamo dei Romani antichi.

Ma quando fanno gli spiritosi, come i bambini romani, degli anziani signori di provincia, in questo caso del Nord? Non impressiona che abbia fatto in ritardo lo spiritoso con una barzelletta di 80 o 250 anni fa, che già non faceva più ridere nell’800 e che oggi a Roma ripetono solo i bambini dell'asilo, un politicante provinciale, anzi il simbolo stesso dei provinciali furbi che hanno fatto una carriera fondata sul nulla, senza avere nessuna eccellenza, senza saper far nulla nella vita (e sempre con la stessa mentalità ristretta), passando come se niente fosse dal paesotto alla Metropoli, in cui possono finalmente comandare senza farsi ridere dietro da compaesani, figli, parenti e moglie (in questo caso, guarda caso, siciliana: province di Nord e Sud unite).

D’altra parte, perfino il Comune di Roma utilizza facendo lo spiritoso la propria sigla (impropria, perché ora Roma non è uno Stato a sé, ma è solo uno degli 8000 comuni dell’Italia, e quindi non ha un suo Senato, e neanche più i finti e ridicoli "senatori" del Medioevo), e si inventa la campagna di sensibilizzazione di giovani volontari per la tutela del patrimonio artistico e culturale, con tanto di errore d’italiano, un sostantivo anziché l’imperativo: "Salvaguardia, proteggi, qualifica Roma".

Evviva il Belli, allora, che nel suo periodo più fecondo dà alla sigla SPQR una geniale interpretazione satirica, quindi etico-politica, facendo parlare un prete istitutore. E come riferisce il grande Stendhal nel suo Viaggio in Italia, nel Regno Pontificio ad ogni stranezza, incongruenza, ingiustizia o prepotenza, c’era sempre un barbiere, un farmacista, un professore, un negoziante, un artigiano, che alla meraviglia o lamentela del forestiero o turista straniero, quasi a scindere le proprie responsabilità aprendo le braccia si scusava: "Che volete, signore, qui siamo governati dai preti!". Così qui. Con l’aggravante del cinismo, più che dell'autoironia: in questo caso a parlare, infatti, è addirittura un maestro-prete (visto il "don"):

SPQR
Quell’esse, pe, ccú, erre, inarberate
sur portone de guasi oggni palazzo,
quelle sò cquattro lettere der cazzo,
che nun vonno dí ggnente, compitate.
M’aricordo però cche dda regazzo,
cuanno leggevo a fforza de frustate,
me le trovavo sempre appiccicate
drent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.
Un giorno arfine me te venne l’estro
de dimannanne un po’ la spiegazzione
a ddon Furgenzio ch’era er mi’ maestro.
Ecco che mm’arispose don Furgenzio:
“Ste lettre vonno dí, ssor zomarone,
Soli preti qui rreggneno: e ssilenzio”.
Roma, 4 maggio 1833

Versione. SPQR. Quell’esse, pi, qu, erre, inalberate sul portone di quasi ogni palazzo, sono tutte lettere che non valgono niente e compitate non significano nulla. Mi ricordo però che da ragazzo, quando leggevo a forza di frustate, me le trovavo sempre tutte insieme nell’abbeccedario. Un giorno finalmente mi venne il desiderio di chiederne la spiegazione a don Fulgenzio, [il prete] che era il mio maestro. Ecco che mi rispose don Fulgenzio: "Queste lettere vogliono dire, sor somarone, Solo Preti Qui Regnano". E silenzio".

3 settembre 2010

Papa uomo o donna? Una sedia forata permette di accertarlo.

Jean era una giovane donna inglese bella e colta. Come mai finì in un convento maschile travestita da monaco? Questo è il punto. Se riusciamo a trovare una risposta a questa domanda, poi non ci sarà difficile rispondere al secondo quesito: come diavolo fece a farsi eleggere Papa?
      Dopo sette anni di ricerche, la scrittrice americana Donna Woolfolk Cross, docente di letteratura, fece uscire nel 1996 la prima edizione di un libro ("Pope Joan") sulla controversa figura della papessa Giovanna. Testo che è stato il soggetto del film di Sönke Wortmann "Die Päpstin" (La papessa), presentato al Festival di Berlino del 2009 e distribuito nel maggio 2010 in Italia.
      Ora, insieme al film, il libro appare anche in Italia da un editore che Il Mondo del Belli stima molto, per due motivi: 1. si occupa anche di cose romane e della Roma d'una volta (e quando si chiamava Avanzini e Torraca pubblicò la prima edizione economica dei Sonetti con note del Cagli); 2. fa libri bellissimi, ben fatti, ben stampati, che non si rompono, ed economicissimi (La Papessa, Newton Compton, euro 4.90).
      Negli Stati Uniti, all’inizio il libro non vendette molte copie: l’editore, come spesso accade, era troppo pigro: non ci credeva. La Cross decise perciò di scendere in campo personalmente e di coinvolgere il pubblico sul tema intrigante e moderno della "giovane donna che cerca di superare le convenzioni sociali e gli stereotipi di genere facendo leva sulla sua intelligenza e tenacia". L’idea ebbe successo. C’era già stata, nel 1972, una prima trasposizione cinematografica della vicenda della papessa (con Liv Ullmann nel ruolo di Giovanna e con la partecipazione di Olivia de Havilland e di Trevor Howard nel ruolo di papa Leone). Ora è arrivato il lungometraggio presentato alla "Berlinale" basato sul libro della Cross. La scrittrice ha così potuto approfittare della notorietà che viene dal cinema per una ristampa riveduta e corretta della prima edizione (v. immagine della copertina).
      Lo scrittore Lawrence Durrell, che non solo era inglese ma in gioventù era stato nei Servizi segreti, e dunque non abituato a bersi qualsiasi cosa, ha ricostruito l'ambiente medievale nel quale poteva essere possibile una storia che oggi sarebbe impossibile. Una fanciulla orfana ma di intelligenza acutissima, adottata da un monaco predicatore che viaggia in tutta Europa, la traveste da fraticello per proteggerla dagli stupratori, la fa entrare nel monastero di Fulda, la fa studiare a Magonza (Mainz, in Renania). A poco a poco diventa così erudita in teologia da impressionare vescovi, cardinali e Sacro Collegio, che mai avevano visto una meraviglia del genere. Ed eccola col nome di Johannes Anglicus fare una prodigiosa carriera ecclesiastica, fino a salire al soglio pontificio col nome di Giovanni VIII. (La Papessa Giovanna, Longanesi 1973). La prima e unica papessa della Storia.
      Ma è proprio Storia? La vicenda sarebbe accaduta verso l’850-855 della nostra Era, subito dopo il pontificato di papa Leone IV o comunque prima di Benedetto III, che nei pochi mesi di pontificato si sarebbe preoccupato – dice la tradizione popolare – di eliminare accuratamente ogni documento e testimonianza del nome stesso dell’intrusa. A completare la censura, il nome papale di Giovanni VIII, quello della papessa, venne utilizzato da un papa di poco successivo (nel 872). Segno che la ferita, la vergogna, bruciava ancora, altrimenti che bisogno c’era di riprendere lo stesso nome e numero? Un accanimento, una vera damnatio memoriae, su cui è lecito più d’un sospetto.
"Non ci sono abbastanza documenti certi", "impossibile", sostiene oggi la Chiesa ufficiale. Obiezione: e degli altri papi del medesimo periodo abbiamo documenti storici sicuri? Molti sono solo dei nomi.
      Erano quelli, non dimentichiamolo, i secoli più oscuri e caotici della storia dell’Occidente. I famigerati "secoli bui" dell’Alto Medioevo, bui non solo perché se ne sa poco, ma anche perché all'opposto del "secolo dei Lumi", il Settecento, illuminato dalla luce della Ragione, erano dominati dalle tenebre del caos e del delitto, della violenza e della superstizione. Visti con gli occhi di oggi, tutto appare possibile in quei lunghissimi nove secoli, quando nel disfacimento dello Stato romano che proprio la Chiesa di Roma aveva fatto crollare con la carica eversiva del suo fanatismo, i vescovi erano di fatto le uniche autorità politiche e amministrative sul territorio. La Chiesa si trovò a riunire nelle proprie mani l’unico vero potere politico ed economico della Penisola. La professione di ecclesiastico romano era una carica nient’affatto spirituale, che assicurava a chi li voleva oro, castelli, titoli e potere. L’elezione dei papi avveniva spesso in modo fortuito, quando non dipendeva direttamente dai rapporti di forza politici e militari di aristocratici e signorotti locali, per ragioni che nulla avevano a che vedere con la religione, tantomeno con la santità della vita di cardinali e papi.
      "Le cronache del tempo sono piene di delitti, colpi di Stato, rivolte di palazzo. Il clero, abbandonato a se stesso, sprofondò nella corruzione. I Pontefici e i Vescovi vivevano in un lusso da Mille e una notte. Abitavano palazzi sfavillanti di marmi e di ori. Si circondavano di servitori e concubine, imbandivano mense degne di Trimalcione, organizzavano concerti, danze e feste mascherate (...). La Chiesa, lacerata da lotte intestine e prigioniera della sua mondanizzazione, non era mai caduta tanto in basso". Marozia, una donna di Spoleto sfrenatamente sensuale e ambiziosissima, divenne l'amante di papi e principi e comandò a lungo su Roma e sulla Chiesa. Il suo amante papa Sergio III arrivò al punto da far strangolare i suoi avversari. Papa Giovanni X che si era opposto al matrimonio di Marozia con un conte Guido, fu deposto e lasciato morire di fame in carcere. Marozia impose come papa il giovanissimo figlio avuto da papa Sergio III. Si chiamò Giovanni XI, ed aveva solo dodici anni. (I. Montanelli e R. Gervaso, L'Italia dei secoli bui, Rizzoli, Milano 1965).
      Figuriamoci se poteva destare uno scandalo maggiore l'elezione di un papa-donna, sia pure sotto mentite spoglie. Vista con gli occhi di oggi, una donna travestita da uomo in quell’ambiente, oltre ad essere tecnicamente possibile vista l’effeminatezza di molti ecclesiastici, sarebbe stato, in fondo, un incidente, un peccato veniale. La storia dei papi di quel tempo è piena di ricatti, imposizioni e deposizioni violente, omicidi.       Altro che mascherate. Basta scorrere la lista dei papi prima e dopo la "papessa" per notare un dato inquietante: quasi tutti stranamente sono restati in carica pochi anni o pochi mesi, spesso deposti con la forza o morti anzitempo in modo misterioso e sospetto. Eppure sappiamo che erano in media più giovani e vitali dei pontefici di oggi. La durata del pontificato della papessa Giovanna è del tutto in linea con la durata media dei papi dell’epoca: due anni. E allora, come si spiega tanto sospetto accanimento della Chiesa nel negare, nel cancellare, nel censurare ogni traccia? Con l'antico disprezzo cristiano per la donna, una vergogna che supera evidentemente quella per i delitti, le ruberie e la lussuria.
      La Chiesa oggi nega, ovviamente, che le centinaia di documenti, stampe e citazioni su una donna eletta papa siano fondate, e accenna ad una "campagna anti-papista", forse di stampo inglese. Esistevano già i Riformatori e gli anticlericali nell’800 d.C.? No, però la Chiesa fa notare che stampe e documenti risalgono per lo più al tardo Medioevo e al primo Rinascimento.
      Vero è, invece, che i primi a darne notizia furono proprio i religiosi, e non i perfidi inglesi, ma i francesi don Giovanni di Metz, studioso domenicano della Lorena, nel 1240, e poi il confratello don Martino di Troppau (Martinus Polonus) che nel suo Chronicon pontificum et imperatorum parla di Johanna, originaria di Mainz o dell'Inghilterra.
      "Si trattava di un papa o piuttosto di una papessa, perché era donna. Travestendosi da uomo grazie al proprio ingegno diventò dapprima segretario della Curia romana, poi cardinale ed infine papa", si legge a proposito di una Johanna inglese o nativa di Mainz nella Chronica Universalis del frate Jean de Mailly (ca. 1250).
      E centinaia sono le stampe, le citazioni, gli scritti, anche di intellettuali prestigiosi, che danno per davvero esistita la papessa Giovanna. Come quelli del famoso filosofo e teologo francescano Guglielmo di Ockham. Nel Duomo di Siena, la sua immagine appare tra quella dei veri pontefici. Il grande Boccaccio, padre della lingua italiana e grande raccoglitore di storie curiose nel Decamerone, ne scrisse nel suo De claris mulieribus (Le donne famose): dunque, anche per lui la papessa era una "donna famosa", realmente esistita. Ma ne parla anche il Plàtina, che non era un umanista qualunque, ma era intellettuale di fiducia di vari papi e fu fatto prefetto della Biblioteca Vaticana da Sisto IV.
      Insomma, anche se non ci sono prove certe o se c’erano furono distrutte, le carte, le voci ricorrenti e tutte concordanti (nelle pure leggende, invece, le varianti sono infinite e alla fine discordanti), insomma tutte le citazioni che parlano di lei sono indizi troppo numerosi – direbbe un investigatore – perché la papessa Giovanna possa facilmente essere ritenuta, come ritiene oggi la Chiesa, un personaggio del tutto inventato, e non contenga molto o qualcosa di vero.
      Intanto, mentre la Chiesa negava l’evento straordinario del papa-donna, prendeva provvedimenti per cautelarsi da possibili travestimenti futuri.
      L’immaginazione popolare ingigantì forse l’importanza della cerimonia, ma certo questa sembrava fatta apposta per rassicurare non solo il popolino ma anche i cardinali, la Curia e l’intera comunità ecclesiale. E se non ci fosse stato il precedente della papessa Giovanna – argomentarono i critici della Chiesa di Roma – l’intero rito sarebbe stato inutile, anzi grottesco e perfino offensivo per la dignità del papa neoeletto e dei cardinali coinvolti.
      In che cosa consisteva? In una prova molto rozza, al limite della volgarità. Il papa, dopo l’elezione veniva fatto sedere su un’apposita sedia di porfido rosso con un largo foro sul pianale. Un bell’esemplare è conservato nei Musei Vaticani (v. immagine). Si tratta di un’elegante sedia “escretoria” di origine romana, probabile reperto di latrine di lusso tolte da chissà quali settori termali riservati ai Vip d’allora, i ricchi patrizi, oppure – secondo altri interpreti – di una “sedia gestatoria”, cioè d’un sedile da parto per gentildonne (nell’Antichità e a Roma soprattutto era molto usato il "parto seduto").
      Ebbene, assiso su questa sedia bucata, il neo-papa veniva tastato, attraverso il foro, nelle parti basse da un diacono o dal più giovane cardinale del Conclave, che introduceva il braccio da un'apertura laterale. E se l’investigazione era andata a buon fine, esclamava ad alta voce: "Virgam et testiculos habet!" ("Ha il pene e i testicoli"). E tutti gli ecclesiastici rispondono in coro: "Deo Gratias" ("Grazie a Dio"). Solo allora procedono alla consacrazione del papa eletto. (F.Hamerlin, De Nobilitate et Rusticitate Dialogus (ca.1490). "He has two balls, and they are well hung" ("Ha due palle e ben appese"), sarebbe stato invece il referto d'un cardinale, quasi di sapore medico, secondo il viaggiatore svedese L.Banck che aveva assistito all’incoronazione di papa Innocenzo X nel 1644 (v. l'antica stampa tratta dal suo rapporto), come riporta P.Stanford, The Legend of Pope Joan, Berkeley Books, New York 1999, pp.11-12.
Infatti, esisteva il detto "Testiculos qui non habet Papa esse non posset" (F.Sorrentino, Prova di Virilità, in "Medioevo", De Agostini, n.7, 2008 pp.90 e ss.).
      Che vuol dire, tradotto in parole povere ad uso degli ecclesiastici ambiziosi di ieri e di oggi: puoi anche avere una grande testa, ma se non hai i testicoli, scòrdati il Papato! Il che è davvero un uso improprio delle gonadi. E per la legge delle "pari opportunità" pone inquietanti parallelismi. Sarebbe come dire che, se alcune categorie di uomini hanno il potere grazie ai testicoli, allora, trasportando il ragionamento al femminile, avrebbero ragione escort, stagiste o donne "di piccola virtù" a fare carriera, soldi o politica con la vagina.
      Una conferma sulla funzione della sedia viene anche dalla Teologia portatile o Dizionario abbreviato della Religione Cristiana del barone d'Holbach, acuminato redattore delle voci religiose della Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Definisce la sedia stercoraria come "sedia bucata su cui il pontefice appena eletto pone le sue sacre terga, affinché possa essere verificato il suo sesso, onde evitare l'inconveniente di una papessa".
      Ma Bartolomeo Sacchi (il famoso "Plàtina" autore del libro di gastronomia De honesta voluptate et valetudine, tratto dal grande cuoco Martino da Como), era un umanista di Curia a stipendio dei Papi, e per di più prefetto della Biblioteca Vaticana. Quindi non poteva rischiare. E infatti, ricorda la sedia stercoraria in termini vaghi e ipocriti: "Questa sedia è stata così predisposta affinché colui che è investito da un sì grande potere sappia che egli non è Dio, ma un uomo, e pertanto è sottomesso alle necessità della natura".
      Laddove per "natura" non si sa bene quale delle tre funzioni della sedia forata il Plàtina intendesse privilegiare, se il defecare, il partorire - ma allora, andava benissimo la papessa Giovanna! - o il possedere (e all’occorrenza usare) i testicoli al fine di generare. Generare? E sempre lì torniamo. La lingua della Chiesa batte dove il dente duole.
      Fatto sta che perfino il fidatissimo Plàtina dove mette la fatidica sedia bucata? Nella sua Vita della Papessa Giovanna, guarda caso, rafforzando così e ad altissimo livello un collegamento che invece la Chiesa di oggi esclude. Anche per C. D'Onofrio il rito aveva carattere religioso, ma non potendosi arrampicare sugli specchi sale sulla sedia. Per lui è una "sedia da parto", e simboleggerebbe nientemeno la Santa Madre Chiesa che "genera" (aridaje!) i suoi figli destinandoli alla vita eterna (Mille anni di leggenda: Una donna sul trono di Pietro, Romana Soc.Ed 1978). Nel Seicento inoltrato lo storico e pastore protestante D. Blondel smentì che la sedia forata servisse a provare l’esistenza dei testicoli del papa.
      Il rituale della sedia forata sarebbe stato in vigore fino al 1513. Anzi i sedili su cui posare le terga pontificali erano due - ricordava A. Boureau - chiamati "seggi curuli". Ma, obiettiamo, la rituale sella curulis, riservata ai più alti magistrati Etruschi e Romani nelle cerimonie, non poteva essere di marmo, perché in origine era pieghevole, insomma un sedile di legno intarsiato e dorato a forma di X. Ad ogni modo, sul primo sedile il neoeletto papa avrebbe ricevuto lo scettro del comando e le chiavi di S. Pietro, sul secondo una cintura rossa dalla quale pendevano dodici gemme. E’ probabile che gli antichi cronisti e il popolino siano rimasti impressionati da questi sedili forati e li abbiano collegati alla storia, anzi alla leggenda, della papessa Giovanna (La papessa Giovanna. Storia di una leggenda medievale, Einaudi 1991).

      A proposito, come andò a finire la papessa? A Giovanna Angelica (così la chiama il Boccaccio) fu dato per segretario un giovane prete, erudito e raffinato, che standole sempre accanto finì per per scoprire il suo vero sesso. Così narra la storia. Ma il dramma, anzi il colpo di teatro, si compì in pubblico durante la processione di Pasqua. Tornando il Papa in Laterano, quando il corteo papale era vicino alla basilica di San Clemente, il cavallo che portava la Pontefice si imbizzarrì per la folla plaudente che stringeva la processione, e per lo spavento Giovanna ebbe doglie violente e un parto prematuro. Immenso lo scandalo. La folla - racconta la storia - fu impietosa, attribuendo il parto ad un prodigio del diavolo. La papessa fu fatta trascinare per i piedi da un cavallo e poi lapidata a morte nei pressi di Ripa Grande. Un dettaglio della leggenda vorrebbe che sulla sua tomba fosse stato inciso un verso che ricorda l’occultismo satanista: Petre Pater Patrum Papissa Pandito Partum. Parole attribuite ad un indemoniato durante il passaggio della papessa. Ma qui siamo in pieno esoterismo.
      Sul luogo in cui fu svelata la vera natura della papessa, all’angolo tra via dei SS. Quattro Coronati e Via dei Querceti, fu eretta una piccola edicola votiva tuttora esistente, buia e in stato d'abbandono, nota come il "Sacello". E' chiusa da un'inferriata e risale almeno all’XI secolo. Ma nel Seicento anche l'itinerario dell'antica processione pasquale fu smentito da G. Blondel. A suo dire, la tradizionale processione papale di Pasqua verso l'800 non passava nella strada dove secondo la storia popolare - creduta vera da tutti fino alla fine del Rinascimento - sarebbe avvenuto il parto della papessa Giovanna.
      Vera, leggendaria o simbolico-pedagogica che sia questa vicenda, resta il suo trasparente significato semantico: l'ossessione del popolo della Chiesa e delle sue gerarchie, in un'epoca confusa e violenta in cui il potere ecclesiastico si imponeva sempre più come potere politico ed economico, per la sessualità del Papa, vicario di Dio, sì, ma anche pericolosamente uomo, e per la donna, nella quale Satana era sempre pronto ad incarnarsi. Tre paure - il sesso, la donna e il diavolo - che hanno alimentato fin quasi ai nostri giorni il fanatismo della Chiesa di Roma, e che la storia di Giovanna ebbe il merito di sintetizzare e simboleggiare alla perfezione.
      E Giuseppe Gioachino Belli come entra in questa contorta avventura? Come il Boccaccio, non poteva perdersi una tale bellissima storia dell'immaginario popolare, e la narra in un sonetto con la consueta sintesi scultorea d'un virtuale e ignorantissimo popolano romano:

. LA PAPESSA GGIUVANNA
Fu ppropio donna. Bbuttò vvia ’r zinale
prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato;
doppo se fesce prete, poi prelato,
e ppoi vescovo, e arfine Cardinale.
E cquanno er Papa maschio stiede male,
e mmorze, c’è cchi ddisce, avvelenato,
fu ffatto Papa lei, e straportato
a Ssan Giuvanni su in zedia papale.
Ma cquà sse ssciorze er nodo a la Commedia;
ché ssanbruto je preseno le dojje,
e sficò un pupo llí ssopra la ssedia.
D’allora st’antra ssedia sce fu mmessa
pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
si er pontescife sii Papa o Ppapessa. 

26 novembre 1831 

Versione. La papessa Giovanna. Fu proprio donna. Prima di tutto gettò via il grembiule e divenne soldato, poi si fece prete, poi prelato, poi vescovo e infine cardinale. E quando il papa maschio stette male e morì (c’è chi dice avvelenato) fu fatta papa lei e trasportata a S.Giovanni sulla sedia papale. Ma qui si sciolse il nodo della commedia, perché ex abrupto [all’improvviso] le presero le doglie e partorì un bambino là, sopra una sedia. Da allora un’altra sedia fu introdotta, per tastare sotto il sito delle voglie se il pontefice sia papa o papessa. .


IMMAGINI. 1. Il manifesto del film tedesco Die Papstin (uscito quest'anno in Italia col titolo La Papessa) tratto dal libro Pope Jean, di Donna Woolfolk Cross. 2. La copertina del libro della Cross (edito in Italia da Piemme). 3. La sedia stercoraria in porfido rosso, di origine romana, conservata ai Musei Vaticani. 4. Papa-donna con bambino, una fantasiosa stampa popolare apparsa in Germania. 5. La Papessa, dipinta su una carta dei tarocchi per i Visconti-Sforza da Bonifacio Bembo (ca. 1450). The Pierpont Morgan Library, New York. La Papessa, è tuttora una delle carte più famose dei tarocchi, ritratta anche come la "prostituta sulla bestia" citata nell'Apocalisse. 6. Papa Innocento X appena eletto (1644) è sottoposto alla "prova della sedia" per l'accertamento della virilità.

24 agosto 2010

Fatti curiosi ieri e oggi: quando il prete è preso per un cinghiale.

Sembra ripetere la tragicomica vicenda raccontata dal Belli in un suo gustoso sonetto la cronaca d'oggi: un inspiegabile incidente di caccia che ha del grottesco.
      Un cacciatore di frodo ha sparato e ucciso con un solo colpo, usando un grosso proiettile da cinghiale, nelle Murge, vicino Altamura (Bari), un prete, don Francesco Cassol, 55 anni, parroco a Longarone, scambiando – così ha sostenuto davanti ai carabinieri – il sacco a pelo, dove il sacerdote dormiva all’aperto e senza tenda, per "un grosso cinghiale". L’omicida confesso è Giovanni Converso Ardino, di 51 anni. Secondo le sue dichiarazioni, il cacciatore verso la mezzanotte tra il 21 e il 22 agosto è arrivato al Pulo di Altamura con la propria autovettura per cacciare di frodo i cinghiali, e si è fermato a qualche decina di metri dal terreno dove si trovavano don Cassol e i partecipanti al ‘Raid Goum’, un ritiro spirituale itinerante in località disabitate. 
      Anche se a noi sembra incredibile, dopo aver visto la foto del luogo dell’omicidio (i cinghiali hanno un olfatto sensibilissimo, di notte si muovono, e comunque mai si fermerebbero a lungo in un terreno piatto, scoperto e povero di cespugli com’è il "deserto" di Altamura), il "cacciatore" ha dichiarato di aver scambiato al buio le sagome dei dormienti nei sacchi a pelo per un branco di cinghiali, ed ha deciso di colpire quello che riteneva essere il capo branco. Pochi istanti dopo, avendo sentito il vociare dei componenti del gruppo, si è reso conto del tragico errore, ed è fuggito con la sua auto. Questa la versione che i carabinieri hanno per ora divulgato mostrando di credere alle giustificazioni del bracconiere. 
      La lotta fra l'uomo e le fiere è di antica data. Fino al secolo scorso i pastori dovevano difendersi dai lupi, oggi sono i cinghiali a fare danni all'agricoltura, essendo in grado di riprodursi in poco tempo e di devastare in una nottata grandi estensioni di colture, specialmente il mais. Molteplici e interessanti i significati religioso-mitologici del cinghiale nell'antichita'. Per i Celti era un animale sacro, simbolo della forza divina. In India rappresentava la forza creatrice dopo il caos originale. Molte culture mediterranee lo identificavano con la morte, ucciderlo sigificava sconfiggere gli inferi. Per i Greci, al contrario, simboleggiava il coraggio virile, mentre per gli Etruschi era il collegamento con le divinita' infernali e veniva cacciato di notte, sembra anche con pantere e cani feroci, al suono di flauti. Il Dna dei pastori e dei contadini sembra abbia ereditato parte di questi rituali antichissimi e il desiderio di combattere e uccidere il cinghiale anche in barba alle leggi esistenti. La zona del delitto è infatti una riserva dove è vietata la caccia a tutte le specie. E' utile aggiungere, infine, che questi cinghiali di grossa taglia che tanti danni fanno alle specie autoctone (piante e animali) sono stati introdotti proprio dai cacciatori, per giustificare uno "sport" oggi crudele e inutile. . 
      Anche il nostro Belli ha commentato un analogo ma incruento fatto di cronaca, in un sonetto: . 
LA CACCIA DE LA REGGINA
Na Regginella annanno in portantina
a ccaccia in d’una macchia ariservata,
vede una bbestia nera che ss’inchina
fra le frasche, e cce resta arimpiattata.
Presto pijja la mira la Reggina,
e, ppúnfete, je dà ’n’archibbusciata;
e ggià ssu cquella bbestia mmalandrina
tiè la siconna bbotta preparata.
"Oh ddio, sagra Maestà, nnun m’accidete",
strillò una vosce for de la verdura:
"io nun zò un porco, Artezza mia, sò un prete".
La Reggina a sto strillo ebbe pavura;
e jje disse: "Aló, in gabbia; e imparerete
a spaventamme in corpo la cratura".
Roma, 10 febbraio 1833
Versione e spiegazione. La caccia della Regina. Una giovane Regina ( Maria Isabella, moglie di Francesco I Borbone, Re delle due Sicilie) mentre andava in portantina a caccia in una riserva reale (il fatto sembra accaduto realmente, nei pressi di Sorrento), vede una bestia nera che si inchina fra le frasche e vi resta rimpiattata. Sùbito, la Regina prende la mira e gli spara un'archibugiata, e già su quella bestia malandrina tiene pronto un secondo colpo. "Oh Dio, sacra Maestà non uccidetemi", strillò una voce fuori dalle frasche: "Io non sono un porco, Altezza mia, sono un prete". La Regina si spaventò per questo gridare; e gli disse: "Via, in prigione; e imparerete a spaventarmi in corpo la creatura" (la Regina era incinta). La Regina difatti condannò il "prete-porco" – così scrive il Belli in nota – ad un periodo di reclusione in un convento per averle fatto paura nel gridare aiuto. . 
IMMAGINI. 1. La caccia al cinghiale è antichissima, raffigurata anche sui vasi greci, nelle tombe etrusche e in sculture etrusco-romane. Qui è in un’urna cineraria estrusca ispirata al mito di Meleagro e della caccia al cinghiale caledonio. 2. Portantina regale "alla spagnola", retta da due cavalli: molto più robusta e più alta da terra, e priva degli inermi portatori a piedi. Potrebbe verosimilmente essere stato questo il tipo scelto dalla regina incinta per la sua sortita nel bosco tra forre e cespugli fitti (modellino da collezione).
 
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