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A Roma, in passato, oltre agli svaghi organizzati dalla comunità (feste patronali, Carnevale, tombole, giostre, corse di cavalli…) un passatempo molto popolare era quello delle carte da gioco, diffuse in Europa dalla fine del Trecento, e che nel Quattrocento conobbero una espansione notevole grazie alla nascita dell'arte della stampa.
Ma alcuni aspetti trasgressivi legati a certi giochi di carte attirarono sùbito l’attenzione dei governanti. L'abitudine di puntare denaro, il fatto che la vincita dipendesse dalla fortuna, e i comportamenti correlati al gioco d’azzardo, provocavano un accanimento tale da indurre chi li praticava a una vita oziosa, incline alla bestemmia, ai furti e alle risse. Il linguaggio scurrile e le parole forti erano comuni tra i giocatori, come testimonia il Belli. E anche una semplice parolaccia, riferita al parroco, che allora vigilava sui costumi, portava addirittura ad una pena pecuniaria (La penale, 3 dicembre 1832):
...giucanno co ccerti vitturini,
come me vedde vince un lammertini,
disse pe ffoja: "Eh bbuggiarà Ssantaccia!"
In particolare la bestemmia, abitualmente in bocca al giocatore, era considerata un reato molto grave per la morale cattolica. Lo testimoniano i bandi generali, emanati periodicamente per ricordare al popolo tutto ciò che era proibito. La bestemmia era il reato che veniva nominato per primo. E che fosse collegata alle carte da gioco ce lo ricordano non solo un sonetto del Belli (v. sotto: Er padraccio) ma anche i cartelli affissi fino a pochi decenni fa nelle osterie di paese o di periferia dove si giocava a carte: “I giocatori sono pregati di non bestemmiare!”
Barattieri, giocatori, osti e bari costituivano un microcosmo che ruotava intorno al gioco, diffusissimo sia fra i nobili che fra i popolani.
Le carte da gioco, per essere vendute e poter circolare a Roma e nello Stato pontificio da quel momento in poi avrebbe dovuto avere il bollo. L’idea fu talmente vincente da arrivare, con varie correzioni, fino ai nostri tempi.
Esistevano due tipi di bolli per le carte da gioco: quelle per i mazzi che si usavano in casa e quello per i mazzi che si usavano nei luoghi pubblici.
Tale organizzazione provocò spesso delle infrazioni: il costante uso di carte di contrabbando migliori e più economiche, l’impiego di mazzi non bollati ecc (v. in basso l’intestazione di uno dei tanti Editti contro le carte false).
Per i ceti nobili e benestanti alcuni giochi di carte erano un passatempo alla moda per impiegare il tempo giocando nelle lussuose dimore, durante feste e balli, scampagnate, oppure nei caffè, nei biliardi. Si ha notizia di consistenti patrimoni nobiliari andati persi sul tavolo del gioco d’azzardo.
Il popolino romano, nonostante i pochi mezzi a disposizione, era caratterizzato da un desiderio costante di svago, in contrasto con le difficili condizioni di vita. E così ogni spazio era buono per tirare fuori un mazzo di carte: nella piazza del mercato, vicino alle chiese e alle fontane, nei “giochi lisci” (campi di bocce) e nelle osterie.
Infine una curiosità: all’epoca del Belli, dopo varie vicissitudini, il settore che si occupava di bollare le carte da gioco era stato affidato proprio all’Amministrazione del Bollo e Registro (ufficio in cui proprio il Belli aveva lavorato dal 1813 al 1828).
Quanto di tutto questo si trova nei Sonetti belliani? Senza distinzione alcuna fra plebe, nobili e preti, la Roma del Belli frequenta l’osteria, gioca a carte e bestemmia (non solo giocando a carte). Anzi, i sonetti costituiscono un’importante fonte di conoscenza per i giochi in uso nell’Ottocento. Belli infatti in più occasioni cita i giochi di carte dell’epoca: faraone, zecchinetto, briscola, tressette, primiera, naso-e-primiera, mercante in fiera.
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LA PARTITA A CCARTE
Arigalata, eccí! cche bber rampino!
Vedi un po’ de vennécce er zol d’agosto!
Tu mmó a sto ggioco sce fai tanto er tosto,
e nu la vôi capí cche ssei schiappino.
Inzomma è ppatto-fatto c’a ’gni costo
hai da vince ogni sera er tu’ lustrino.
Ma nun zai stacce un cazzo ar tavolino.
Và ar muricciolo, và, quello è ’r tu’ posto.
Guarda io, che cco ttutta la mi’ jjella
pago com’un zignore la mi’ pujja
senza d’ariscallamme le bbudella.
E nun fò ccom’e tté ttutta sta bbujja,
che appena vedi un pò de svenarella,
te bbiastími er pastèco e lla lelujja.
Roma, 19 novembre 1832.
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ER PADRACCIO
Vestí li fiijj? lui! Santa pascenza!
Che cc’entra lui co li carzoni rotti?
A llui j’abbasta d’annà a li ridotti
a ggiucà a zzecchinetto; ecco a cche ppenza.
Ebbè, cquanno ho strillato? me dà udienza
com’er Papa dà rretta a li sciarlotti.
Bbisoggna che l’abbíla io me l’iggnotti;
nun c’è antro da fà, ssora Vincenza.
Tutto er mi’ studio è ppregà Iddio che vvinchi.
Nò cc’allora sce speri quarc’ajjuto
ma ppe avè mmeno carci in ne li stinchi.
Quela bbestiaccia io la conosco ar pelo;
e quanno torna a ccasa c’ha pperduto,
sora Vincenza mia, òprete scelo!
14 aprile 1835
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Versione. Il pessimo padre. Vestire i figli, lui? Santa pazienza! Che c’entra lui con i calzoni rotti? A lui basta andare nelle salette a giocare a zecchinetta; ecco a che pensa. Ebbene, quando ho strillato? Mi ascolta come il Papa dà retta ai ciarlotti [specie di uccelli: proverbio]. Bisogne che la bile io me la inghiotta, non c’è altro da fare, signora Vincenza. Tutta la mia preoccupazione è pregare Dio che lui vinca. Non per sperare di avere qualche aiuto, ma per avere meno calci negli stinchi. Quella bestiaccia io la conosco dal pelo: quando torna a casa ed ha perso, signora Vincenza mia, apriti Cielo!
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Lo stesso si dica per rappresentare il quadro desolante dei preti romani nel sonetto Li Chìrichi, del 29 novembre 1833. Qui in particolare potrebbe trattarsi di religiosi minori (forse adibiti alle funzioni di sacrestani, dice una nota del Vigolo, ma il Belli usa altrove il termine “sagristano”):
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Li chirici de Roma, crosc e spine!
Dove te vài scavà ppeggio gginìa?
Uno ruffiano, uno gatto, uno spia
uno…inzomma canajja senza fine,
ggiucheno a zzecchinetto in zagrestia…
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Versione. I chierici di Roma, croce e spine! Dove vuoi andare a scavare peggior razza? Uno è ruffiano, uno ladro, uno spia, uno… insomma canaglia senza fine, giocano a zecchinetta in sacrestia…
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E infine il mondo privilegiato dei nobili nella Bbonifiscenza (il secondo sonetto con questo titolo, quello del 5 aprile 1836), in cui sotto il falso nome di “beneficienza” l’amministrazione pontificia scialacqua tanti soldi faticosamente raccolti, addirittura una pensione, per far divertire col gioco delle carte una principessa Chigi.
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Cinquanta scudi ar mese de penzione
a na vecchiaccia frascica de vizzi,
ppe’ mmetteli su un asso ar faraone.
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Versione. Cinquante scudi al mese di pensione ad una vecchiaccia fradicia di vizi, per consentirle di puntarli su un asso al faraone.
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