30 settembre 2010

Bestemmiatori, bari e violenti? Quei dannati giocatori di carte

Siamo lieti di ospitare un contributo sulle carte da gioco nella Roma dei Papi, della dott.ssa Marina Morena, dell'Archivio di Stato:
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Il “tempo libero”? L’idea stessa di tempo libero nelle epoche passate non esisteva. E’ un concetto moderno, collegato all’attuale organizzazione del lavoro. E c’è chi sostiene che, in fondo, non sia altro che un mezzo per allentare le tensioni psicologiche e sociali, e migliorare il rendimento del lavoro stesso.
A Roma, in passato, oltre agli svaghi organizzati dalla comunità (feste patronali, Carnevale, tombole, giostre, corse di cavalli…) un passatempo molto popolare era quello delle carte da gioco, diffuse in Europa dalla fine del Trecento, e che nel Quattrocento conobbero una espansione notevole grazie alla nascita dell'arte della stampa.
Ma alcuni aspetti trasgressivi legati a certi giochi di carte attirarono sùbito l’attenzione dei governanti. L'abitudine di puntare denaro, il fatto che la vincita dipendesse dalla fortuna, e i comportamenti correlati al gioco d’azzardo, provocavano un accanimento tale da indurre chi li praticava a una vita oziosa, incline alla bestemmia, ai furti e alle risse. Il linguaggio scurrile e le parole forti erano comuni tra i giocatori, come testimonia il Belli. E anche una semplice parolaccia, riferita al parroco, che allora vigilava sui costumi, portava addirittura ad una pena pecuniaria (La penale, 3 dicembre 1832):

...giucanno co ccerti vitturini,
come me vedde vince un lammertini,
disse pe ffoja: "Eh bbuggiarà Ssantaccia!"

Ovvero, giocando [a carte] con alcuni vetturini, quando mi vidi vincere [dal mio avversario] un Lambertini [moneta d'argento di 2 paoli], sbottai per l'ira: "E vada a farsi fottere Santaccia!" [figura proverbiale di prostituta a Roma].

In particolare la bestemmia, abitualmente in bocca al giocatore, era considerata un reato molto grave per la morale cattolica. Lo testimoniano i bandi generali, emanati periodicamente per ricordare al popolo tutto ciò che era proibito. La bestemmia era il reato che veniva nominato per primo. E che fosse collegata alle carte da gioco ce lo ricordano non solo un sonetto del Belli (v. sotto: Er padraccio) ma anche i cartelli affissi fino a pochi decenni fa nelle osterie di paese o di periferia dove si giocava a carte: “I giocatori sono pregati di non bestemmiare!”

Le pene? Chi offendeva Dio, Gesù Cristo, Maria Vergine e i Santi era punito la prima volta con tre tratti di corda in pubblico, la seconda con la pubblica frusta, la terza con la galera per cinque anni. Non si ammetteva come attenuante lo stato di ubriachezza, o l’eccesso di collera.
Barattieri, giocatori, osti e bari costituivano un microcosmo che ruotava intorno al gioco, diffusissimo sia fra i nobili che fra i popolani.
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La rapida diffusione delle carte da gioco, aveva persuaso alla fine del secolo XVI “er papa tosto” Sisto V a tassare questo settore. Detto, fatto. Si delegò ad un appaltatore privato il diritto esclusivo a fabbricare, bollare e vendere le carte da gioco. In cambio egli avrebbe pagato una somma consistente, che Sisto V volle assegnare come rendita all’Ospedale dei poveri mendicanti (il suo San Sisto). Anche più tardi la politica dei papi fu ambigua, sempre in bilico fra tolleranza, per non rinunciare alle entrate connesse, e severità, per cui si vietarono spesso i giochi per i noti fenomeni di disordine sociale.
Le carte da gioco, per essere vendute e poter circolare a Roma e nello Stato pontificio da quel momento in poi avrebbe dovuto avere il bollo. L’idea fu talmente vincente da arrivare, con varie correzioni, fino ai nostri tempi.
Esistevano due tipi di bolli per le carte da gioco: quelle per i mazzi che si usavano in casa e quello per i mazzi che si usavano nei luoghi pubblici.
Tale organizzazione provocò spesso delle infrazioni: il costante uso di carte di contrabbando migliori e più economiche, l’impiego di mazzi non bollati ecc (v. in basso l’intestazione di uno dei tanti Editti contro le carte false).
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Per i ceti nobili e benestanti alcuni giochi di carte erano un passatempo alla moda per impiegare il tempo giocando nelle lussuose dimore, durante feste e balli, scampagnate, oppure nei caffè, nei biliardi. Si ha notizia di consistenti patrimoni nobiliari andati persi sul tavolo del gioco d’azzardo.
Il popolino romano, nonostante i pochi mezzi a disposizione, era caratterizzato da un desiderio costante di svago, in contrasto con le difficili condizioni di vita. E così ogni spazio era buono per tirare fuori un mazzo di carte: nella piazza del mercato, vicino alle chiese e alle fontane, nei “giochi lisci” (campi di bocce) e nelle osterie.
Per motivi di ordine pubblico, nel corso dei secoli, a Roma furono ripetutamente proibiti i giochi di carte nelle strade e piazze, e nelle osterie, dove si beveva la classica fojetta* di vino e giravano le prostitute. Possiamo immaginare l’ira, e le lamentele degli appaltatori di turno, che vedevano così decurtati i loro utili. Erano diffusissimi a Roma nell’Ottocento gli spacci di carte da gioco.
Infine una curiosità: all’epoca del Belli, dopo varie vicissitudini, il settore che si occupava di bollare le carte da gioco era stato affidato proprio all’Amministrazione del Bollo e Registro (ufficio in cui proprio il Belli aveva lavorato dal 1813 al 1828).
Quanto di tutto questo si trova nei Sonetti belliani? Senza distinzione alcuna fra plebe, nobili e preti, la Roma del Belli frequenta l’osteria, gioca a carte e bestemmia (non solo giocando a carte). Anzi, i sonetti costituiscono un’importante fonte di conoscenza per i giochi in uso nell’Ottocento. Belli infatti in più occasioni cita i giochi di carte dell’epoca: faraone, zecchinetto, briscola, tressette, primiera, naso-e-primiera, mercante in fiera.
Un sonetto del Belli, intitolato La partita a ccarte, è dedicato ad un giocatore incallito che a detta d’un amico si atteggia ad esperto, ma invece è una schiappa, dice che la partita lui l’ha “regalata”, ma in realtà di ogni perdita fa un dramma, bestemmiando a più non posso:
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LA PARTITA A CCARTE
Arigalata, eccí! cche bber rampino!
Vedi un po’ de vennécce er zol d’agosto!
Tu mmó a sto ggioco sce fai tanto er tosto,
e nu la vôi capí cche ssei schiappino.
Inzomma è ppatto-fatto c’a ’gni costo
hai da vince ogni sera er tu’ lustrino.
Ma nun zai stacce un cazzo ar tavolino.
Và ar muricciolo, và, quello è ’r tu’ posto.
Guarda io, che cco ttutta la mi’ jjella
pago com’un zignore la mi’ pujja
senza d’ariscallamme le bbudella.
E nun fò ccom’e tté ttutta sta bbujja,
che appena vedi un pò de svenarella,
te bbiastími er pastèco e lla lelujja.
Roma, 19 novembre 1832.
Versione. La partita a carte. Regalata, dici? Eccì! Che bella scusa! Non cercare di venderci il sol d’agosto! Ora tu a questo gioco fai tanto l’esperto, ma non lo vuoi capire che sei una schiappa. Insomma, che cos’è, un contratto, che tu ogni sera devi ad ogni costo vincere il tuo lustrino [grossetto, mezzo paolo d’argento]? Ma non sai stare al tavolo di gioco: va' al muretto, va', quello è il tuo posto. Guarda me, con tutta la mia sfortuna pago come un signore il mio gettone senza riscaldarmi le budella. E non faccio come fai tu tutto questo lamento, che appena vedi che inizia una perdita continua ti metti a bestemmiare il pax tecum e l’alleluja..
La popolare zecchinetta (v. l'incisione del Pinelli), o zecchinetto per il Belli, e la sua variante forse più aristocratica detta faraone, erano giochi d’azzardo per eccellenza. Come tali duramente puniti se scoperti dalle guardie. Ma anche nel Belli il riferimento al gioco è utilizzato comunque sempre per descrivere la zona buia del personaggio in questione. Così è per il padre giocatore che non assolve ai doveri di padre (nel sonetto Er Padraccio):
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ER PADRACCIO
Vestí li fiijj? lui! Santa pascenza!
Che cc’entra lui co li carzoni rotti?
A llui j’abbasta d’annà a li ridotti
a ggiucà a zzecchinetto; ecco a cche ppenza.
Ebbè, cquanno ho strillato? me dà udienza
com’er Papa dà rretta a li sciarlotti.
Bbisoggna che l’abbíla io me l’iggnotti;
nun c’è antro da fà, ssora Vincenza.
Tutto er mi’ studio è ppregà Iddio che vvinchi.
Nò cc’allora sce speri quarc’ajjuto
ma ppe avè mmeno carci in ne li stinchi.
Quela bbestiaccia io la conosco ar pelo;
e quanno torna a ccasa c’ha pperduto,
sora Vincenza mia, òprete scelo!
14 aprile 1835
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Versione. Il pessimo padre. Vestire i figli, lui? Santa pazienza! Che c’entra lui con i calzoni rotti? A lui basta andare nelle salette a giocare a zecchinetta; ecco a che pensa. Ebbene, quando ho strillato? Mi ascolta come il Papa dà retta ai ciarlotti [specie di uccelli: proverbio]. Bisogne che la bile io me la inghiotta, non c’è altro da fare, signora Vincenza. Tutta la mia preoccupazione è pregare Dio che lui vinca. Non per sperare di avere qualche aiuto, ma per avere meno calci negli stinchi. Quella bestiaccia io la conosco dal pelo: quando torna a casa ed ha perso, signora Vincenza mia, apriti Cielo!
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Lo stesso si dica per rappresentare il quadro desolante dei preti romani nel sonetto Li Chìrichi, del 29 novembre 1833. Qui in particolare potrebbe trattarsi di religiosi minori (forse adibiti alle funzioni di sacrestani, dice una nota del Vigolo, ma il Belli usa altrove il termine “sagristano”):
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Li chirici de Roma, crosc e spine!
Dove te vài scavà ppeggio gginìa?
Uno ruffiano, uno gatto, uno spia
uno…inzomma canajja senza fine,
ggiucheno a zzecchinetto in zagrestia…

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Versione. I chierici di Roma, croce e spine! Dove vuoi andare a scavare peggior razza? Uno è ruffiano, uno ladro, uno spia, uno… insomma canaglia senza fine, giocano a zecchinetta in sacrestia…
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E infine il mondo privilegiato dei nobili nella Bbonifiscenza (il secondo sonetto con questo titolo, quello del 5 aprile 1836), in cui sotto il falso nome di “beneficienza” l’amministrazione pontificia scialacqua tanti soldi faticosamente raccolti, addirittura una pensione, per far divertire col gioco delle carte una principessa Chigi.
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Cinquanta scudi ar mese de penzione
a na vecchiaccia frascica de vizzi,
ppe’ mmetteli su un asso ar faraone.

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Versione. Cinquante scudi al mese di pensione ad una vecchiaccia fradicia di vizi, per consentirle di puntarli su un asso al faraone.
MARINA MORENA
IMMAGINI. 1. Il cavaliere di Coppe (carte da gioco prodotte da C.Roxas, 1810). Le carte di stile spagnolo erano diffuse anche a Roma, non esistendo le carte "romane". 2. "Comitiva di oziosi, giocando alla zecchinetta in Roma" (incisione di B. Pinelli, 1816, part.). Da originale in Archivio di Stato, Roma: Nuova raccolta di 50 costumi pittoreschi incisi all'acquaforte da Bartolomeo Pinelli. 3. Un'antica carta da gioco italiana: il Re di Spade. 4. Carte da gioco viterbesi, di Scipione Moscatelli, prodotte a mano, per tutto l'Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento. Erano vendute anche a Roma. 5. Un editto contro le carte da gioco di contrabbando, cioè senza bollo.
* Piccola bottiglia di vetro chiaro trasparente da 500 ml a bocca svasata, con linea della misura esatta e il bollo di Stato. Tipica di Roma e delle Marche. Fu introdotta infatti, per limitare le ricorrenti frodi degli osti, dal papa marchigiano Sisto V.

28 settembre 2010

SPQR, Roma e i preti. Ecco che significa davvero questa sigla

Che vuol dire? Che è un invito irresistibile per i giochi di parole. In ogni epoca gli spiritosi da taberna o thermopolium (oggi diremmo "da bar"), per lo più in provincia – ahimé, ingenuamente sicuri di sé, capaci di tutto e senza vergogna: tipico dei provinciali – si sono sempre esercitati sulla bellissima e orgogliosa sigla che denota la Res Publica, cioè lo Stato di Roma antica: SPQR.
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Che vuol dire questo acronimo formato dalle iniziali di altre parole (dal greco antico àkron=estremità e ònoma=nome)? Come tuttora pochi sanno, significa Senatus Populusque Romanus: il Senato e (è il que aggiunto in coda ad un nome, che vale et, atque o ac messi davanti ma staccati) il Popolo Romano, le due entità che avevano il potere costituzionale e politico. Una diarchia fondata sul diritto, che anticipa genialmente le liberal-democrazie moderne.
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Freud, creatore della psicanalisi, ha scritto un pregevole saggio sui "giochi di parole" e i "motti di spirito", specialità in cui l’italianuzzo medio, convinto a torto di essere spiritoso, crede di eccellere, come si ascolta nei corridoi di tutti gli uffici da Trepalle a Pantelleria. Non c'è impiegato romano di oggi, per esempio, che non dica ancora "olive dorci" (olive dolci) al posto di "arrivederci", imitando Stanlio e Ollio. E non parliamo delle insegne penosamente fantasiose dei negozi della Penisola, da "Scarpe diem" per una bottega di calzature, all'ironico "Non solo fiori" per un fioraio che vende invece soltanto fiori, fino al doppio Kitsch geniale di "Cinecittà" per un negozio di cose cinesi in una via dedicata ad un regista di cinema... A proposito di "Puntini, puntini...", è il negozio di sartoria di una mia amica. Ormai aprire un esercizio commerciale significa cadere in qualche gaffe lessicale, e fare una battuta quando si è inadeguati vuol dire cadere in una figuraccia.

Le sigle, poi, hanno sempre stimolato la fantasia satirica del popolo. La targa SCV della Città del Vaticano, di solito abbinata a lussuose automobili scure di rappresentanza, è ovviamente letta dai romani, che non sono mai stati teneri col clero, "Se Cristo Vedesse". Naturale che l'antichissima SPQR si sia prestata a innumerevoli interpretazioni. Una leggenda da internet, ovviamente infondata e anacronistica, vuole che cominciassero i Sabini, a nord di Roma, fieri e duri come la gente di montagna, ad interpretare SPQR come, nientemeno "Sabinis Populis Quis Resistet?", cioè "Chi potrà resistere ai popoli sabini?" Chiunque. Infatti, furono subito sconfitti e assimilati dai Romani. Che allora erano la gente più tosta di tutte, altro che quei mollaccioni di oggi. E guai a confondere, come fanno ancor oggi i provinciali nelle battute spiritose, i Romani di allora con i romani di oggi. Come passare dal fuoco all’acqua, dal ferro alla ricotta.

Ed è un vecchio vezzo: i soliti nullafacenti amanti della satira a buon mercato e senza conseguenze penali, sicuramente romani medievali, s’inventarono perfino uno "Stultus Populus Quaerit Romam", ovvero "La gente stolta ama Roma".

Noi tutti, da bambini, soprattutto a Roma, ma anche in parecchi luoghi al Sud e al Nord, abbiamo scherzato su una sigla per noi familiare che sta dappertutto: dal sinbolo del Municipio in Campidoglio, allo stemma dell’Azienda Tranviaria ATAC, fino ai tombini dell’acqua e delle fognature. Senza contare le iscrizioni su lapidi e architravi antichi. Ma da piccoli. Naturale che all’asilo, a sei anni di età, e proprio a Roma, ci si consideri spiritosi e anticonformisti con "Sono Porci Questi Romani". Non credo che a Bergamo, a Bari, Sassari o a Enna i bambini di sei anni farebbero altrettanto spirito con la sigla della propria città. C’è anche una graduatoria nella naturale stoltezza dei bambini: ebbene, i piccoli romani sembrano in questo un po' più auto-ironici, dunque più saggi, dei loro coetanei di provincia. Di qui una nota obbligatoria di encomio per i bimbi romani, pur con tutto il male possibile che pensiamo dei romani di oggi, cioè dei pugliesi, siciliani, napoletani, marchigiani, laziali, abruzzesi, calabresi, umbri, sardi ecc., che più o meno abusivamente vivono (viviamo), e senza ringraziare, a Roma. E, di contro, con tutto il bene possibile che pensiamo dei Romani antichi.

Ma quando fanno gli spiritosi, come i bambini romani, degli anziani signori di provincia, in questo caso del Nord? Non impressiona che abbia fatto in ritardo lo spiritoso con una barzelletta di 80 o 250 anni fa, che già non faceva più ridere nell’800 e che oggi a Roma ripetono solo i bambini dell'asilo, un politicante provinciale, anzi il simbolo stesso dei provinciali furbi che hanno fatto una carriera fondata sul nulla, senza avere nessuna eccellenza, senza saper far nulla nella vita (e sempre con la stessa mentalità ristretta), passando come se niente fosse dal paesotto alla Metropoli, in cui possono finalmente comandare senza farsi ridere dietro da compaesani, figli, parenti e moglie (in questo caso, guarda caso, siciliana: province di Nord e Sud unite).

D’altra parte, perfino il Comune di Roma utilizza facendo lo spiritoso la propria sigla (impropria, perché ora Roma non è uno Stato a sé, ma è solo uno degli 8000 comuni dell’Italia, e quindi non ha un suo Senato, e neanche più i finti e ridicoli "senatori" del Medioevo), e si inventa la campagna di sensibilizzazione di giovani volontari per la tutela del patrimonio artistico e culturale, con tanto di errore d’italiano, un sostantivo anziché l’imperativo: "Salvaguardia, proteggi, qualifica Roma".

Evviva il Belli, allora, che nel suo periodo più fecondo dà alla sigla SPQR una geniale interpretazione satirica, quindi etico-politica, facendo parlare un prete istitutore. E come riferisce il grande Stendhal nel suo Viaggio in Italia, nel Regno Pontificio ad ogni stranezza, incongruenza, ingiustizia o prepotenza, c’era sempre un barbiere, un farmacista, un professore, un negoziante, un artigiano, che alla meraviglia o lamentela del forestiero o turista straniero, quasi a scindere le proprie responsabilità aprendo le braccia si scusava: "Che volete, signore, qui siamo governati dai preti!". Così qui. Con l’aggravante del cinismo, più che dell'autoironia: in questo caso a parlare, infatti, è addirittura un maestro-prete (visto il "don"):

SPQR
Quell’esse, pe, ccú, erre, inarberate
sur portone de guasi oggni palazzo,
quelle sò cquattro lettere der cazzo,
che nun vonno dí ggnente, compitate.
M’aricordo però cche dda regazzo,
cuanno leggevo a fforza de frustate,
me le trovavo sempre appiccicate
drent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.
Un giorno arfine me te venne l’estro
de dimannanne un po’ la spiegazzione
a ddon Furgenzio ch’era er mi’ maestro.
Ecco che mm’arispose don Furgenzio:
“Ste lettre vonno dí, ssor zomarone,
Soli preti qui rreggneno: e ssilenzio”.
Roma, 4 maggio 1833

Versione. SPQR. Quell’esse, pi, qu, erre, inalberate sul portone di quasi ogni palazzo, sono tutte lettere che non valgono niente e compitate non significano nulla. Mi ricordo però che da ragazzo, quando leggevo a forza di frustate, me le trovavo sempre tutte insieme nell’abbeccedario. Un giorno finalmente mi venne il desiderio di chiederne la spiegazione a don Fulgenzio, [il prete] che era il mio maestro. Ecco che mi rispose don Fulgenzio: "Queste lettere vogliono dire, sor somarone, Solo Preti Qui Regnano". E silenzio".

3 settembre 2010

Papa uomo o donna? Una sedia forata permette di accertarlo.

Jean era una giovane donna inglese bella e colta. Come mai finì in un convento maschile travestita da monaco? Questo è il punto. Se riusciamo a trovare una risposta a questa domanda, poi non ci sarà difficile rispondere al secondo quesito: come diavolo fece a farsi eleggere Papa?
      Dopo sette anni di ricerche, la scrittrice americana Donna Woolfolk Cross, docente di letteratura, fece uscire nel 1996 la prima edizione di un libro ("Pope Joan") sulla controversa figura della papessa Giovanna. Testo che è stato il soggetto del film di Sönke Wortmann "Die Päpstin" (La papessa), presentato al Festival di Berlino del 2009 e distribuito nel maggio 2010 in Italia.
      Ora, insieme al film, il libro appare anche in Italia da un editore che Il Mondo del Belli stima molto, per due motivi: 1. si occupa anche di cose romane e della Roma d'una volta (e quando si chiamava Avanzini e Torraca pubblicò la prima edizione economica dei Sonetti con note del Cagli); 2. fa libri bellissimi, ben fatti, ben stampati, che non si rompono, ed economicissimi (La Papessa, Newton Compton, euro 4.90).
      Negli Stati Uniti, all’inizio il libro non vendette molte copie: l’editore, come spesso accade, era troppo pigro: non ci credeva. La Cross decise perciò di scendere in campo personalmente e di coinvolgere il pubblico sul tema intrigante e moderno della "giovane donna che cerca di superare le convenzioni sociali e gli stereotipi di genere facendo leva sulla sua intelligenza e tenacia". L’idea ebbe successo. C’era già stata, nel 1972, una prima trasposizione cinematografica della vicenda della papessa (con Liv Ullmann nel ruolo di Giovanna e con la partecipazione di Olivia de Havilland e di Trevor Howard nel ruolo di papa Leone). Ora è arrivato il lungometraggio presentato alla "Berlinale" basato sul libro della Cross. La scrittrice ha così potuto approfittare della notorietà che viene dal cinema per una ristampa riveduta e corretta della prima edizione (v. immagine della copertina).
      Lo scrittore Lawrence Durrell, che non solo era inglese ma in gioventù era stato nei Servizi segreti, e dunque non abituato a bersi qualsiasi cosa, ha ricostruito l'ambiente medievale nel quale poteva essere possibile una storia che oggi sarebbe impossibile. Una fanciulla orfana ma di intelligenza acutissima, adottata da un monaco predicatore che viaggia in tutta Europa, la traveste da fraticello per proteggerla dagli stupratori, la fa entrare nel monastero di Fulda, la fa studiare a Magonza (Mainz, in Renania). A poco a poco diventa così erudita in teologia da impressionare vescovi, cardinali e Sacro Collegio, che mai avevano visto una meraviglia del genere. Ed eccola col nome di Johannes Anglicus fare una prodigiosa carriera ecclesiastica, fino a salire al soglio pontificio col nome di Giovanni VIII. (La Papessa Giovanna, Longanesi 1973). La prima e unica papessa della Storia.
      Ma è proprio Storia? La vicenda sarebbe accaduta verso l’850-855 della nostra Era, subito dopo il pontificato di papa Leone IV o comunque prima di Benedetto III, che nei pochi mesi di pontificato si sarebbe preoccupato – dice la tradizione popolare – di eliminare accuratamente ogni documento e testimonianza del nome stesso dell’intrusa. A completare la censura, il nome papale di Giovanni VIII, quello della papessa, venne utilizzato da un papa di poco successivo (nel 872). Segno che la ferita, la vergogna, bruciava ancora, altrimenti che bisogno c’era di riprendere lo stesso nome e numero? Un accanimento, una vera damnatio memoriae, su cui è lecito più d’un sospetto.
"Non ci sono abbastanza documenti certi", "impossibile", sostiene oggi la Chiesa ufficiale. Obiezione: e degli altri papi del medesimo periodo abbiamo documenti storici sicuri? Molti sono solo dei nomi.
      Erano quelli, non dimentichiamolo, i secoli più oscuri e caotici della storia dell’Occidente. I famigerati "secoli bui" dell’Alto Medioevo, bui non solo perché se ne sa poco, ma anche perché all'opposto del "secolo dei Lumi", il Settecento, illuminato dalla luce della Ragione, erano dominati dalle tenebre del caos e del delitto, della violenza e della superstizione. Visti con gli occhi di oggi, tutto appare possibile in quei lunghissimi nove secoli, quando nel disfacimento dello Stato romano che proprio la Chiesa di Roma aveva fatto crollare con la carica eversiva del suo fanatismo, i vescovi erano di fatto le uniche autorità politiche e amministrative sul territorio. La Chiesa si trovò a riunire nelle proprie mani l’unico vero potere politico ed economico della Penisola. La professione di ecclesiastico romano era una carica nient’affatto spirituale, che assicurava a chi li voleva oro, castelli, titoli e potere. L’elezione dei papi avveniva spesso in modo fortuito, quando non dipendeva direttamente dai rapporti di forza politici e militari di aristocratici e signorotti locali, per ragioni che nulla avevano a che vedere con la religione, tantomeno con la santità della vita di cardinali e papi.
      "Le cronache del tempo sono piene di delitti, colpi di Stato, rivolte di palazzo. Il clero, abbandonato a se stesso, sprofondò nella corruzione. I Pontefici e i Vescovi vivevano in un lusso da Mille e una notte. Abitavano palazzi sfavillanti di marmi e di ori. Si circondavano di servitori e concubine, imbandivano mense degne di Trimalcione, organizzavano concerti, danze e feste mascherate (...). La Chiesa, lacerata da lotte intestine e prigioniera della sua mondanizzazione, non era mai caduta tanto in basso". Marozia, una donna di Spoleto sfrenatamente sensuale e ambiziosissima, divenne l'amante di papi e principi e comandò a lungo su Roma e sulla Chiesa. Il suo amante papa Sergio III arrivò al punto da far strangolare i suoi avversari. Papa Giovanni X che si era opposto al matrimonio di Marozia con un conte Guido, fu deposto e lasciato morire di fame in carcere. Marozia impose come papa il giovanissimo figlio avuto da papa Sergio III. Si chiamò Giovanni XI, ed aveva solo dodici anni. (I. Montanelli e R. Gervaso, L'Italia dei secoli bui, Rizzoli, Milano 1965).
      Figuriamoci se poteva destare uno scandalo maggiore l'elezione di un papa-donna, sia pure sotto mentite spoglie. Vista con gli occhi di oggi, una donna travestita da uomo in quell’ambiente, oltre ad essere tecnicamente possibile vista l’effeminatezza di molti ecclesiastici, sarebbe stato, in fondo, un incidente, un peccato veniale. La storia dei papi di quel tempo è piena di ricatti, imposizioni e deposizioni violente, omicidi.       Altro che mascherate. Basta scorrere la lista dei papi prima e dopo la "papessa" per notare un dato inquietante: quasi tutti stranamente sono restati in carica pochi anni o pochi mesi, spesso deposti con la forza o morti anzitempo in modo misterioso e sospetto. Eppure sappiamo che erano in media più giovani e vitali dei pontefici di oggi. La durata del pontificato della papessa Giovanna è del tutto in linea con la durata media dei papi dell’epoca: due anni. E allora, come si spiega tanto sospetto accanimento della Chiesa nel negare, nel cancellare, nel censurare ogni traccia? Con l'antico disprezzo cristiano per la donna, una vergogna che supera evidentemente quella per i delitti, le ruberie e la lussuria.
      La Chiesa oggi nega, ovviamente, che le centinaia di documenti, stampe e citazioni su una donna eletta papa siano fondate, e accenna ad una "campagna anti-papista", forse di stampo inglese. Esistevano già i Riformatori e gli anticlericali nell’800 d.C.? No, però la Chiesa fa notare che stampe e documenti risalgono per lo più al tardo Medioevo e al primo Rinascimento.
      Vero è, invece, che i primi a darne notizia furono proprio i religiosi, e non i perfidi inglesi, ma i francesi don Giovanni di Metz, studioso domenicano della Lorena, nel 1240, e poi il confratello don Martino di Troppau (Martinus Polonus) che nel suo Chronicon pontificum et imperatorum parla di Johanna, originaria di Mainz o dell'Inghilterra.
      "Si trattava di un papa o piuttosto di una papessa, perché era donna. Travestendosi da uomo grazie al proprio ingegno diventò dapprima segretario della Curia romana, poi cardinale ed infine papa", si legge a proposito di una Johanna inglese o nativa di Mainz nella Chronica Universalis del frate Jean de Mailly (ca. 1250).
      E centinaia sono le stampe, le citazioni, gli scritti, anche di intellettuali prestigiosi, che danno per davvero esistita la papessa Giovanna. Come quelli del famoso filosofo e teologo francescano Guglielmo di Ockham. Nel Duomo di Siena, la sua immagine appare tra quella dei veri pontefici. Il grande Boccaccio, padre della lingua italiana e grande raccoglitore di storie curiose nel Decamerone, ne scrisse nel suo De claris mulieribus (Le donne famose): dunque, anche per lui la papessa era una "donna famosa", realmente esistita. Ma ne parla anche il Plàtina, che non era un umanista qualunque, ma era intellettuale di fiducia di vari papi e fu fatto prefetto della Biblioteca Vaticana da Sisto IV.
      Insomma, anche se non ci sono prove certe o se c’erano furono distrutte, le carte, le voci ricorrenti e tutte concordanti (nelle pure leggende, invece, le varianti sono infinite e alla fine discordanti), insomma tutte le citazioni che parlano di lei sono indizi troppo numerosi – direbbe un investigatore – perché la papessa Giovanna possa facilmente essere ritenuta, come ritiene oggi la Chiesa, un personaggio del tutto inventato, e non contenga molto o qualcosa di vero.
      Intanto, mentre la Chiesa negava l’evento straordinario del papa-donna, prendeva provvedimenti per cautelarsi da possibili travestimenti futuri.
      L’immaginazione popolare ingigantì forse l’importanza della cerimonia, ma certo questa sembrava fatta apposta per rassicurare non solo il popolino ma anche i cardinali, la Curia e l’intera comunità ecclesiale. E se non ci fosse stato il precedente della papessa Giovanna – argomentarono i critici della Chiesa di Roma – l’intero rito sarebbe stato inutile, anzi grottesco e perfino offensivo per la dignità del papa neoeletto e dei cardinali coinvolti.
      In che cosa consisteva? In una prova molto rozza, al limite della volgarità. Il papa, dopo l’elezione veniva fatto sedere su un’apposita sedia di porfido rosso con un largo foro sul pianale. Un bell’esemplare è conservato nei Musei Vaticani (v. immagine). Si tratta di un’elegante sedia “escretoria” di origine romana, probabile reperto di latrine di lusso tolte da chissà quali settori termali riservati ai Vip d’allora, i ricchi patrizi, oppure – secondo altri interpreti – di una “sedia gestatoria”, cioè d’un sedile da parto per gentildonne (nell’Antichità e a Roma soprattutto era molto usato il "parto seduto").
      Ebbene, assiso su questa sedia bucata, il neo-papa veniva tastato, attraverso il foro, nelle parti basse da un diacono o dal più giovane cardinale del Conclave, che introduceva il braccio da un'apertura laterale. E se l’investigazione era andata a buon fine, esclamava ad alta voce: "Virgam et testiculos habet!" ("Ha il pene e i testicoli"). E tutti gli ecclesiastici rispondono in coro: "Deo Gratias" ("Grazie a Dio"). Solo allora procedono alla consacrazione del papa eletto. (F.Hamerlin, De Nobilitate et Rusticitate Dialogus (ca.1490). "He has two balls, and they are well hung" ("Ha due palle e ben appese"), sarebbe stato invece il referto d'un cardinale, quasi di sapore medico, secondo il viaggiatore svedese L.Banck che aveva assistito all’incoronazione di papa Innocenzo X nel 1644 (v. l'antica stampa tratta dal suo rapporto), come riporta P.Stanford, The Legend of Pope Joan, Berkeley Books, New York 1999, pp.11-12.
Infatti, esisteva il detto "Testiculos qui non habet Papa esse non posset" (F.Sorrentino, Prova di Virilità, in "Medioevo", De Agostini, n.7, 2008 pp.90 e ss.).
      Che vuol dire, tradotto in parole povere ad uso degli ecclesiastici ambiziosi di ieri e di oggi: puoi anche avere una grande testa, ma se non hai i testicoli, scòrdati il Papato! Il che è davvero un uso improprio delle gonadi. E per la legge delle "pari opportunità" pone inquietanti parallelismi. Sarebbe come dire che, se alcune categorie di uomini hanno il potere grazie ai testicoli, allora, trasportando il ragionamento al femminile, avrebbero ragione escort, stagiste o donne "di piccola virtù" a fare carriera, soldi o politica con la vagina.
      Una conferma sulla funzione della sedia viene anche dalla Teologia portatile o Dizionario abbreviato della Religione Cristiana del barone d'Holbach, acuminato redattore delle voci religiose della Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Definisce la sedia stercoraria come "sedia bucata su cui il pontefice appena eletto pone le sue sacre terga, affinché possa essere verificato il suo sesso, onde evitare l'inconveniente di una papessa".
      Ma Bartolomeo Sacchi (il famoso "Plàtina" autore del libro di gastronomia De honesta voluptate et valetudine, tratto dal grande cuoco Martino da Como), era un umanista di Curia a stipendio dei Papi, e per di più prefetto della Biblioteca Vaticana. Quindi non poteva rischiare. E infatti, ricorda la sedia stercoraria in termini vaghi e ipocriti: "Questa sedia è stata così predisposta affinché colui che è investito da un sì grande potere sappia che egli non è Dio, ma un uomo, e pertanto è sottomesso alle necessità della natura".
      Laddove per "natura" non si sa bene quale delle tre funzioni della sedia forata il Plàtina intendesse privilegiare, se il defecare, il partorire - ma allora, andava benissimo la papessa Giovanna! - o il possedere (e all’occorrenza usare) i testicoli al fine di generare. Generare? E sempre lì torniamo. La lingua della Chiesa batte dove il dente duole.
      Fatto sta che perfino il fidatissimo Plàtina dove mette la fatidica sedia bucata? Nella sua Vita della Papessa Giovanna, guarda caso, rafforzando così e ad altissimo livello un collegamento che invece la Chiesa di oggi esclude. Anche per C. D'Onofrio il rito aveva carattere religioso, ma non potendosi arrampicare sugli specchi sale sulla sedia. Per lui è una "sedia da parto", e simboleggerebbe nientemeno la Santa Madre Chiesa che "genera" (aridaje!) i suoi figli destinandoli alla vita eterna (Mille anni di leggenda: Una donna sul trono di Pietro, Romana Soc.Ed 1978). Nel Seicento inoltrato lo storico e pastore protestante D. Blondel smentì che la sedia forata servisse a provare l’esistenza dei testicoli del papa.
      Il rituale della sedia forata sarebbe stato in vigore fino al 1513. Anzi i sedili su cui posare le terga pontificali erano due - ricordava A. Boureau - chiamati "seggi curuli". Ma, obiettiamo, la rituale sella curulis, riservata ai più alti magistrati Etruschi e Romani nelle cerimonie, non poteva essere di marmo, perché in origine era pieghevole, insomma un sedile di legno intarsiato e dorato a forma di X. Ad ogni modo, sul primo sedile il neoeletto papa avrebbe ricevuto lo scettro del comando e le chiavi di S. Pietro, sul secondo una cintura rossa dalla quale pendevano dodici gemme. E’ probabile che gli antichi cronisti e il popolino siano rimasti impressionati da questi sedili forati e li abbiano collegati alla storia, anzi alla leggenda, della papessa Giovanna (La papessa Giovanna. Storia di una leggenda medievale, Einaudi 1991).

      A proposito, come andò a finire la papessa? A Giovanna Angelica (così la chiama il Boccaccio) fu dato per segretario un giovane prete, erudito e raffinato, che standole sempre accanto finì per per scoprire il suo vero sesso. Così narra la storia. Ma il dramma, anzi il colpo di teatro, si compì in pubblico durante la processione di Pasqua. Tornando il Papa in Laterano, quando il corteo papale era vicino alla basilica di San Clemente, il cavallo che portava la Pontefice si imbizzarrì per la folla plaudente che stringeva la processione, e per lo spavento Giovanna ebbe doglie violente e un parto prematuro. Immenso lo scandalo. La folla - racconta la storia - fu impietosa, attribuendo il parto ad un prodigio del diavolo. La papessa fu fatta trascinare per i piedi da un cavallo e poi lapidata a morte nei pressi di Ripa Grande. Un dettaglio della leggenda vorrebbe che sulla sua tomba fosse stato inciso un verso che ricorda l’occultismo satanista: Petre Pater Patrum Papissa Pandito Partum. Parole attribuite ad un indemoniato durante il passaggio della papessa. Ma qui siamo in pieno esoterismo.
      Sul luogo in cui fu svelata la vera natura della papessa, all’angolo tra via dei SS. Quattro Coronati e Via dei Querceti, fu eretta una piccola edicola votiva tuttora esistente, buia e in stato d'abbandono, nota come il "Sacello". E' chiusa da un'inferriata e risale almeno all’XI secolo. Ma nel Seicento anche l'itinerario dell'antica processione pasquale fu smentito da G. Blondel. A suo dire, la tradizionale processione papale di Pasqua verso l'800 non passava nella strada dove secondo la storia popolare - creduta vera da tutti fino alla fine del Rinascimento - sarebbe avvenuto il parto della papessa Giovanna.
      Vera, leggendaria o simbolico-pedagogica che sia questa vicenda, resta il suo trasparente significato semantico: l'ossessione del popolo della Chiesa e delle sue gerarchie, in un'epoca confusa e violenta in cui il potere ecclesiastico si imponeva sempre più come potere politico ed economico, per la sessualità del Papa, vicario di Dio, sì, ma anche pericolosamente uomo, e per la donna, nella quale Satana era sempre pronto ad incarnarsi. Tre paure - il sesso, la donna e il diavolo - che hanno alimentato fin quasi ai nostri giorni il fanatismo della Chiesa di Roma, e che la storia di Giovanna ebbe il merito di sintetizzare e simboleggiare alla perfezione.
      E Giuseppe Gioachino Belli come entra in questa contorta avventura? Come il Boccaccio, non poteva perdersi una tale bellissima storia dell'immaginario popolare, e la narra in un sonetto con la consueta sintesi scultorea d'un virtuale e ignorantissimo popolano romano:

. LA PAPESSA GGIUVANNA
Fu ppropio donna. Bbuttò vvia ’r zinale
prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato;
doppo se fesce prete, poi prelato,
e ppoi vescovo, e arfine Cardinale.
E cquanno er Papa maschio stiede male,
e mmorze, c’è cchi ddisce, avvelenato,
fu ffatto Papa lei, e straportato
a Ssan Giuvanni su in zedia papale.
Ma cquà sse ssciorze er nodo a la Commedia;
ché ssanbruto je preseno le dojje,
e sficò un pupo llí ssopra la ssedia.
D’allora st’antra ssedia sce fu mmessa
pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
si er pontescife sii Papa o Ppapessa. 

26 novembre 1831 

Versione. La papessa Giovanna. Fu proprio donna. Prima di tutto gettò via il grembiule e divenne soldato, poi si fece prete, poi prelato, poi vescovo e infine cardinale. E quando il papa maschio stette male e morì (c’è chi dice avvelenato) fu fatta papa lei e trasportata a S.Giovanni sulla sedia papale. Ma qui si sciolse il nodo della commedia, perché ex abrupto [all’improvviso] le presero le doglie e partorì un bambino là, sopra una sedia. Da allora un’altra sedia fu introdotta, per tastare sotto il sito delle voglie se il pontefice sia papa o papessa. .


IMMAGINI. 1. Il manifesto del film tedesco Die Papstin (uscito quest'anno in Italia col titolo La Papessa) tratto dal libro Pope Jean, di Donna Woolfolk Cross. 2. La copertina del libro della Cross (edito in Italia da Piemme). 3. La sedia stercoraria in porfido rosso, di origine romana, conservata ai Musei Vaticani. 4. Papa-donna con bambino, una fantasiosa stampa popolare apparsa in Germania. 5. La Papessa, dipinta su una carta dei tarocchi per i Visconti-Sforza da Bonifacio Bembo (ca. 1450). The Pierpont Morgan Library, New York. La Papessa, è tuttora una delle carte più famose dei tarocchi, ritratta anche come la "prostituta sulla bestia" citata nell'Apocalisse. 6. Papa Innocento X appena eletto (1644) è sottoposto alla "prova della sedia" per l'accertamento della virilità.
 
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