3 aprile 2010

Uova, brodo, vino a barili, dolce e testicoli: è la Santa Pasqua

 

Pasqua in casa nel sonetto Belli (dis. Attalo)

Altro che passivo cronista dei popolani di Roma, come vorrebbe qualcuno. Talvolta è il ritratto della minuta borghesia, fatto però col linguaggio del popolaccio, a rivelarsi una specialità del Belli, che alterna in continuazione i due livelli con effetti stridenti, sempre irridenti e sardonici.

Così, il sonetto dedicato ai preparativi culinari e all'atmosfera domestica che alla vigilia della Pasqua cristiana regna o dovrebbe regnare in ogni casa, secondo un’ideale da "minenti" (popolani arricchiti e pretenziosi, oggi diremmo piccolo-borghesi del vorrei-ma-non-posso), si risolve nel tipico binario belliano.

In superficie, un’apparente e irreprensibile ortodossia formale nei confronti della prima festività della religione cattolica. Ma in secondo piano traspaiono particolari che, se ben analizzati, fanno da elementi di contrasto grotteschi e canzonatori. E che danno un possibile significato subliminale all’intero sonetto. Altrimenti, non si capirebbe perché il satirico Belli avrebbe dovuto parlare della Pasqua, vogliamo dire in modo convenzionale e banale.

Lo ha capito perfettamente il disegnatore Attalo, che ha colto (v. immagine) entrambi i livelli: l’ipocrita omaggio esteriore, tipicamente cattolico, verso la "festa comandata" (come se devozione, gioia e piacere potessero darsi dall’alto, a comando), e sottotraccia i particolari comici che dicono tutto il contrario.

Tutto un percorso in discesa: dalla spiritualità della ricorrenza al rito abitudinario imposto, fino alla materialità e volgarità della "magnata", cioè l’eccesso di cibi ricercati, fiaschi di vin di Orvieto e interi barili di vino locale, insomma l’ostentazione di una finta opulenza di circostanza, anch’essa d'obbligo, che stride maledettamente con l’elogio del povero che fa il Cattolicesimo.

Mito pauperistico che, però, continua ad imporsi per contrasto, nonostante, anzi proprio perché Curia romana, vescovi, cardinali e pontefici, si sa, vivono nell’oro e nello sfarzo. E perfino l’ultimo pretonzolo di rione, dice più volte il Belli in vari sonetti, cerca di accumulare quanti più baiocchi può, magari intascando una multa per ogni bestemmia detta dai parrocchiani.

Ed ecco l’uomo, il capofamiglia, nell’atteggiamento plasticamente strafottente "alla Attalo", nella posa tipica della tradizione maschilista del bullo romanesco (testa e spalle piegate all’indietro, come di chi guarda ostentatamente dall’alto in basso), acchittato per quanto gli è possibile in modo appariscente come un mezzo "paìno", con cappello imponente ma probabilmente liso e l’abito della festa coi pantaloni lunghi, che in certi casi poteva anche essere comperato usato dal "cenciarolo" del Ghetto e poi magari rimesso a nuovo dalla "sòcera" esperta o dalla moglie. Moglie che per l’occasione indossa uno scomodo ampio abito festivo ricco di volants e nastri, sicuramente poco adatto ai lavori di cucina, e chissà quanto "unto e bisunto" a fine giornata.

E in questa lotta tra l’essere, il voler essere e l’apparire, non dobbiamo meravigliarci se anche il menù rappresenta un gustoso contrasto tra diversi ceti sociali e relative "rispettabilità" esteriori. Passiamola in rassegna questa sintesi tutta belliana dei luoghi comuni da “pranzo popolare della festa” piccolo-borghese. Con la solita stoccatina finale…

Il "brodetto" della povera cultura contadina fatto con le uova sbattute, come la stracciatella, versato su grandi fette di pane nero, era ottenuto eroicamente con ossa, nervetti, scarti o rimasugli di carni, spesso avuti gratis dal macellaio, e croste di formaggi.

L’italianissima "zuppa inglese" del pranzo festivo alto-borghese, che come tutte le cose nuove o strane o chic nella xenofila Italia deve avere un nome straniero, come poi testimonierà l’Artusi, teorico di questa e di altre mistificazioni culinarie, che però - ammettiamolo - unificò l’Italia, almeno a tavola. Dolce ottocentesco e novecentesco, ma tecnologico, nordico e "artificiale", semmai più piemontese-liberale che reazionario-papalino (vuole il "pan di Spagna" - aridaje - o i "savoiardi" che, come dice il nome, alludono alla Savoia…), ovviamente ignoto agli Inglesi, così come i Russi ignorano l’italianissima "insalata russa", i Turchi non conoscevano il granturco, tantomeno gli scomparsi Saraceni il grano saraceno, mentre i portoghesi non solo erano costretti a intrufolarsi senza mai pagare il biglietto ma erano anche incolpevoli dell'invenzione del latte alla portoghese e dei "portogalli" (le arance al tempo del Belli).

E poi i salumi dell’immaginario Bengodi popolare italiano, già ben descritto da Boccaccio, in realtà tipico dei ricchi contadini e, per derivazione dall’inurbamento, anche dei neo-cittadini piccolo-borghesi ma ex-contadini, visto che in alto gli aristocratici preferiscono il "nobile" arrosto, e in basso i poveri e diseredati di città descritti dal Belli non se li possono certo permettere, tranne il lardo.

E, ancora, il particolare medio-borghese e aristocratico di quelle primizie romane non di sostanza, ma puramente di gusto e di scena, costose ancor oggi, che oltre ai fiori e alle piante odorose che decorano la tavola (l’erba di S.Maria dovrebbe essere Balsamite odorosa o major, detta anche erba della Madonna o di S.Pietro; la perza è forse la maggiorana), sono i veri e propri "fiori della tavola" mangerecci, cioè i carciofi, che il popolino romano dei "senza terra" a primavera sognava, e duecento anni dopo, con i prezzi che corrono, sogna ancora.

E infine il tocco dissacrante dei "granelli", i testicoli, probabilmente di agnellone o capretto, che di solito nelle trattorie venivano alternati nello spiedo ai carciofi, in un’accoppiata molto ricercata nella povera Roma papalina che - forzatamente vegetariana senza saperlo - si accontentava nelle solennità di economici sottoprodotti della macellazione, come trippe, teste, rigaglie, lingua, creste, code, interiora, cervelli, rognoni, budelli d’intestino di agnellino da latte (con tutto il loro contenuto nella "pajata"), e appunto i testicoli, ritenuti a torto afrodisiaci, ma che oggi risulterebbero per la sensibilità comune leggermente raccapriccianti.

I testicoli di capretto, un mangiare sapido e rozzo da lavoranti del mattatoio di Testaccio, proprio il giorno della Resurrezione del Signore?

Sì. un particolare curioso, questo, che il Belli poteva evitare, vista l’occasione. Ma se non l’ha evitato, c’è il sospetto che sia voluto, eccome, anzi, che abbia voluto dire e non dire qualcosa, com'è solito suo. Per celebrare degnamente la "gloria" non di Dio, s'intende, ma di Santa Madre Chiesa (una differenza semantica che l'erudito Belli conosce bene), il diavoletto belliano pare aver prevalso sull’angelo custode, insinuando che perfino a tavola l’imbastardito popolaccio romano ritenesse più adatti di ogni altra cosa, per quella e per altre sacre festività, dei semplici coglioni.
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LA SANTA PASQUA
Ècchesce a Ppasqua. Ggià lo vedi, Nino:
la tavola è infiorata sana sana
d’erba-santa-maria, menta romana,
sarvia, perza, vïole e ttrosmarino.
Ggià ssò ppronti dall’antra sittimana
diesci fiaschetti e un bon baril de vino.
Ggià ppe ggrazzia de Ddio fuma er cammino
pe ccelebbrà sta festa a la cristiana.
Cristo è risusscitato: alegramente!
In sta ggiornata nun z’abbadi a spesa
e nun ze penzi a gguai un accidente.
Brodetto, ova, salame, zuppa ingresa,
carciofoli, granelli e ’r rimanente,
tutto a la grolia de la Santa Cchiesa.

19 aprile 1835
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Versione. La Santa Pasqua. Eccoci a Pasqua. Già lo vedi, Nino, la tavola è tutta quanta infiorata d’erba di S.Maria, menta romana, salvia, maggiorana, viole e rosmarino. Già sono pronti da una settimana dieci fiaschetti di vino di qualità e un buon barile di vino comune. Già per grazia di Dio il camino fuma, per celebrare questa festività alla cristiana. Cristo è risorto, allegria! In questa giornata non si badi a spese, e non si pensi per niente ai guai. Brodetto, uova, salame, zuppa inglese, carciofi, granelli, e il resto. Tutto in gloria della Santa Chiesa.
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IMMAGINE. La Santa Pasqua. Disegno di Attalo, in V. Metz, La cucina di G.G.Belli, ed. Gattopardo, Roma 1972.

4 commenti:

V. M. Fiori ha detto...

Di testicoli ne abbiamo in abbondanza in Italia, è Pasqua tutti i giorni.

Tatiana ha detto...

Ah, ah! molto divertente, e adattissimo alle feste comandate...

Maria Carolina S. ha detto...

Diciamo che il mix è senz'altro esplosivo...

Coccodè ha detto...

Ah ah ah.... geniale. Sei molto più satirico tu del Belli!

 
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