3 novembre 2013

Non c’è più religione: anche lo Stato del Papa ricorda il Belli.

IL 150° ANNIVERSARIO DELLA SCOMPARSA (21 DICEMBRE 1863).

Se è vero che il Belli patì i guai suoi più da vivo che da morto, è ancor più vero che le sue “fortune” le sta godendo, poveretto, più da morto che da vivo. Del resto, tranne Victor Hugo che ebbe in vita perfino una strada col suo nome (e immaginiamo che dovesse sentirsi più morto che vivo quando vi passeggiava), tutti i Grandi sono “postumi”, cioè riconosciuti grandi dopo la morte. E il Belli parecchi decenni dopo la morte. Ma come, in Italia non bastava morire per diventare qualcuno? Come un tempo in Unione Sovietica e oggi nella Chiesa. Nel primo caso il dittatore di turno faceva celebrare come “eroe della Rivoluzione” i suoi predecessori. Nel secondo caso i Papi di oggi stanno prendendo il vizio di fare Beati e Santi, spesso a furor di popolo (v. il famigerato grido “Santo sùbito”), quasi tutti i loro colleghi trapassati. Cose che neanche sotto i Borgia...

Visto, dunque, che in Italia diventa un Grande, una volta nella tomba, qualunque personaggio appena noto, quando ormai sigillato nella bara e oppresso da tonnellate di marmo è finalmente in condizioni di non nuocere e quindi non dà più fastidio ai concorrenti, agli invidiosi o al Potere, figuriamoci se non meritava onoranze, e coi fiocchi, il grande Giuseppe Gioachino Belli, unico, vero cantore del popolo di Roma, i cui bozzetti di carattere e d’ambiente restano tuttora ineguagliati, e ridicolizzano perfino nella lingua e nella tecnica del verso i suoi inadeguati e tardi epigoni Trilussa e Pascarella, che hanno grazie al finto romanesco all’acqua di rose molti più lettori.

L’ITALIA UNA MONETA, IL VATICANO UN FRANCOBOLLO.

Perciò, anche se siamo abituati ai 100 e 200 anni, e le mezze misure dei 50 e 150 anni ci emozionano poco, siamo lieti che lo Stato italiano si sia ricordato del 150.o anniversario della scomparsa del Belli, tanto da organizzare un “Anno belliano”. E’ noto che nelle ricorrenze i burocrati della cultura, incerti se essere intellettuali critici o impiegati dell’Anagrafe, indugiano morbosamente sulle date come vecchie zie di provincia, e anzi ricordano morbosamente più il momento della morte che quello della nascita, sorvolando magari sull’intera lunga vita – peggio se imbarazzante, drammatica e contraddittoria – come fu quella del Belli.

Fatto sta che la cosa più preziosa di questo “ricordo” statale è stata una moneta celebrativa d’argento (valore facciale 5 euro; venduto dalla Zecca di Stato a 43,50 euro, spedizione esclusa), formalmente a corso legale ma in realtà per collezionisti numismatici e investitori, che ha un dritto bello ma un rovescio brutto e irriconoscibile (v. sotto): un pezzo del tempio di Vesta con un campanile sullo sfondo. Risultato: primo premio del peggior panorama di Roma d’ogni tempo! E poi, perché “G. Gioachino Belli” anziché G. G. Belli, o al limite Giuseppe G. Belli, cioè mettere in risalto il secondo nome, quando lui stesso firmava per scherzo i primi sonetti “Peppe er tosto”? Insipienza di burocrati ed “esperti”. In più, è stata organizzata una serie di Convegni.

Moneta 5 euro 150.o scomparsa GG Belli Zecca Italia,dritto 2013

Il Vaticano, invece, sorprendendo quasi tutti, soprattutto i conoscitori superficiali dei Sonetti, ha stampato un francobollo, ovviamente brutto (famigerata è ormai l’estetica della Chiesa oggi) e con un valore inesistente tra le tariffe postali (1 euro). Come a dire: vabbe’, il dovere nostro lo abbiamo fatto, ma ‘sto francobollo non lo vogliamo vedere mai sulle buste della Posta vera, reale: resti un valore virtuale, nascosto nelle raccolte segrete dei collezionisti filatelici.

IL VATICANO SCEGLIE IL SONETTO SUL GIUDIZIO UNIVERSALE.

Come è stato presentato ai filatelici? Un foglietto di sei francobolli da 1 euro, reso più elegante dalla stampa in corsivo, al centro della composizione, d’un sonetto. Immaginiamo il dramma dei funzionari delle poste: quale scegliere tra i tanti, molti dei quali di argomento “religioso” o “ecclesiastico”, sì, ma fortemente critici e satirici? Probabilmente dopo aver sentito – vista la delicatezza del caso – il cardinale Governatore e forse anche qualche prelato esperto “belliano” (ce ne sono, ce ne sono), hanno optato per Er giorno der Giudizzio, un sonetto di argomento biblico tra i più innocui, dal sapore caricaturalmente michelangiolesco, ma sconclusionato e comico come un tema di bambini alle elementari. Certo, complimenti all’autoironia dei prelati del Vaticano, ma si sa che loro, come diceva il perfido matematico Odifreddi, alle interpretazioni infantili delle Sacre Scritture sono abituati. Non è forse la religione, e quella cristiana con dichiarata consapevolezza, tanto più se cattolica, una narrazione fantasiosa adatta a coloro che non usano il senso critico, cioè per dirla col migliore eufemismo possibile, i “semplici di spirito”?

ER GIORNO DER GIUDIZZIO

Cuattro angioloni co le tromme in bocca
Se metteranno uno pe cantone
A ssonà: poi co ttanto de voscione
Cominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca.
Allora vierà ssù una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe rripijjà ffigura de perzone
Come purcini attorno de la bbiocca.
E sta bbiocca sarà ddio bbenedetto,
Che ne farà du' parte, bbianca, e nnera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.
All'urtimo usscirà 'na sonajjera
D'angioli, e, ccome si ss'annassi a lletto,
Smorzeranno li lumi, e bbona sera.

25 novembre 1831

Versione. Il giorno del Giudizio [Universale]. Quattro angioloni con le trombe in bocca si metteranno uno per cantone a suonare; poi con tanto di vocione cominceranno a dire: Fuori a chi tocca. Allora verrà fuori dalla terra una fila di scheletri a pecoroni [“camminando, cioè, con mani e piedi”, spiega il Belli in nota] per riprendere l’aspetto di persone, come pulcini attorno alla chioccia. E questa chioccia sarà Dio benedetto, che ne farà due parti, bianca e nera. Una per andare in cantina, una sul tetto. Alla fine uscirà un formicaio [è il Belli stesso che suggerisce la traduzione, anche se non ci convince] d’angeli e, come se si andasse a dormire, spegneranno i lumi e buona notte! 

Foglietto Poste Vaticane 150.o scomparsa GG Belli (2013) MORI’ CON LO SCALDINO IN MANO.

L’anniversario del 150.o della scomparsa cade pochi giorni prima di Natale. Il Belli, freddoloso com’era, neanche a farlo apposta morì in pieno inverno, nel gelo del 21 dicembre 1863, alle ore 20 e 30, simbolicamente con uno scaldino in mano, per un colpo apoplettico – come riferì il figlio – a quanto si legge nel bellissimo e introvabile libro di S. Rebecchini, ingegnere-umanista e già sindaco di Roma, Giuseppe Gioachino Belli e le sue dimore (Palombi ed. 1987), ristampa rara e numerata di quella del 1970, di cui l’editore ha voluto farci dono della copia n.177.

ANNO “BELLIANO”? MA IL BELLI, ANCHE PER COLPA DEI “BELLIANI”, E’ ANCORA UN ILLUSTRE SCONOSCIUTO.

Fatto sta che l’anniversario è stata una sorpresa innanzitutto per i “belliani”. E’ stato accompagnato da un mediocre e clandestino “Anno belliano” di Convegni, noto solo ai pochissimi che lo hanno organizzato, ai relatori, e ai funzionari che per lavoro ricevono i comunicati ufficiali. L’iniziativa di Marcello Teodonio, a cui, certo, siamo grati per l’inserimento, anni fa, del Belli e della letteratura romanesca nei programmi dell’Università di Roma Tor Vergata, e per l’acquisizione filologica del testo originale dei Sonetti, che ora una redazione specializzata in informatica ha riversato su internet, non ha purtroppo avuto successo, cioè risonanza sulla stampa e presenza popolare, sia perché egli stesso appare inadatto alla divulgazione, mantenendosi volutamente lontano da internet (basta dire che non siamo neanche riusciti a trovare il suo indirizzo email per fargli conoscere il presente sito!), sia perché anche gli altri organizzatori degli eventi belliani non sono all’altezza del compito o non vogliono comunicare al largo pubblico. Insomma, come sempre in Italia: sono gli “specialisti” o gli accademici, in questo caso i “belliani”, i primi responsabili dell’incultura del pubblico. Perciò, se questi sono gli “amici” del Belli, figuriamoci i nemici!

Infatti, perdura, fino a essere ormai cronica, l’ignoranza dei Sonetti, l’unica opera geniale del Belli di cui valga occuparsi, in Università, accademie, associazioni culturali, scuole, giornali, televisione, internet e perfino in singoli “uomini di cultura” della stessa Roma. Non meravigliamoci, perciò, se non a Torino o a Trento, ma proprio a Roma, l’uomo della strada o non li conosce affatto, ricordando semmai in alternativa qualche facile banalità di Trilussa o Pascarella, oppure, quando li ricorda, li orecchia in modo superficiale, impreciso, volgare, equivoco, puramente salace e sottoculturale. E, da parte loro, gli intellettuali e studiosi belliani, a forza di scoprire “altri aspetti” o “angoli nascosti” nella vita e nella caotica produzione belliana, come se gli sembrasse banale e ovvio continuare a riferirsi ai Sonetti, ormai finiscono per darli per scontati, risaputi, e perciò ne parlano poco. Basta vedere il brutto sito della Associazione belliana.

Risaputi un corno! Benché bisognosi di revisioni e correzioni che l’autore non ebbe mai il tempo e la volontà di fare, i Sonetti sono, a nostro parere, l’unica cosa valida del Belli. Ebbene, nessuno li divulga correttamente, con la grafia giusta, e soprattutto li spiega, traduce, analizza, commenta, critica e inquadra nel loro tempo, usando un buon italiano, tantomeno li riferisce all’oggi per le eventuali coincidenze d’attualità. I Sonetti sono difficili, spesso molto difficili e di non chiara interpretazione, e con titoli quasi sempre fuorvianti. Non possono, quindi, essere soltanto pubblicati e basta, senza analisi e commento, spesso anche in modo scorretto, come fanno praticamente tutti i siti di internet. Perciò siamo stati costretti ad aprire questo sito-blog.

SORPRESA: L’ANTIPAPALINO CELEBRATO DALLO STATO DEL PAPA.

Ma l’anniversario ha avuto almeno il merito di mettere per la prima volta d’accordo lo Stato italiano e quello della Città del Vaticano. E già, quando gli “eroi postumi” sono indigesti, in Italia devono fare i conti anche con una Nemesi crudele, quella dell’ottusità della burocrazia o dei bozzetti mediocri che dovrebbero celebrarli. Così il Caso si vendica non facendo sapere quel poco che accade, contando anche sull’ignoranza dei giornalisti e del pubblico, e soprattutto facendolo eseguire male.

Moneta 5 euro 150.o scomparsa GG Belli Zecca Italia, rovescio 2013Ha sorpreso tutti i giornalisti che la Chiesa, attraverso il suo braccio secolare, lo Stato della Città del Vaticano, abbia finalmente celebrato l’autore dei sonetti più virulenti contro  Papi, Curia romana, cardinali, vescovi, monsignori, parroci, preti, monaci, e la Chiesa stessa, autore che in qualche sonetto fa satira troppo acidula perfino sulla religione, però ipocritamente, sempre facendo parlare il popolo plebeo. Ecco, per esempio, quello che il tipico popolano del Belli pensa dei Papi in genere (e si potrebbero trovare versi ancora più duri): Er Papa, 26 novembre 1831, incipit:

Iddio nun vô cch’er Papa pijji mojje
pe nnun mette a sto monno antri papetti:
sinnò a li Cardinali, poverelli,
je resterebbe un cazzo da riccojje.

Versione. Iddio non vuole che il Papa prenda moglie, per non mettere al mondo altri papetti. Se no, ai Cardinali, poverelli, non gli resterebbe nulla da raccogliere.

E un Papa vale l’altro, tanto si sa, pensa il Belli-popolano, in fondo è solo un politico (L’upertura der Concrave, 2 febbraio 1831):

Bbe’? cche Ppapa averemo? È ccosa chiara:
o ppiù o mmeno la solita-canzona.
Chi vvôi che ssia? quarc’antra faccia amara.
Compare mio, Dio sce la manni1 bbona.
Comincerà ccor fà aridà li peggni,
cor rivôtà le carcere de ladri,
cor manovrà li soliti congeggni.
Eppoi, doppo tre o cquattro sittimane,
sur fà de tutti l’antri Santi-Padri,
diventerà, Ddio me perdoni, un cane.

Versione. Be’, che Papa avremo [dopo il Conclave]? E’ chiaro: più o meno la solita canzone. Chi vuoi che sia? Qualche altra faccia amara. Compare mio, Dio ce la mandi buona. Comincerà col restituire i pegni [del Monte di Pietà], collo svuotare di nuovo le carceri dei ladri, col manovrare i soliti congegni [del consenso popolare, della demagogia]. E poi, dopo tre o quattro settimane, come hanno fatto tutti gli altri Santi Padri, diventerà, Dio mi perdoni, un cane.

E altro che “Belli liberale”. Se il Papa è debole, senza idee né azione, insomma visibilmente inadatto al ruolo, come Gregorio XVI, nel Momoriale ar Papa (4 febbraio 1832), il Belli lo incita a essere più duro e autoritario, a usare l’arma della scomunica contro i furbi e prepotenti, fossero pure aristocratici e cardinali. Stavolta una posizione “di Destra”, diremmo oggi:

MOMORIALE AR PAPA
Papa Grigorio, nun fà ppiù er cazzaccio:
Svejjete da dormì Ppapa portrone.
San Pavolo t'ha ddato lo spadone,
E ssan Pietro du' chiave e un catenaccio?
Duncue, a tté, ffoco ar pezzo, arza cuer braccio
Su ttutte ste settacce bbuggiarone:
Di' lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
Serreje er paradiso a ccatenaccio.
Mostra li denti, caccia fora l'oggne,
Sfodera una scommunica papale
Da fàlli inverminì ccom'e ccaroggne.
Scommunica, per cristo e la madonna!
E ttremeranno tutti tal e cquale
Ch'er palazzo der prencipe Colonna.
4 febbraio 1832

Versione. Il memoriale al Papa. Papa Gregorio, non fare più il buono a nulla: svegliati, Papa poltrone. San Paolo t’ha dato lo spadone e San Pietro due chiavi e il catenaccio? Dunque, a te, dà fuoco al cannone, alza quel braccio contro tutte queste brutte sètte del cavolo: dì il tuo scongiuro, fagli il segno della croce, chiudigli il paradiso a catenaccio. Mostra i denti, tira fuori le unghie, sfodera una scomunica papale da farli ricoprire di vermi come carogne. Scomunica, per Cristo e la Madonna! E tremeranno tutti, come il palazzo del principe Colonna [che tremava, secondo il popolino, a ogni scomunica papale.

SBAGLIANO I GIORNALISTI A GRIDARE ALLO SCANDALO.

Non c’è teologo che non potrebbe sottoscrivere questi e infiniti altri versi di denuncia contro la religione che diventa politica, demagogia, gusto per il potere, avidità di beni e corruzione, ma anche mollezza e pigrizia, anche e soprattutto nelle alte sfere della Chiesa. Perciò i commentatori sbagliano, mostrando incultura, superficialità davvero grossolana, e soprattutto una madornale incapacità di distinguere in modo critico concetti, idee e psicologia del Belli. Insomma, sapevamo che il Belli è poco letto, ma non credevamo che perfino i lettori del Belli equivocassero sul significato e il senso di molti Sonetti, scambiando magari anticlericalismo e critica moralistica di costume per agnosticismo. Noi che conosciamo un pochino il Belli, invece, non ci siamo meravigliati più di tanto. E la Chiesa, una volta tanto, ha ragione: ha fatto benissimo a celebrare il suo Dr. Jekyll-Mr Hyde, l’oscuro impiegato di giorno baciapile e di notte verseggiatore sferzante e diabolico.

MA LA CHIESA OGGI E’ D’ACCORDO CON LA CRITICA MORALISTICA DEL BELLI.

A leggere e interpretare correttamente i Sonetti, anche i più anticlericali e anti-ecclesiastici, si scopre che il pessimista Belli, che mette sempre in bocca al popolino il proprio pensiero, potrebbe essere considerato o un cattolico fondamentalista vecchio stile o un moderno moralista ecclesiale, un giansenista si sarebbe detto nell’800, in qualche caso addirittura un cristiano protestante. Più che anti-cattolico, anti-cristiano, o tanto meno ateo. Vero è, però, che il pessimismo dei suoi personaggi spesso sembra tendere a negare la verità stessa della religione. Infatti il Samonà propende per un dissidio tra ragione e religione che nel Belli sfocia alle volte in una sorta di negatività quasi materialistica, fino a punte di vera e propria miscredenza. Insomma questo aspetto del Belli appare contraddittorio e non facile da studiare.

Certo, sarebbe stato scomunicato e i suoi Sonetti sarebbero stati messi all’Indice, se fossero stati integralmente pubblicati sotto papa Pio IX. Ma perché la Chiesa dell’800 – tentano di spiegare oggi i cattolici – era ancora fondata sul braccio secolare, autoritario e armato, e non poteva ammettere il dissenso o il dubbio. Infatti, per i grandi cattolici liberali che fecero il Risorgimento, a partire dal romano Massimo d’Azeglio, la perdita del Potere temporale avrebbe giovato alla stessa religione cattolica riportandola a una dimensione più spirituale, oltre che alla libertà delle coscienze. Era questa anche l’idea di papa Montini, Paolo IV, che elogiava Porta Pia. E nei Sonetti il Belli, o da destra o da sinistra, è sempre contro il potere temporale dei Papi.

Del resto, pur nella satira più sferzante, non attacca mai la figura di Gesù in quanto tale o i fondamenti della fede cristiana (salvo descriverli in modo scanzonato e ironico, insieme con gli altri personaggi del Vecchio e Nuovo Testamento), ma le degenerazioni, l’incoerenza e i vizi dei cattolici in carne e ossa, con o senza l’abito talare. Ecco perché mette alla berlina preti, monaci, vescovi e papi che hanno tralignato, tradito, ingannato sia il popolo sia la stessa Chiesa (intesa come religione), quando questa proclama – se è in buona fede – il messaggio di Dio.

G.G.Belli, in fondo, visto in modo intelligente e paradossalmente laico da Oltre-Tevere, non ha fatto altro che puntare l’occhio sulla contraddizione aspra tra teoria e realtà nella Chiesa (Curia, sacerdoti e fedeli), tra missione originaria affermata e condizione effettiva, tra povertà asserita e ricchezza praticata, tra altruismo predicato ed egoismo concreto, tra bontà auspicata e cattiveria manifestata, tra buone pratiche e superstizione, tra semplicità ostentata (la rinuncia al mondo dai sacri Testi) e il formalismo, la pompa e le cerimonie dell’apparato della Chiesa. Sono proprio gli argomenti di qualsiasi buon parroco. E non da oggi.

Temi sui quali, a parole, tutti i “veri” o i “nuovi” cattolici erano e sono d’accordo, salvo poi non trarre le conclusioni da un fallimento durato due millenni. Un tempo, forse, erano cose da protestanti, ma oggi no. Perfino il mensile cattolico 30 Giorni (sottotitolo eloquente: Nella Chiesa e nel Mondo), diretto dal cattolicissimo Giulio Andreotti, commentò favorevolmente a firma di S. Ravaglioli i quattro sonetti satirici del Belli in occasione del Giubileo straordinario del 1832. L’autrice, che si capisce essere una buona conoscitrice del poeta romano, sottoscrive pienamente fino a usarla come titolo l’efficace conclusione del III sonetto della serie di quattro: “un Giubbileo ppe ttanti ladri è ppoco”.

MONTINI: IL FUMO DI SATANA. FRANCESCO: NO AL DENARO E SI’ ALLA COERENZA.

Dice: va be’, ma “in alto loco”? Lo stesso, anzi, meglio. Non solo l’ultimo papa, Francesco, ma perfino i suoi predecessori, soprattutto Benedetto XVI e Paolo VI hanno preso posizioni che qualcuno potrebbe definire “belliane”. Papa Montini addirittura scandalizzò qualche vecchio prelato di Curia (e ancor più i giornalisti) denunciando chiaro e tondo: «Attraverso qualche fessura, il fumo di Satana è entrato nella Chiesa» (29 giugno 1972). Cose simili ha detto e ridetto con parole di fuoco papa Ratzinger, contro i preti pedofili e non solo. E non parliamo di papa Francesco! Non solo contro l’accumulazione e ostentazione della ricchezza da parte dei religiosi, ma sull’esistenza stessa di una banca vaticana (a proposito, era stato proprio Pio IX, uno dei papi del Belli, a creare lo IOR), e perfino contro – udite, udite – l’ossessione del proselitismo, da sempre una costante della Chiesa, e la poca coerenza morale dei cristiani, clero e laici. E così via. Insomma, altro che Belli: sembra di sentir parlare un pastore protestante.

E allora, dov’è lo scandalo, signori commentatori e giornalisti laici che andate scrivendo che questo francobollo vaticano sul Belli è “rivoluzionario”? Semplice: scrivete così perché siete ignoranti della materia. Belli è sfaccettato e difficile, va letto, riletto e interpretato, anche perché usa una lingua complessa, e non basta conoscere due o tre sonetti scorrendo distrattamente gli altri titoli.

Non solo il Belli, dunque (se avesse fatto pubblicare i Sonetti in vita), ma se fossero stati semplici preti o vescovi, anche i gli stessi Papi che abbiamo detto avrebbero passato i guai loro a dire quelle cose alcuni secoli o decenni fa, perfino ai tempi di Gregorio XVI, Pio IX e Pio XII. Sarebbero stati scomunicati e ridotti allo stato laicale, come pochi anni fa toccò al domenicano Dom Franzoni, reo di aver detto e scritto cose simili a quelle del Belli, di papa Paolo e di papa Francesco.

IL VERO SCANDALO, PIUTTOSTO: DIVULGATORI INADEGUATI E SONETTI DIMENTICATI.

Quindi, nessuno scandalo ideologico. Semmai di deficit culturale. «In un Paese dove “s'incavajjèra mó cqualunque vizzio” (Li cavajjeri), non si è trovato un onorevole ministro né uno straccio di burocrate che abbia avuto il senno di celebrare l'anniversario della morte di Belli, genio incontrastato e universale, di cui ancor oggi si traduce in tutto il mondo la sublime invenzione, il sarcasmo e l'ironia», ha scritto in un’accorata lettera alla redazione romana del Corriere della Sera il poeta romano Lucio Mariani, cultore del Belli. A cui il cronista P. Conti ha risposto in modo evasivo evitando accuratamente di prendere posizione e di condividere la minima critica. Tipico della stampa italiana.

Un neo organizzativo e comunicativo, ripetiamo dopo averlo accennato sopra, e quindi anche culturale. E’ che un francobollo e una moneta, e perfino una serie di Convegni – dai temi un po’ troppo laterali ed eccentrici, però, rispetto ai Sonetti belliani – vista l’assoluta mancanza di pubblicità e di partecipazione popolare, non servono a nulla e a nessuno, e che niente si fa in pratica per diffondere tra i giovani, perfino a Roma, la lettura e l’esegesi critica dei Sonetti belliani. Anzi, sul testo vero e proprio dei Sonetti, neanche ci sono più gli studiosi che se ne occupano in modo critico, magari mettendo a disposizione del pubblico informatico quello che studiano. Addirittura dal testo “definitivo” a cura di Teodonio, riportato su Wikisource, sono state espunte le note aggiuntive del Vigolo, che almeno servivano a riempire sul web qualcuna delle numerose mancanze esplicative ai lemmi più oscuri, costringendoci così a fare spesso ricorso all’insostituibile opera del Vigolo, che risale al 1952, e ad altre opere cartacee.

Il Belli, insomma, tra tanti siti internet sottoculturali, volgari e di basso livello che si limitano a copiare – pure malamente – alcuni suoi sonetti senza tradurli, spiegarli e commentarli (anche perché così i loro autori rivelerebbero la loro bassa cultura, cioè di averli capiti poco o nulla), è ancora sconosciuto in Internet – che ormai è la Biblioteca d’Alessandria dei nostri tempi – come fenomeno culturale, e con un minimo di apparato interpretativo. I Sonetti del Belli, ripetiamo, per essere divulgati non possono essere copiati e incollati da qualunque becero, né fatti leggere da un attore qualsiasi, quasi sempre con pessima pronuncia e spelling incomprensibile, ma vanno sempre trascritti con la grafia corretta e “accettata”, tradotti, inquadrati, spiegati verso per verso e complessivamente, e infine commentati. Un lavorone. Quello che, seppure con pigrizia, fa il presente sito. Insomma, i Sonetti non solo sono cultura, ma pretendono anche molta cultura. Hanno come oggetto il volgo, è vero, ma vogliono fior d’intellettuali muniti di competenze plurime per essere capiti e divulgati. Passi per il largo pubblico, ma è grave che burocrati della Cultura e appassionati del Belli non lo capiscano. Questo, sì, il vero scandalo.

AGGIORNATO IL 10 APRILE 2014

2 novembre 2013

E se la zitella dice no? Perdo la testa e me la sbatto in un portone

Jane Austen scrittrice zitellaUna “bella zitella” un po’ sfiorita ma appetitosa, una di quelle procaci quarantenni che oggi in fatto di forme possono dare dei punti alle adolescenti smunte e dalla pelle grigia (a forza di notti in bianco, sigarette e alcol), ma che nonostante i suoi apparenti “trent’anni”, per niente offuscati da qualche ruga, ha lo sguardo triste che le risa sforzate non riescono a nascondere, e qualcosa dentro che la appesantisce, la invecchia. E quante ce ne stanno! Ma stiamo parlando di oggi.

Invece, ai tempi del Belli, quando le donne si sposavano prestissimo, ancora adolescenti, la zitella più comune era un’altra: qualsiasi ragazza vergine o anche donna non vergine “in età da marito”. E’ lo stesso poeta a chiarirlo (sonetto Er zitellesimo, in nota): “zitella, presso il popolo è tanto la non maritata, quanto la vergine, cose fra loro differentissime”. E già. Ma su questo equivoco le ragazze vivevano e prosperavano, il vicinato spettegolava, ma la morale del vicolo era ufficialmente salva. Impossibile sapere la verità. Dopotutto che è la verità? si chiederebbe Pirandello. Bisognerebbe chiederlo a “padron Bebberebbè” (personaggio caricaturale, di fantasia – nota il Vigolo – tanto la domanda è assurda per il Belli):

ER ZITELLESIMO
È zzitella la fijja de Chichì?
Indovinela-grillo si sse pò.
Ce sò cquelli che ddicheno de sì,
Ce sò cquelli che ddicheno de no.
Io mo in cusscenza nu lo posso dì,
Da cristian battezzato nu lo so.
Sò ggabbole, Andrea mia, cueste che cquì
Che bbisogna vedelle ar Pagarò.
Si tte discessi cuer che ppare a mmé,
Io saría d’oppignone che la dà,
Co tuttosciò che ll’ha nnegata a tté.
Ma ssi tte preme sta materia cquà,
Dimànnelo a ppadron Bebberebbè:
Lui solo te pò ddì la verità.
28 gennaio 1832

Versione. La verginità. E’ zitella la figlia di Chichì [diminutivo di Francesco]? Indovinala-grillo se si può. Ci son quelli che dicono di sì, ci son quelli che dicono di no. Io ora in coscienza non lo posso dire, da cristiano battezzano non lo so. Sono cabale, Andrea mio [una stranezza dell’uso popolare romano, qui e in altri sonetti, l’aggettivo al femminile per assonanza con un sostantivo che finisce in a...], queste qui, che bisogna vedere al pagherò [cioè alla fine, al momento cruciale]. Se ti dicessi quel che pare a me, io sarei dell’opinione che la dà [che si concede sessualmente], con tutto che l’ha negata a te. Ma se ti preme questo argomento, domandalo a padron Bebberebbè [personaggio immaginario, impossibile da trovare]. Solo lui ti può dir la verità.

Donna setina tonda e zitellaIl nome zitella (cittella al Nord Italia, registrato anche dal Tommaseo) è il diminutivo alla latina di zita (v. cita e cittina, in toscano), cioè fanciulla, ragazza vergine, che è anche un nome proprio femminile persiano. Ma la perfidia delle madri ne fa uno spauracchio. «Tu, col carattere che hai, mi sa tanto che non ti mariti: vuoi restare zitella?» predica la madre alle figlie più grandi. E così entriamo nella seconda categoria della “zitella”, quella un po’ denigratoria che è stata ed è tuttora in provincia e nei paesi del sud l’incubo di tante ragazze non più giovanissime. E a furia di prefigurare un futuro maligno e solitario, ecco che il vaticinio della madre o della nonna si avvera.

Fatto sta che tempo dopo la scomparsa del Belli, nel Novecento, il popolino romano prende a usare la parola “zitella” da sola e unicamente nel secondo significato, bollando come epiteto offensivo, lontano dall’uso del Belli e del popolo romano dell’Ottocento, tutte quelle donne ormai nella tarda giovinezza o addirittura nella maturità, irrimediabilmente non fidanzate né sposate, o perché brutte o con qualche difetto fisico o di cattivo carattere o anche riluttanti per predisposizione al maschio, e per questo – riteneva il popolino – un po’ lunatiche, scostanti, piene di manie, talvolta isteriche, ma comunque vogliose. Insomma, si arriva a una sorta di incivile discriminazione che mette alla berlina le malcapitate dipingendole come votate a una vita di privazioni sessuali e affettive. Perfino papa Francesco, scherzando, ha detto alle 800 rappresentanti delle suore di tutto il mondo: «Non siate zitelle!». (8 maggio 2013).

Nel Belli questo tipo di zitella è presente, eccome, perché si presta magnificamente ai suoi bozzetti di satira di costume, ma in questi casi al sostantivo – che da solo, ripetiamo, ha valore neutro – è aggiunto un aggettivo esplicativo e peggiorativo. Come nel caso dello sfogo di auto-compatimento della donna ormai stagionata e senza speranza, forse non bella (La zitella ammuffita), che l’amica Nunziata tenta invano di rincuorare:

E’ inutile pe mmé, sora Nunziata
De dimannamme si mme faccio sposa

Perché io non sono né amata (bbenvorzùta), né richiesta (ariscercata), non ho un nome elegante e vistoso come Llutucarda (Lutgarda), e morirò zitella perché sono nata sfortunata:

Nun me so inzin adesso maritata
E ccreperò accusì; perch’io sò nata
Sott’a qquella stellaccia pidocchiosa.

Eppure, c’era quel cuoco che le stava dietro... Macché, “non c’è vverso de facce capitale” (affidamento): è più fermo di Castel S.Angelo. A meno che – spera la zitella stagionata – non incontri qualche “scarterello” (uomo di scarto, pretendente di mezza tacca) a Carnevale, che era il periodo più adatto alle nuove amicizie e ai fidanzamenti per le recluse donne romane in tempi di maschilismo e clericalismo dominanti. Come che sia, confidiamo nel Signore e in San Pasquale. Chi? Ma Pasquale Baylonne, protettore delle donne:

Bbasta, aspettamo un po’ sto carnovale,
Sì ccapitassi quarche scartarello:
Lassamo fa ar Ziggnore e a ssan Pasquale.

Naturale che poi le zitelle, riferiva l’immaginario delle malelingue del vicolo, fossero vogliose, anzi vogliosissime di sesso, e facciano qualunque cosa pur di maritarsi. Ma molte non si guardano allo specchio e ci provano anche quando appaiono rivoltanti e conciate come maschere orribili, che si esibiscono e si strofinano per accattare un marito (chiosa il Vigolo). Il che, però, contrasta con l’accusa già accennata di indifferenza. Insomma, ogni malignità, anche la più incoerente, poteva essere indirizzata alla povere zitelle.

Ma resiste lo stereotipo popolare della scarsa avvenenza della zitella stagionata, e il Belli non fa nulla per resistervi. Chi volete che se la pigli, così brutta, magra e curva? scrive impietoso nel crudele doppio sonetto che assomiglia a un’invettiva degna di Marziale e Giovenale(La zitella strufinata, I e II, 3 febbraio 1832)?

Tanta smania te viè de fatte sposa?
Ma cchi vvôi che tte pijji? Basciaculo?
O er zor Jaià: pe tté nun c’è antra cosa.
Cuanno vojji però ppropio l’assarto,
Pijja in affitto er buggero d’un mulo,
Cché ssi nnò, bbella mia, mori de parto.

Versione. Tanta smania ti viene di farti sposa? Ma chi vuoi che ti pigli, Baciaculo? [nome di spregio (Belli), o di chi “si suole nominare come soggetto di pretese impossibili o di azioni assurde (Vigolo)], oppure il sor Jaià [modo di dire per uno stupido (Belli)]: per te non c’è altra soluzione. Se però vuoi proprio l’assalto, prendi in affitto il membro d’un mulo [animale sterile], ché altrimenti muori di parto.

jane_austen scrittrice zitella (dis. modif NV sanguigna) Sposarla io? Neanche morto, conferma il presunto pretendente della “zitella strufinata” (parte II): non solo ha un pessimo umore (“tutto quer morzarzo”) ed è mutevole peggio del sol di marzo, non è bella, ed è pure zoppa (“co cquella scianca che tte bbutta in farzo”), ma per fortuna io sono vedovo, e non me la sento “de la padella de cascà a la bbrascia”, cioè di cadere dalla padella nella brace.

Ma un certo tipo di “zitella” giovane, col sesso aveva rapporti stretti. Com’è possibile? Ma sì, nella Roma papalina s’impone a un certo punto la curiosa figura della zitella-puttana, o quasi. E in questo caso, ovviamente, per “zitella” si intendeva soltanto “nubile”. Per questo, il moralismo dei preti, sempre morbosamente attenti alle cose del sesso, riteneva le giovanissime zitelle povere e abbandonate pericolanti”, cioè sempre a rischio di adulterio, prostituzione, accattonaggio e incesto («perfino nella propria casa la ragazza non maritata è considerata in pericolo»”, scrive G. Zarri *), e perciò ricoverate ogni notte in dormitori o alloggiate fino alla maggiore età in appositi Conservatori gestiti da suore. Come quello famoso al rione Regola dedicato ai SS. Clemente e Crescentino, istituito da papa Clemente XII «per le povere orfane comunemente denominate zoccolette» (v. la via omonima), vuoi perché per economia portavano le calzature più economiche, gli zoccoli di legno, vuoi perché una volta uscite di lì, essendo il matrimonio e il servire in case patrizie cose difficili, potevano solo sperare di fare la “zoccola”, cioè la pubblica prostituta. Il nome del resto deriva proprio dalla rozza calzatura, tipica allora di persone rozze, povere e ignoranti, da cui l’analogia con quella condizione (cfr. Ravaro, Diz. Rom.). Ciò non toglie che l’assistenza della Chiesa o di famiglie nobili provvedeva spesso a costituire doti per le zitelle povere o abbandonate più oneste, meritevoli e avvenenti, così da permetter loro di sposarsi. Era questo uno degli scopi del Conservatorio della Ss.Immacolata Concezione di Maria (noto come Monastero delle Viperesche, dal nome della nobildonna mecenate Livia Vipereschi) in via di S.Vito, ai Monti.

Ma nella Roma papalina gravata dall’opprimente controllo pretesco e sociale, le zitelle giovani meno povere, più abili o fortunate perché vivevano a casa propria, riuscivano a dare ad intendere al vicinato d’essere zitelle, solo per attrarre i clienti con la sbandierata“verginità” e poter fare i propri comodi, in realtà concedendosi a tutti. Fatto sta che qualche zitella faceva una vita un po’ troppo disinvolta. Come La zitella dell’omonimo sonetto (8 gennaio 1834), che evidentemente passa da un uomo a un altro, è spesso incinta (la luna che non esce sta per mestruazioni mancate), tanto che il suo amante di turno corre a depositare il neonato alla ruota dell’ospedale S. Spirito, installata apposta per ricevere i neonati abbandonati:

Peccato che la luna in mezz’ar mare
Quarche mmese nun essce, e vve cojjona;
E cche spesso, a Ssaspirito, er compare
Curre a una rota, mette drento, e ssòna.

E doveva pure sbrigarsi e fare tutto di nascosto dai vicini, perché il parroco avrebbe potuto obbligarlo a sposare la donna, com’era legge nella Roma papalina.

Altro che zitella, questa, piuttosto una Santaccia (la celebre puttana di piazza Montanara). Infatti...

... ve se vede in faccia
che vvoi sete zitella a bbocc’uperta
a un dipresso in zur gusto de Santaccia.

Perché a bocca aperta, lo spiega il Belli in nota: a Roma il popolino, quando una zitella non era vera, pronunciava la parola aprendo in modo esagerato la “a”, alludendo alla più nota delle prestazioni sessuali della famosa e popolarissima prostituta.

Comunque, il trucco della ragazza sedicente “zitella” è semplice: non prendere mai ufficialmente marito pur avendone tanti, per poter continuare a fare la “puttanella”. Però col diritto a essere chiamata “zitella”. Che in fondo era anche una salvaguardia di onorabilità pubblica. Dal che si deduce che le ragazze romane al titolo di zitella ci tenevano, eccome: ne andava della loro reputazione. Un po’ come il velo per le ragazze musulmane oggi. Ipocrisie della “morale” in tempi e luoghi arretrati!

E ffussivo magara puttanella,
Nun avenno marito è ccosa scerta
Che v’hanno da chiamà ssempre zitella.

Ma le altre, le vere zitelle? Speranzose e maliziose quanto volete, in apparenza civette, ardite, spesso disposte al gioco di parole e all’allusione, perfino di fervida e maniacale immaginazione (proprio come certe suore giovani fissate sul sesso). Ma poi? Al dunque restano indecise, bloccate, di fronte a un uomo reale. Sono le famose “signorine no” per cui nessun pretendente è adatto o all’altezza, perché loro, si sa, sono tutte principesse, mentre lui è “troppo ordinario”, “troppo basso”, “non si lava”, “ha la barba”, è “volgare” o “puzza di tabacco”. E così, quando sono al momento del dire sì – com’è, come non è – si tirano indietro all’ultimo. Oppure è il pretendente che non si fa più vivo all’improvviso, inspiegabilmente. Ma la vera zitella lascia, più che farsi lasciare.

E anzi, una delle tecniche più furbe per trovare scuse e mandare a monte sempre tutto, non è dire no a tutti, ma lasciar balenare un sì a tutti nello stesso tempo. E’ la sindrome “Mirandolina”, ben descritta dal Goldoni, un tipo di donna del “vorrei e non vorrei”, dell’amore in testa ma non tra le gambe, insomma d’una cosa e del suo contrario, sempre indecisa, o perché troppo ingenua o perché troppo scaltra. Proprio come la zitella Lucia del sonetto La scerta, ragazza da marito messa finalmente dai genitori spazientiti di fronte a due pretendenti molto diversi tra loro: un giovane prestante e un anziano dai capelli grigi, ma ricco. E chi sceglie Lucia? Non sceglie, proprio come una zitella inveterata. Al giovane che chiede di decidersi risponde con una terzina che vale tutto il sonetto, specialmente l’ultimo verso. “Per me – dice il sostanza la furba ragazza – prenderei tutti e due: l’uccello vostro e i quattrini suoi”:

LA SCERTA
Sta accusì. La padrona cor padrone,
Volenno marità la padroncina
Je portonno davanti una matina,
Pe sceje, du’ bravissime perzone.
Un de li dua aveva una ventina
D’anni, e du’ spalle peggio de Sanzone;
E l’antro lo diceveno un riccone
Ma aveva un po’ la testa cennerina.
Subbito er giuvinotto de quer paro
Se fece avanti a dì: “Sora Lucia,
Chi volete de noi? parlate chiaro”.
“Pe dilla, me piacete voi e lui”,
Rispose la zitella; “e ppijerìa
Er cicio vostro e li quadrini sui”.
Roma, 21 novembre 1832

Versione. La scelta. Andò così. La padrona col padrone, volendo maritare la padroncina una mattina le portarono davanti, per scegliere, due bravissime persone. Uno dei due aveva una ventina d'anni e spalle più larghe di quelle di Sansone; dell' altro si diceva che fosse un riccone, ma aveva i capelli un po' grigi. Subito il giovanotto si fece avanti a dire: Signora Lucia, chi volete di noi? parlate chiaro. “Per dire la verità, mi piacete voi e lui - rispose la zitella - e prenderei l'uccello vostro e i quattrini suoi”.

Ma il bel gioco dura poco. Tirarla troppo per le lunghe ha i suoi inconvenienti. Certe zitelle “signor no” finivano per spazientire molto gli uomini, specialmente nell’Ottocento maschilista e un po’ violento del popolino descritto dal Belli. Rapimenti e stupri erano all’ordine del giorno, e la morale chiesastica metteva tutto a tacere con “matrimonio riparatore”.

Venditrice (part. e modif) (B.Pinelli 1816-22)E poi, va’ a capire chi è zitella e chi no. Ed ecco che lo spasimante invaghito della procace venditrice ambulante che vede passare spesso per la via, dopo averla seguita con lo sguardo chissà quante volte, un bel giorno perde la testa e senza più freni inibitori fantastica di fermare per strada la bella paciocca (donna formosa e rotondetta) alla prossima occasione, di condurla a forza dentro un portone, magari di sera, spingerla contro un muro dove non arriva la fioca luce del lampione a petrolio, e “ingrufalla” dove tocca tocca. E’ l’oscuro desiderio minacciato dall’io narrante, il Belli in persona, nel sonetto La peracottara:

LA PERACOTTARA
Sto a ffà la caccia, caso che mmommone
Passassi pe dde cqua cquela pasciocca,
Che va strillanno co ttanta de bbocca:
Sò ccanniti le pera cotte bbone.
Ché la voría schiaffà ddrento a ’n portone
E ppo’ ingrufalla indove tocca, tocca;
Sibbè che mm’abbi ditto Delarocca,
C’ho la pulenta e mmó mme viè un tincone.
Lei l’attaccò ll’antr’anno a ccinqu’o ssei?
Dunque che cc’è dde male si cquest’anno
Se trova puro chi ll’attacca a llei?
Le cose de sto monno accusí vvanno.
Chi ccasca casca: si cce sei sce sei.
Alegria! chi sse scortica su’ danno.
Roma, 14 settembre 1830

Versione. La venditrice di pere cotte. Sto facendo la posta, caso mai proprio ora passasse di qui quella bella giovane che va strillando a bocca aperta “Sono canditi, le pere cotte buone!”(**). Perché la vorrei spingere dentro a un portone e poi penetrarla dove capita. Anche se m’ha detto [il dottor] Delarocca che ho la gonorrea e mi verrà un tincone [adenite inguinale, nota il Vigolo]. Lei l’attaccò l’anno scorso a cinque o sei? Dunque che c’è di male se queat’anno si trova pure chi l’attacca a lei? Le cose di questo mondo così vanno. Chi casca casca: se ci sei ci sei. Allegria! Chi si scortica [fa il] suo danno.

NOTE
(*) Zarri G., Monache e sante alla corte estense (XV-XVI) in Storia illustrata di Ferrara, 2, a cura di F. Bocchi, Milano, 1987. p. 418.
(**) Nota il Belli: “Grido de’ venditori di pere cotte al forno, i quali girano nelle ore più calde della stagione estiva, dette perciò a Roma: l’ore de peracottari”.

IMMAGINI. 1. Tipica eterna zitella, in questo caso borghese, figlia d’un pastore protestante, la scrittrice inglese Jane Austen (1775-1817, per alcuni decenni contemporanea del Belli), mi perdonerà se uso un suo ritratto come immagine tipica della zitella stagionata. 2. Zitella laziale con l’abito della festa ai tempi del Belli. 3. Zitella giovane (ritratto di Jane Austen, da me modif. a sanguigna). 4. Venditrice sulla pubblica via, come la “peracottara” che aveva attizzato il desiderio dell’io narrante del sonetto del Belli (dis. di B. Pinelli).

17 marzo 2013

Habemus Papam nell’Ottocento. E che Dio ce la mandi buona!

gregorio xvi (stampa a colori) "Questo è ben più interessante che l’estrazione del lotto!" È il commento di un "elegantissimo spettatore" riferito da uno Stendhal presente in Piazza Montecavallo in attesa del nuovo Papa la mattina del 31 Marzo 1829. Marie-Henri Beyle, alias Stendhal, che soggiornò a Roma contemporaneo del Belli, descrive un "habemus Papam" visto dai ricchi e colti pellegrini del "viaggio in Italia", da una privilegiata prima fila sotto il balcone del palazzo del Quirinale, da cui il decano dei Cardinali annunciava l'elezione di Pio Ottavo. Un contrasto quasi violento con la cronaca Belliana, che racconta le disperazioni, le passioni e la satira del volgo romano.

Scrive Stendhal: «Pioveva a torrenti, una vera pioggia tropicale, quando questa mattina un parrucchiere al quale avevamo promesso una mancia è arrivato ansante e completamente fuor di sé nella sala dove facciamo colazione. Signori, non c’è fumata!". Ecco le sole parole che è riuscito a pronunciare. Dunque lo scrutinio di questa mattina non è stato bruciato: vuol dire che il papa è stato eletto!Siamo stati colti di sorpresa; proprio come Cesare Borgia avevamo tutto previsto per il giorno della nomina del pontefice, meno che piovesse a dirotto. Abbiamo sfidato l’acquazzone. Abbiamo avuto la costanza di restare tre ore sulla piazza di Montecavallo. In capo a dieci minuti eravamo bagnati come se ci fossimo gettati nel Tevere. I nostri mantelli di taffetà impermeabile cercavano di proteggere le nostre compagne, intrepide quanto noi. Avremmo potuto guardare la scena da certe finestre che danno sulla piazza, che erano a nostra disposizione, ma desideravamo restare proprio di fronte alla porta del palazzo, davanti al finestrone murato, in modo da non perdere le parole del cardinale che avrebbe proclamato il nuovo papa. Non ho mai visto una folla simile: una spilla non sarebbe caduta a terra, e pioveva a catinelle.

Pio VIII (Stampa. Museo Centrale del Risorgimento)«Alcuni bravi soldati svizzeri, coi quali eravamo già d’accordo, ci hanno aiutato a raggiungere i posti conservatici vicino alla porta del palazzo. Uno dei nostri vicini, un tipo elegantissimo che stava sotto la pioggia da più di un’ora, ci ha detto: «Questo è ben più interessante che l’estrazione del lotto! Pensate che il nome del nuovo papa influirà direttamente sulla fortuna e sull’avvenire di tutti i romani che portano abiti di buona stoffa». A poco a poco la penosissima attesa ha fatto incollerire il popolo, e in queste circostanze tutti diventano popolo. È impossibile descrivere l’empito di gioia e di impazienza che d’un colpo ci ha tutti agitati quando una prima, piccola pietra si è staccata dalla finestra murata sul balcone. Tutti gli occhi erano fissi lassù. Un urlo immenso ci ha rintronato nelle orecchie. L’apertura si è ingrandita rapidamente: in pochi minuti la breccia era abbastanza larga da permettere di affacciarsi al balcone.

«È uscito un cardinale. Ci è parso fosse l’Albani. Ecco però che spaventato dal terribile rovescio d’acqua che vien giù dal cielo, egli ha un istante di esitazione e poi si ritrae. Evidentemente non osava affrontare di colpo tutto quel freddo, dopo tanti giorni di reclusione. Come descrivere il furore del popolo a quella vista, le sue grida di collera, le sue imprecazioni volgarissime? Le nostre compagne ne furono spaventate. Già i più furiosi urlavano che volevano invadere il conclave per eleggere loro stessi il papa nuovo. La incredibile scena è durata più di mezz’ora. Alla fine, a forza di gridare, la gente non aveva più voce.

«A questo punto la pioggia è diminuita per un istante. Il cardinale Albani si è avanzato di nuovo sul balcone: dall’immensa folla è venuto come un gran sospiro di gioia. Poi un silenzio che si sarebbe sentita volare una mosca. Il cardinale ha detto: “Adnuntio vobis gaudium magnum, papam habemus eminentissimum et reverendissimum dominum...” Qui l’attenzione della folla è raddoppiata. “Franciscum Xaverium, episcopum tusculanum Sacrae Romanae Ecclesiae cardinalem Castiglioni, qui sibi nomen imposuit Pius VIII”. Alle parole Franciscum Xaverium quelli che conoscono i nomi di battesimo dei cardinali hanno subito indovinato che si trattava di Castiglioni. Ho sentito parecchia gente intorno a me mormorare subito quel nome. Alle parole episcopum tusculanum altre venti persone hanno pronunciato il nome del Castiglioni, ma a voce bassissima, in modo da non perdere niente di ciò che diceva il cardinale Albani. Alla parola Castiglioni c’è stato come un grido soffocato, subito seguito da un movimento di gioia profonda.

Papa Pio IX appena eletto (incisione)«Si dice che questo papa sia davvero colmo di virtù; di certo non sarà cattivo. Prima di lasciare il balcone, il cardinale Albani ha gettato alla folla un foglio di carta contenente le stesse parole che aveva pronunciato poco prima. Poi si è messo a battere le mani. Un grande, unanime applauso gli ha risposto dalla piazza: nello stesso istante il cannone di Castel Sant’Angelo annunciava il grande evento al popolo della città e della campagna.

«Ho visto le lacrime brillare in molti occhi: erano il frutto di una semplice reazione emotiva dinanzi a un avvenimento atteso tanto a lungo? Oppure erano davvero un segno di felicità per aver ottenuto un così buon sovrano, dopo tante paure? La gente, mentre sfollava, canzonava allegramente quei due o tre cardinali la cui nomina l’avrebbe costernata. Siamo tornati a casa di corsa per asciugarci. In vita nostra non eravamo mai stati così zuppi di pioggia.

«Ecco qualche altro particolare fra quelli che la prudenza mi permette di rendere noti. I tre o quattro voti che hanno deciso l’elezione sono andati a Pio VIII grazie a una predizione di Pio VII. Si racconta che Pio VII, quando nominò cardinale l’attuale pontefice, dicesse che egli sarebbe stato il suo successore» (Stendhal, Les Promenades dans Rome).

Un pezzo da cronista d'altri tempi, compreso dalla grandiosità dell' evento ma attento ai più minuti particolari. Uno scrittore di cultura illuministica che affermava fra l'altro: "Dio ha una sola scusa: quella di non esistere".

Mentre Stendhal commenta, in fondo alla sua dettagliata cronaca, le qualità morali del nuovo pontefice, il Belli, nel brevissimo spazio del sonetto che segue, ne tratteggia solo i segni atroci di una vecchiaia ormai devastante.

PIO OTTAVO

Che fior de Papa creeno! Accidenti!
Co rispetto de lui pare er Cacamme.
Bella galanteria da tate e mamme
pe fà bobo a li fiji impertinenti!
Ha un erpeto pe tutto, nun tiè denti,
è guercio, je strascineno le gamme,
spènnola da una parte, e buggiaramme
si arriva a fà la pacchia a li parenti.
Guarda lí che ffigura da vienicce
a fà da Crist’in terra! Cazzo matto
imbottito de carne de sarcicce!
Disse bene la serva de l’Orefice
quanno lo vedde in chiesa: «Uhm! cianno fatto
un gran brutto strucchione de Pontefice».
1° aprile 1829

Versione. Che fior di Papa hanno creato! Accidenti! Con rispetto per lui sembra il Cacamme (storpiatura da haham, autorità ebraica nel Ghetto). Bell' atteggiamento da padri e madri che vogliano spaventare i figli impertinenti! Ha un erpete dapertutto, non ha denti, è cieco da un occhio, cammina trascinando le gambe, pende da una parte e scommetto che non farà in tempo ad arricchire i parenti (il nepotismo dei Papi). Guarda che razza di figura da fare il Cristo in terra! Un cazzo matto (stupidone da mandare in manicomio) imbottito di carne da salsicce! Disse bene la serva dell'orefice quando lo vide in chiesa "Uhm! ci hanno fatto un gran brutto omaccione mal tagliato come Pontefice".

In realtà Pio Ottavo, appoggiato dalla Francia, fu un Papa si vecchio e malandato ma buono e "liberale". Si adoperò fra l'altro per contrastare il nepotismo, piaga che accomunava da secoli pontefici e cardinali della chiesa di Roma. Fu inevitabilmente di transizione, vista la sua età avanzata governò per soli due anni. In attesa dell' austriacante Gregorio XVI, originario di Belluno nelle terre dell' Impero Austro-ungarico.

Papa Gregorio, che fu il secondo papa del Belli, è stato oggetto di un gran numero di sonetti. Spesso con una satira feroce contro un pontefice illiberale, vizioso, intemperante e nepotista. Ma il buongiorno si vede dal mattino, e quando è abbattuto il muro che chiudeva i Cardinali nel conclave (da cui uscirà Gregorio XVI) il Belli è pessimista: sarà sicuramente un'altra "faccia amara".

L’UPERTURA DER CONCRAVE

Senti, senti castello come spara!
Senti montescitorio come sona!
È seggno ch’è finita sta caggnara,
e ’r Papa novo già sbenedizziona.
be’? che Papa averemo? È cosa chiara:
o più o meno la solita-canzona.
Chi vôi che sia? quarc’antra faccia amara.
Compare mio, Dio ce la manni bona.
Comincerà cor fà aridà li peggni,
cor rivôtà le carcere de ladri,
cor manovrà li soliti congeggni.
Eppoi, doppo tre o quattro sittimane,
sur fà de tutti l’antri Santi-Padri,
diventerà, Dio me perdoni, un cane.
2 febbraio 1831

Versione. L'apertura del conclave (demolizione del muro del conclave). Senti, senti il cannone di Castel Sant'Angelo come spara! Senti le campane di Montecitorio (palazzo di polizia) come suonano! È segno che è finita questa cagnara e il Papa nuovo già impartisce le benedizioni. Allora che Papa avremo? È chiaro, più o meno la solita canzone. Chi vuoi che sia? Qualche altra faccia amara. Compare mio. Che Dio ci assista. Comincerà con restituire i pegni (di piccolo importo) gratuitamente dal Monte di Pietà, vuoterà di nuovo le carceri dai ladri (amnistia) ed altri simili provvedimenti. Poi dopo tre o quattro settimane, come hanno fatto tutti gli altri Santi Padri, diventerà, Dio mi perdoni, un cane.

Povero Gregorio XVI! Non possiamo sapere se fu meglio o peggio di tanti altri papi che ridussero Roma una piccola città popolata da mendicanti, servi dei preti e delle cento famiglie nobili. Certo la presenza di un cronista attento e spietato come il Belli lo ha condannato, attraverso il "monumento al volgo romano", ad una eterna derisione e disprezzo. " A Papa Gregorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male", da un appunto trovato fra le sue carte.

Celebre e durissima verso le istituzioni del Papa Re anche la frase di Stendhal, grande appassionato di Roma, dei suoi monumenti e delle sue donne. "Della patria di Cicerone, Cesare e Virgilio rimangono solo le spoglie esteriori; il suo spirito è morto per sempre e sono i preti e le superstizioni cristiane che l'hanno ucciso".

Il Belli doveva commentare, con i suoi sonetti, ben tre pontificati. L'ultimo Papa Pio IX accese nei cittadini di Roma e dell' Italia intera grandi speranze di rinnovamento liberale. Speranze che dovevano via via affievolirsi per poi spegnersi del tutto. Il nostro poeta, all' indomani della sua elezione, gli dedica un primo sonetto di speranza, non tralasciando però un' ultima satirica frecciata agli eccessi del defunto Gregorio.

ER PAPA NOVO

Che ce faressi? è un gusto mio, fratello:
su li gusti, lo sai, nun ce se sputa.
Sto Papa che c’è mó rride, saluta,
è giovene, è a la mano, è bono, è bello...
Eppuro, er genio mio, si nun ze muta,
sta piú p’er papa morto, poverello!:
nun fuss’antro pe avé mess’in castello,
senza pietà, quella ginía futtuta.
Poi, ve pare da papa, a sto paese,
er dà contro a prelati e a cardinali,
e l’uscí a piede e er risegà le spese?
Guarda la sù cucina e er rifettorio:
sò propio un pianto. Ah queli bravi sciali,
quele belle maggnate de Grigorio!
21 ottobre 1846

Versione. Il Papa nuovo. Che vorresti dire? È un mio gusto: e sui gusti non si discute (gioco sulla frase latina "de gustibus non est disputandum").Questo Papa di adesso ride, saluta, è giovane, è alla mano, è buono, è bello ... eppure il gusto mio, se non cambia, sta più per il Papa morto, poverello! non fosse altro per aver messo in prigione, senza pietà, quella categoria maledetta (i liberali rivoluzionari). Poi vi pare un comportamento da Papa, in questo paese, il dare contro a prelati e cardinali, l' uscire a piedi e il ridurre le spese? Guarda la sua cucina e il refettorio: sono proprio un pianto. Ah quelle grandi abbondanze, quelle belle mangiate di Gregorio!

IMMAGINI. 1. Papa Gregorio XVI, contro cui il Belli si scaglia in numerosi sonetti, in una rara stampa popolare. 2. Un “santino” di papa Pio VIII, che non era affatto brutto e ripugnante come dice il Belli, almeno nelle stampe e nei ritratti che abbiamo. Che poi fosse malfermo in salute, tanto da morire due anni dopo (il popolino disse avvelenato…), è un altro discorso (Roma, Museo Centrale del Risorgimento). 3. Il giovane papa Pio IX appena insediato.

11 marzo 2013

Il Conclave visto dal ciabattino saggio: «Io Papa? Fossi matto!»

Porta Cappella Sistina Secondo voi, un ciabattino, uno dei mestieri più umili nella ottocentesca Roma papalina, se glielo chiedessero per un miracolo dello Spirito Santo i cardinali riuniti in Conclave, cappello in mano, vorrebbe fare il Papa? Macché, manco morto. A un uomo, argomenta il calzolaio del Belli, levategli tutto, ma non l’uso dell’uccello, l’osteria o il gioco! Inchiodatelo su un seggiolone, mandatelo in giro in processione, e lo avrete ammazzato! No, meglio un tozzo di pane e continuare a rattoppare ciabatte:

LA VITA DER PAPA
Io Papa?! Papa io?! fussi cojjone!
Sai quant’è mmejo a fà lo scarpinello?
Io vojo vive a modo mio, fratello,
e nò a mmodo de tutte le nazzione.
Lèveje a un Omo er gusto de l’uscello,
inchiodeje le chiappe s’un zedione,
mànnelo a spasso sempre in priscissione
e cco le guardie a vista a lo sportello:
chiudeje l’osteria, nègheje er gioco,
fàllo sempre campà cco la pavura
der barbiere, der medico e der coco:
è vita da fà gola e lusingatte?
Pe mé, inzin che nun vado in zepportura,
maggno un tozzo e arittoppo le ciavatte.
16 novembre 1833

Versione. La vita del Papa. Io Papa?! Papa io?! Neanche fossi coglione! Sai quanto è meglio fare il ciabattino? Io voglio vivere a modo mio e non come vivono negli altri Paesi. Leva a un uomo il piacere dell'uccello (in senso osceno), inchiodagli le natiche sul trono papale, mandalo a spasso sempre in processione e con le guardie accanto allo sportello [della carrozza]: vietagli l'osteria e il gioco, fallo vivere sempre con la paura del barbiere, del medico e del cuoco [tutti potenziali attentatori della vita del Papa]: è vita da piacere e da invidiare? Per me, fino a che non vado in sepoltura, [più volentieri] mangio un tozzo di pane e rattoppo le ciabatte.

Infatti, non è detto che la vita del Papa sia poi tutta rose e fiori, cioè tanto invidiabile. Sembra quasi che nella sua ignoranza il ciabattino sapesse che, soprattutto nei primi secoli, quando i cristiani erano sotto l’Impero Romano e agivano da cospiratori e rivoluzionari, un Papa poteva anche essere incarcerato e morire, come accadde a papa Fabiano, uno qualunque del popolo (v. oltre). Neanche sul piano politico, come possono testimoniare le cronache delle ricorrenti ribellioni scoppiate a Roma e nelle provincie dello Stato della Chiesa, che negli anni in cui G.G. Belli scriveva i suoi sonetti mettevano in serio pericolo il Potere Temporale. E quando ci furono i moti nelle Romagne e nelle Marche e il papa Gregorio XVI dovette ricorrere agli Austriaci. “Tempo di carestia pane de veccia” diceva il Belli in un altro sonetto. E certo il Papato aveva alti e bassi, con gli agi e gli sfarzi dei regimi assolutistici, ma anche coi terribili pericoli che la recente esperienza della Rivoluzione francese aveva prospettato ai regnanti di tutta Europa. Insomma, tempi duri per un Papa, soprattutto se “scacarcione” (cioè cacasotto, pauroso), come lo definisce il Belli in un sonetto:

Povero frate! è ttanto scacarcione
Che ssi una rondinella passa e ffischia
La pijja pe 'na palla de cannone.

Eppure, qualche popolano, tra una fojetta [misura caratteristica del vino su caraffe graduate dello Stato pontificio, pari a circa ml. 500] e l’altra di vino dei Castelli, quando la mente gli si annebbia, fantastica di essere lui, vestito di bianco, a comandare e a essere riverito in Vaticano, e dare così una svolta alla propria vita di stenti. Perché no, in fin dei conti, visto che per Santa Romana Chiesa qualunque cristiano, anche laico, può diventare Papa?

Altro che giornalista, pilota, medico, cantante, attore o calciatore, le professioni più gettonate dai ragazzi di oggi. A Roma ai tempi del Belli, prima metà dell'800, non esisteva quasi nessuno di questi mestieri. Del resto, quasi non esistevano istruzione, borghesia o arti liberali. Il nulla, o meglio un regime assolutistico dove cento famiglie nobili avevano quasi tutto, e al popolino andavano solo le briciole.
Ma non era proibito sognare, o parlarne sottovoce e di nascosto, naturalmente. Nei sonetti del Belli, di tanto in tanto, affiorano in superficie i desideri segreti e improponibili del volgo romano. Soprattutto in occasione della morte di un Papa. Allora ci si sfogava a sbeffeggiarlo, a commentarne le ricchezze accumulate o sperperate, ma anche a sognare, molto, molto in grande.

Quando il Conclave si riuniva, gli allora settanta i cardinali si palleggiavano i nomi dei papabili, che provenivano spesso da queste 100 famiglie, fino a che lo “Spirito Santo” non faceva individuare il futuro pontefice. Che poteva però essere, in teoria, un uomo di fede al di fuori della ristretta cerchia della Curia e del mondo che gravitava intorno al Vaticano.

Ma poteva anche essere un cristiano qualunque, come il pellegrino appena arrivato dalla campagna, tale Fabiano, che nel 236 d C trovatosi in mezzo alla folla di cristiani che doveva eleggere il successore di papa Antero sentì posarsi sulla testa un colombo. Il popolo decise che quel colombo era lo Spirito Santo e il villico fu fatto Papa per acclamazione (A. Paravicini Bagliani, Morte ed elezione del papa: norme, riti e conflitti. 2013).  Chissà, forse aveva appena seminato nel proprio campo, oppure odorava di stallatico, fatto sta che attirava i piccioni. Del resto è lo stesso Belli che insinua questa cattiveria, quando in un sonetto su papa S.Gregorio che aveva fama di ricevere direttamente all’orecchio la voce dello Spirito Santo, spiega la cosa “scientificamente”: forse il furbo sant’uomo si era ficcato nelle orecchie dei “vaghi [chicchi] d’orzo”, per attirare i piccioni! Comunque il destino di Fabiano è quello sognato dal sor Titta, il fornaciaro romano, mentre si sputa i polmoni per “abbottare”, cioè dare forma a un fiasco di vetro:

LA SCERTA DER PAPA
Sò fornasciaro, sí, sò fornasciaro,
sò un cazzaccio, sò un tufo, sò un cojone:
ma la raggione la capisco a paro
de chiunque sa intenne la raggione.
Scejenno un Papa, sor dottor mio caro,
drent’a ’na settantina de perzone,
e manco sempre tante, è caso raro
che s’azzecchino in lui qualità bone.
Perché s’ha da creà sempre un de loro?
perché oggni tanto nun ze fa filisce
un brav’omo che attenne ar zu’ lavoro?
Mettémo caso: io sto abbottanno er vetro?
entra un Eminentissimo e me dice:
«Sor Titta, è Papa lei: vienghi a San Pietro».
22 dicembre 1834

Versione. La scelta del Papa. Sono fornaciaro, sì, sono fornaciaro, sono un cazzaccio, un tufo, un coglione [un sempliciotto, uno stupido]: ma la ragione la capisco al pari di ognuno che la sa intendere. Scegliendo un Papa, caro il mio dottore, fra una settantina di persone, e non sempre così numerose, è un caso raro che si trovino in lui qualità buone. Perché si deve creare [il Papa] sempre fra uno di loro? Perché ogni tanto non si fa felice un brav’uomo lavoratore? Mettiamo il caso: io sto abbottando il vetro? Entra un Eminentissimo [cardinale] e mi dice: «Signor Titta [diminutivo di Giovanbattista] è Papa lei: venga a San Pietro».

Un sogno troppo grande, anche perché nell'assemblea che elegge il Papa si giocava (e si gioca tuttora) un braccio di ferro fra diverse fazioni della Curia in obbedienza a complesse strategie locali e internazionali. Tant’è che da sempre, per cercare di sottrarre i Cardinali alle lusinghe e ai suggerimenti mondani, li si chiude, quasi murati vivi, in una specie di serraglio nel quale non possa giungere altro suggerimento che dallo “Spirito Santo”. Nessuna comunicazione con l'esterno. Un piccolo nucleo di inservienti: moltissimi scopatori, famosi gli scopatori segreti del Palazzo del Papa, qualche medico e qualche prete e prelato per dire le messe. E i famosi pranzi di prelati e Cardinali? Da dimenticare durante il conclave, quasi solo “fast food” da recapitare in ceste sottoposte a controlli meticolosi per impedire missive clandestine. Questo ai tempi in cui il Belli scriveva il sonetto, ma anche oggi poco è cambiato:

ER CONCRAVE
Ganassa, hai visto mai queli casotti
dove se fanno vede l’animali?
Cusí in concrave, in tanti cammerotti,
sò obbrigati de stà lli Cardinali.
Da pertutto ferrate, bussolotti,
rôte, cancelli, sguizzeri, uffizziali,...
e inzino le cassette e ll’orinali
hanno d’avé li su’ sarvi-condotti.
Je se porta er magnà ’n una canestra,
e ppe ppaura de quarche bbijjetto
se visita inzinent’a la minestra.
Quarche vorta però, tra tant’impicci,
poterebbe passà p’er vicoletto
un pasticcio ripieno de pasticci.
25 novembre 1832

Versione. Il Conclave. Ganassa [mandibola, soprannome per forte mangiatore], hai visto mai quelle gabbie dove si fanno vedere gli animali? Cosi nel Conclave, in tante stanzette sono costretti a stare i Cardinali. Dappertutto inferriate, controporte, ruote [come nei conventi di clausura, dispositivi in forma di cilindro che ruota su un asse, per consegnare cose senza vedere o essere visti], cancelli guardie svizzere, ufficiali [della Guardia nobile], e perfino le sedie stercorarie e gli orinali debbono avere i loro salvacondotti. Gli si porta il cibo in una canestra e per paura di qualche biglietto si controlla pure la minestra. Qualche volta però pur con tanti controlli potrebbe passare di nascosto un pasticcio [pietanza di pasta] con ripieno di pasticci [imbrogli].

24 dicembre 2012

Natale, un ben di Dio di cibarie. Ma per monsignori e cardinali.

Prete a tavola. Solo un digiuno parziale (part.) 1879 L’avidità e golosità degli ecclesiastici di ogni epoca, ordine e grado è ben nota, e specialmente nell’Ottocento era uno dei motivi di maggiore indignazione popolare. Erano tempi quelli in cui la quasi totalità della popolazione era povera, se non poverissima, e perciò appariva una beffarda e atroce contraddizione che proprio i preti di quella Chiesa che a parole predica e quasi santifica la povertà avessero un comportamento parassitario verso i “fedeli”, e che con la scusa di “doni”, “lasciti” e “regalie” approfittassero del proprio stato per incamerare beni di ogni tipo e vivere tra gli agi in spregio della ostentata scelta di povertà.
      Lo stesso Stato della Chiesa, del resto, aveva avuto origine da una finta “Donazione”, quella attribuita a Costantino, e poi aveva sempre fatto mostra di mantenersi in gran parte con le offerte in denaro o beni – vere o estorte che fossero – da parte dei fedeli (“Obolo di S. Pietro” era l’ipocrita definizione). Figuriamoci quando le donazioni, grandi e piccole, erano e sono indirizzate ai singoli prelati! Sono considerate “manna che piove dal Cielo”, quasi provenienti da Dio!
      A Natale, tra i meno poveri, come fattori, contadini, artigiani, frati e suore, c’era l’abitudine di ingraziarsi i potenti ecclesiastici con doni e omaggi, per lo più alimentari, con la convinzione, spesso vana, che poiché cardinali e monsignori non avrebbero saputo resistere al vizio della gola, nel momento del bisogno qualche magnanima elargizione, qualche licenza, qualche affaruccio, qualche privilegio, qualche raccomandazione o comunque qualche vantaggio sarebbe pur ritornato al donante. Ma spesso non era così: il clero era avido, e prendeva soltanto. Al contrario, i clientes dei patrizi dell’antica Roma, che erano un’istituzione sociale alla luce del sole e con una sua dignità (anche di “comitato elettorale”), dimostrarono che doni e regalie dovevano rispondere a requisiti ben precisi, ed erano legate ad una vera e propria controprestazione, spesso assistenziale e di rappresentanza politica, da parte del potente dominus.
Monsignore e cardinale corrotti. Vignetta satirica (NV 2010)      La satira del Belli riprende, perciò, con mano leggera e felice, senza strafare, un motivo popolare diffusissimo e lo situa abilmente alla vigilia di Natale, quando per una delle tipiche contraddizioni cattoliche, una giornata tutta dedicata ufficialmente al “quasi digiuno”, cioè al mangiare “di magro” (astrazione paradossale per cui ci si poteva abbuffare di pesce, anche il più costoso e pregiato, ma non di carni, anche le più povere…), si traduce per i potenti della Chiesa dall’abito rosso o nero, in una occasione d’oro per avere regali e ogni genere di squisitezze e golosità. E sul “quasi digiuno” si veda anche la caustica didascalia della stampa vittoriana qui riprodotta (“Only a partial fast”).
      Ad ogni modo, basta appostarsi davanti al portone dell’abitazione d’un monsignore o cardinale – suggerisce l’io narrante del sonetto al sor Eustachio – per vederne arrivare di tutti i colori, sapori e odori, dal rustico cappone all’aristocratico caviale. Una “processione” – e il Belli usa appositamente questo termine – ben diversa da quelle che dovrebbero interessare il clero, che denota una “devozione” pelosa.
      E a proposito di caviale, che molti credono una specialità soltanto russa, va precisato che allora in Italia era meno raro e molto meno costoso di oggi. Era prodotto perfino a Roma, dato che nel Tevere era possibile pescare in alcuni periodi dell’anno anche lo storione, come testimoniato da alcuni vecchi pescatori romani “de fiume” fino ad oltre il 1950. Lo “sturione”, d’altra parte, è raffigurato in un famoso bassorilievo in S.Angelo in Pescheria Nova (Ghetto), che imponeva a scopo fiscale ai “pesciaroli” (venditori di pesce) del locale mercato ittico – dove proprio l’anti-vigilia di Natale si svolgeva un animatissimo cottìo (vendita all’asta) di pesce per la cena rituale – di inviare ai conservatori (consiglieri) in Campidoglio, le teste dei pesci che superavano una certa lunghezza. E chissà a quante zuppe di pesce saranno servite quelle teste, in epoche in cui non si buttava nulla, una volta arrivate nelle mani delle mogli dei consiglieri!
      Che, in particolare, il pesce di pregio fosse un regalo tipico per monsignori, vescovi e cardinali lo dimostra anche il sonetto Er cottivo (il “cottìo” è a Roma la grande vendita del pesce ai Mercati Generali all’anti-vigilia di Natale). Un popolano chiedendo a un amico commerciante “pesciarolo” com’è andato il mercato, alla fine arriva al pesce di lusso:

«E, ddi’ un po’, lo sturione quanto vale?»
«Ne sò vvenuti dua, ma ppiccinini,
e ssò iti in rigalo a un Cardinale».

Versione. E dimmi un po’, lo storione quanto costa? Ne sono arrivati due, ma piccoli, e sono andati in regalo a un cardinale.

Ma ecco il sonetto sui regali della Vigilia agli ecclesiastici:

LA VIGGIJA DE NATALE
Ustacchio, la viggija de Natale
tu mmettete de guardia sur portone
de quarche mmonziggnore o ccardinale,
e vvederai entrà sta priscissione.
Mo entra una cassetta de torrone,
mo entra un barilozzo de caviale,
mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
e mmo er fiasco de vino padronale.
Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio,
l’oliva dorce, er pesce de Fojjano,
l’ojjo, er tonno, e l’inguilla de Comacchio.
Inzomma, inzino a nnotte, a mmano a mmano,
tu llí tt’accorgerai, padron Ustacchio,
cuant’è ddivoto er popolo romano.

30 novembre 1832


Versione. La vigilia di Natale. Eustachio, la vigilia di Natale mettiti di guardia sul portone di qualche monsignore o cardinale, e vedrai entrare una processione. Ora entra una cassetta di torrone, ora un barilotto di caviale, ora il maiale, ora il pollastro, ora il cappone, e ora il fiasco di vino padronale. Poi entra il gallinaccio, poi l’abbacchio [agnello giovane. NdT], le olive dolci, il pesce di Fogliano, l’olio, il tonno, e l’anguilla di Comacchio. Insomma, fino a notte, a poco a poco, tu lì ti accorgerai, padron Eustachio, quanto è devoto il popolo romano.

IMMAGINI. 1. Monsignore servito a tavola, riccamente imbandita e in una dimora di lusso, da un’elegante cameriera, alla presenza del prete-segretario. Stampa satirica inglese del 9 agosto 1879 (“The Illustrated Sporting and Dramatic News”) contro i viziosi preti della Chiesa di Roma amanti del lusso e del cibo, molto più della religione. La didascalia è caustica: “Only a partial fast” (Solo un digiuno parziale). 2. Vignetta satirica di Nico Valerio.

AGGIORNATO IL 30 APRILE 2016

7 aprile 2012

Maramao perché sei morto? Il gatto anti-Papa e poi anti-Duce.

Gatto nero di notte con luna piena stilizzata (piccolo)D’accordo, il gatto è quanto di meno raccomandabile esista sull’arca di Noè, sia nella simbologia antica dotta, sia nell’immaginario popolare. Specialmente nei secoli della povertà: immaginate che cosa voleva dire per una famiglia povera il furto da parte del gatto dell’ultimo pezzo di lardo. Insomma, ladro e traditore, imbroglione e infingardo, strega e demonio. Tutto quello che volete, ma può la storia d’un gatto un po’ lestofante, che non impressiona neanche un bambino, impensierire i gendarmi del Papa, tanto da far finire qualcuno in galera, e un secolo dopo allarmare la polizia fascista? No, eppure è quello che è accaduto. A proposito: e se non fosse neanche un gatto? Oddio che mal di testa….

Dunque, siamo a Livorno nel 1939, imperante il Duce del Fascismo. E’ morto il gerarca livornese Costanzo Ciano, consuocero di Mussolini, presidente di quella parodia di Parlamento che è la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. E il Regime gli sta erigendo un monumento. Ma nella notte studenti burloni vi affiggono un foglio con questi versi:

Maramao perché sei morto?
Pan e vin non ti mancava,
l’insalata era nell’orto,
Maramao, perché sei morto?

Per gli inquirenti si tratta dei versi d’una canzone uscita proprio in quell’anno, Maramao, perché sei morto?, di tale Panzeri, sospetta di alludere alla morte di Ciano, implicato in scandali e arricchimenti illeciti (“pan e vin non ti mancava…”). Apriti cielo! Le dittature, si sa, non brillano per senso dell’humour, e vigili urbani, poliziotti, carabinieri, questore, prefetto ecc., prendono tutto drammaticamente sul serio, subodorando chissà quale complotto, congiura, cospirazione (termini usati abitualmente in questi casi). “Un ennesimo episodio di fronda, un’opposizione nascosta e sotterranea, col dire e non dire, allo scopo di diffondere il discredito sul Regime”.

Maramao perché sei morto, canzone di Panzeri-Consiglio 1939Il capo della censura, Criscuolo, convoca immediatamente il Panzeri. “Ancora voi!”. Il paroliere è già nella lista nera come autore di Crapa pelada (1936), tradizionale filastrocca infantile milanese ora musicata dal jazzista Gorni Kramer, altamente sospetta perché si adatta a meraviglia al più noto dei calvi, il Duce. E così l’hanno capita gli Italiani.

Il paroliere, però riesce a dimostrare che Maramao è stata scritta prima della morte di Ciano. Fatto sta che interpretato genialmente dal trio Lescano e da una orchestra quasi jazz, diventa popolare in tutte le case italiane, e continua per anni ad essere trasmessa dall’EIAR, la radio di Stato. Anzi, torna di moda qualche anno più tardi, nel 1940, alla morte di un altro “fascistone”: Italo Balbo.

Questo Panzeri è recidivo. Nel 1940 scrive Pippo non lo sa, musicato da Kramer, mettendo alla berlina un buffo personaggio che "quando passa, ride tutta la città". E tutti vi riconoscono il fanatico e ridicolo Starace, segretario del Partito Fascista, odiatissimo dagli Italiani per il suo integralismo (è lui a ordinare il “voi” e la camicia nera, e a costringere gerarchi con la pancia a fare ginnastica e a gettarsi nel cerchio di fuoco), che ama esibirsi passeggiando sul Corso impettito in divisa. In realtà lo stesso Kramer in un’intervista del 1962 smentisce la diceria: era solo uno scherzo all’amico musicista Pippo Barzizza, “reo” di non essersi pronunciato nel 1939 (“Non lo so e non lo voglio sapere!”) alla domanda sui gusti musicali del pubblico: jazz americano o tradizione italiana? Ad ogni modo, Panzeri e Kramer le coincidenze sembrano andarsele a cercare. Infatti, un’altra loro canzone, La Banda d’Affori (1943), ha due versi micidiali: “Il tamburo principal della Banda d’Affori / che comanda cinquecentocinquanta pifferi”. Ebbene, 550 è proprio il numero dei membri della Camera dei Fasci, e il loro capo-tamburo – così pensa la Censura – non può che essere il Duce!

“Quanti guai per una canzone, ma vi pare sensato?” lamenta un secolo prima della vicenda, il nostro G.G.Belli in un sonetto che la censura fascista non poteva conoscere (l’edizione completa di Giorgio Vigolo, che rese finalmente noto a tutti gli Italiani tutto il Belli, è del 1952). Perché altrimenti non avrebbe convocato il povero Panzeri. Ebbene, il sonetto Er canto provibbito è quello che rivela l’origine antica della filastrocca di Maramao, trasportandoci dunque al 1833.

Strega e gatto che strimpella il violino nel Sabba (antica stampa, part)Lo scrittore Vitaliano Brancati incorre in un errore quando, in Ritorno alla censura (Bompiani), facendo quasi la versione in prosa del sonetto belliano Er canto provibbito scrive: "La notte del 10 febbraio 1831 un povero storpio arrancava per le vie di Roma cantando: Maramao, perché sei morto? Pane e vin non ti mancava, l'insalata avevi all'orto… Subito venne arrestato, sotto l'imputazione di alludere al recente funerale del papa. Ma perché doveva alludere al papa? Quale riferimento poteva esserci fra l'insalata all'orto e i giardini vaticani? Queste domande, prima di noi, se le fece Gioacchino Belli, in uno dei sonetti rimasti inediti sino a pochi anni fa”.

Doppio errore di Brancati, che crede ingenuamente che il Belli avesse scritto di un episodio accaduto la notte precedente. Innanzitutto, il sonetto del Belli è stato scritto l’11 febbraio del 1833, non del 1831. Ma anche se lo avesse scritto nel 1831, non poteva narrare un episodio accaduto la notte precedente, visto che il sonetto si riferisce al periodo immediatamente successivo alla morte di papa Pio VIII (“recente funerale”), che avvenne il 1 dicembre 1830. Il funerale, quindi, deve essersi tenuto pochi giorni o settimane dopo, entro dicembre o gennaio, mentre l’11 febbraio 1831 (data del Brancati) era già regnante il nuovo papa Gregorio XVI (si insediò il 2 febbraio 1831). Ecco il sonetto del Belli:

ER CANTO PROVÌBBITO
Sta in priggione, ggnorzí, ppovero storto!
Io da l’abbíle sce faría la bbava.
Sta in priggione: e pperché? pperché ccantava
jer notte: Maramào, perché ssei morto.
Ebbè? ssi è mmorto er Papa? e cche cc’entrava
de dì cche ccojjonassi er zu’ straporto?
E cché! ttieneva l’inzalata all’orto
er Zanto-Padre? e cché! fforze maggnava?
Teste senza merollo: idee brislacche.
Duncue puro a ccantà cce vò er conzenzo
de sti ssciabbolonacci a ttricchettracche!
Io me sce sento crèpa da la rabbia.
«Ma», ddisce, «è bben trattato»: eh, bber compenzo
d’avé la canipuccia e dde stà in gabbia.
Roma, 11 febbraio 1833

Versione. Il canto proibito. Sta in prigione, sissignore, povero storpio! Io dalla bile farei la bava. Sta in prigione e perché? Perché cantava ieri notte “Maramao perché sei morto”. E con questo? Se è morto il Papa? E che c’entrava dire che schernisce il suo funerale? E che? Forse aveva l’insalata nell’orto il Santo Padre, e che, forse mangiava? Teste senza midollo, idee bislacche! Dunque, anche per cantare ci vuole il permesso di questi sciabolonacci da marionette! Io mi sento morire dalla rabbia. Ma, dice, è ben trattato. Eh, bel compenso avere la canapuccia e stare in gabbia.

Il Belli, come si vede, riporta in modo sbrigativo la filastrocca, come cosa popolare nota e risaputa da tutti. Segno, dunque, che era molto più antica del suo secolo. E infatti lo stesso Belli annota sotto questo sonetto: «Antica canzone volgare: Maramao, perché sei morto? / Pane e vin non ti mancava: / L’insalata avevi all’orto: / Maramao, perché sei morto?»

Gatto sacro statuetta divinità egiziaUn gatto, certo. Del resto basta vedere come l’interpreta il disegnatore sulla copertina dello spartito musicale del Panzeri nel 1939. L’autorevole Vigolo, nell’edizione del 1952, scrive in nota: “La voce maramao accompagnata col gesto delle cinque dita sgranate a ventaglio vuol dire anche “rubare” e forse deriva da un’onomatopea del miagolio de’ gatti”.

Però aggiunge, a scanso di ulteriori scoperte: “Non è nemmeno da escludere qualche possibile attinenza col nome di Fabrizio Maramaldo, tanto più che il nome Maramau si incontra già alla fine del ‘500 nelle maschere della Commedia dell’Arte, raffiguranti simili tipi di spacconi, quali i capitani Bombardone, Malagamba, Francatrippa ecc.”

Questo Maramaldo era un capitano di ventura napoletano al servizio dei Medici contro l'esercito della Repubblica Fiorentina. Nel 1530, alla battaglia di Gavinana, trafisse a morte un suo prigioniero ferito e inerme, il capitano Francesco Ferrucci che gli gridò: "Maramaldo, tu uccidi un uomo morto!". Teoricamente possibile e suggestivo che, riportato di bocca in bocca, l’aneddoto possa essere diventato per ottusa assonanza popolare "Maramao perché sei morto". Oppure, seconda ipotesi, ucciso vilmente il suo nemico, Maramaldo torna a Napoli a gozzovigliare ed è colto da morte improvvisa tra i bagordi. E allora il popolino: "Avevi tutto, cibo, vino, donne… Maramaldo, perché sei morto?".

E, a proposito di spacconi, nel sonetto belliano i gendarmi con gli sciaboloni, proprio come Maramaldo, fanno una brutta figura, e lo stesso Belli in un altro sonetto, Er venardi ecc. (10 febbraio 1833) spiega che i tricchettracche sono gli “strumenti coi quali i fanciulli fanno un fragore per le vie della città”, “e anche uno strumento di legno di suono strepitoso che si suona la settimana santa invece delle campane”. “Qui, satiricamente – specifica il Vigolo – per indicare il falso fragore a vuoto delle sciabole pontificie, quasi fossero di legno”, come quelle dei burattini.

Altro che 1939, fascismo, Panzeri e Ciano! Quel che è certo (nell’incerto) è che la filastrocca di Maramao è antichissima e si perde nei secoli della tradizione popolare italiana. Una tradizione popolare dove il gatto è molto più diffuso e radicato di un Maramaldo.

Cavour Il gatto cavorrese, satira Pedrini, Il Fischietto (part, picc) 21 dic 1848Tanto più che il gatto è altamente simbolico, e dopo essere stato considerato addirittura un Dio dagli Egizi, dopo essere stato creduto dal popolino e dai preti che lo aizzavano protagonista dei sabba delle streghe, anzi, l’immagine stessa della strega, e comunque rappresentando secondo i pregiudizi popolari l’indole maligna e la falsità per eccellenza (Alfred Brehm), viene utilizzato proprio nell’Ottocento del Belli dalla satira politica, allo scopo di graffiare i politici troppo furbi, agili, imprendibili, che ne sanno una più del diavolo. Come il diabolico e felino Cavour, velocissimo e astutissimo, pronto a mutare posizione e a balzare sul topo avversario – fosse l’Austria, la Francia, l’estrema Destra o l’estrema Sinistra – e a farne un sol boccone. Qui è raffigurato in una vignetta satirica del suo tempo (che, insistiamo, era anche il tempo del Belli), come un gatto, appunto (“il gatto cavorrese”), nella sua tipica posa di difesa (Pedrini sul Fischietto, 21 dic.1848).

Ma il gatto-strega del sabba impersonava anticamente anche “lo spirito del Carnevale”. Si noti l’analogia tra sabba e orgia carnevalesca: entrambe infrazioni della norma e forme di follia collettiva: l’una ritenuta dalla Chiesa illecita, l’altra tollerata come sfogo popolare. Fatto sta, riferisce qualcuno, che in alcune località durante la Quaresima al gatto veniva fatto il funerale, con tanto di bara e corteo. Come a dire: è finita la pazzia, torniamo alla vita perbene, normale.

Anche per i popolani romani ai tempi del Papa-re, il gatto è dunque visto come l’animale più ladro e inaffidabile che ci sia, dopo la gazza, ovviamente. Nel Dizionario romanesco del Ravaro (2 voll., ed. Newton Compton, 2005) alla voce gatto si legge: ladro, sornione, dissimulatore. Riferendosi agli uomini, ovviamente. Scrive il Belli in un verso: “Che casa! Er padre e du’ fratelli gatti!”.

Gatto fulvo testa (picc)E il Belli sul gatto, che una ne fa e cento ne pensa, costruisce su misura un altro sonetto, Er gatto girannolone (24 dicembre 1834), in cui il gatto, ladro domestico per eccellenza, in questo caso chiamato “Roscio”, quindi un gatto di pelo fulvo, ha il viziaccio di andarsene sempre in giro, come tutti i veri gatti. E quando tutti lo cercano senza trovarlo, quando non si sa proprio dov’è, quando ormai è dato per perso, indovinate dov’è? In Curia. Ma sì, secondo la maldicenza del suo padrone (in realtà del Belli), è andato sicuramente a trovare, per consultazioni, i suoi amici naturali in Santa Romana Chiesa:

Un giorno Rosscio nun tornava
e llui sai cosa disse? «Starà ar Vaticano
a cconzurtà cco li compaggni sui».

Perché? I monsignori di Curia, i cardinali (“ladri cani” dice altrove il Belli un feroce anagramma), sono, proprio come i gatti, famigerati per avidità, ingordigia, ladrocinio. Con l’aggravante che qui trattandosi d’un gatto dal pelo rosso – nota il Vigolo – “c’è doppio senso: l’uomo di pelo rosso era visto dal popolino come di carattere cattivo, e si riteneva che Giuda Iscariota fosse di chioma e barba rossa. Da cui il detto popolare “Rosso malpelo schizza veleno”. Come se non bastasse – il Belli è sempre più malizioso di quanto appaia – qui il gatto è appositamente scelto di colore rosso, come l’abito dei principi della Chiesa. Ci sarà un perché, visto che “Roscio” non serve per la rima. Soccorre il Vigolo in nota: “Per l’analogia con la porpora dei cardinali v. sonetto Com’ar mulo (“sta covata d’arpie de pelo rosso è ccome la padella: o tigne o scotta”).

Il gatto, cioè il tipico ladro, va in Vaticano a trovare i pari suoi! Ecco nella solita sorpresa dell’ultimo verso, il motivo sotterraneo che il Belli, recidivo nell’arte sopraffina di dire e non dire, o di svelare in nota quello che lui stesso cela nei versi, aveva dato nelle intenzioni al suo sonetto: Vaticano, covo di ladri e profittatori.

E un’antica stampa francese, qui raffigurata per il particolare che ci interessa, per descrivere tutta la doppiezza, la furbizia, l’inaffidabilità, del potere del Papa, l’incisore lo disegna nientedimeno come un grande gatto ritto sulle zampe posteriori, con tanto di tiara pontificia sulla testa. Più che “cani ladri”, quindi, “gatti ladri”, questi ecclesiastici di Santa Romana Chiesa, secondo una satira plurisecolare, sia gallicana che anglosassone. Altro che orto e insalatina, pane e vino. Per il vero Maramao, quello in lungo abito color porpora, ci sono ori e gioielli, tenute e castelli.

Papa con Triregno come gatto furbo e inaffidabile (stampa francese)Ma allora, se il gatto era stato utilizzato dalla satira per secoli contro il Potere, come le stampe antiche e la malizia dei diversi sonetti belliani dimostrano, se tutto il quadro semantico-psicologico combacia nel dare un’immagine simbolicamente anti-Potere e irriguardosa del gatto, specialmente nell’800, sempre ammesso secondo il Vigolo e altre fonti che Maramao sia un gatto, ma allora, Signori della Corte, le conseguenze sono drammatiche e aberranti: i gendarmi del Papa, che di solito erano romani della peggiore feccia, e anche la polizia e la censura fascista un secolo dopo, non meno rozze e ottuse, avevano capito tutto. Anzi, paradossalmente, pur sbagliando in senso liberale, avevano filologicamente “ragione”. E in base non alla libertà e alla dignità dell’uomo, ma della semantica, dell’antropologia e della psicologia popolare, dal loro punto di vista ignorante, fecero “bene” ad arrestare il povero storpio che canticchiava “Maramao perché sei morto” nel 1831, e a sospettare dell’omonima canzone di Panzeri nel 1939. Scherzi da prete? No, scherzi da gatti. Sempre colpa loro!

IMMAGINI. 1. Un gatto stilizzato con lo sfondo della luna piena. 2. Lo spartito originale della canzone Maramao, perché sei morto?, di Panzeri-Kramer. 3. Gatto che suona il violino in un sabba di streghe (antica stampa). 4. Il Dio-Gatto degli antichi Egizi. 5. Una caricatura di Cavour, definito “Il gatto cavorrese” dal disegnatore Pedrini sul giornale satirico torinese Il Fischietto (21 dic.1848). 6. Un bel gatto dal pelame fulvo, più o meno come “Roscio” del sonetto del Belli. 7. Il Papa (o la Chiesa di Roma) sotto forma di gatto disonesto e inaffidabile, in un’antica stampa francese.

AGGIORNATO IL 17 FEBBRAIO 2015

 
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