
"Felicità" è una parola rara, che sta nella Costituzione degli Stati Uniti, non per caso Paese fondato dopo una rivoluzione liberale da protestanti ottimisti e progressisti, in pieno Illuminismo. Ma non può trovarsi nei romaneschi sonetti belliani, intrisi di realismo, sì, ma anche di un cupo pessimismo cattolico senza speranza. Neanche come vaga attesa nell’Aldilà? Questo è il punto, come vedremo più avanti, che sembra caratterizzare il famoso sonetto sulla "Vita dell’omo".
Il lamento sui mali dell’esistenza è un tema colto e antico comune a tanti, da Giobbe ai lirici greci. E, anzi, questo è uno degli esempi più vivi e meglio riusciti – scrive il Vigolo – "dell’estro e della mano che il Poeta aveva in simili trascrizioni dal sopramondo illustre della letteratura all’infimo sustrato popolare".
Ma qui il dramma della vita dell’Uomo triste e negativa fino alla morte e oltre, il Belli lo mette in bocca ad un ideale popolano romano. E contrariamente al suo solito, non è un dialogo ma un monologo, che si conclude in crescendo con parole sempre più dure, sempre più drammatiche. Una durezza senza sfumature: non c’è un solo aggettivo nel sonetto sulla triste esistenza dell’Uomo, e perfino i verbi sono pochi, nota il geniale Vigolo. Perché è rappresentata una sola azione, in una successione fatale, che se si unisse l'inizio e la fine del sonetto potrebbe sintetizzarsi in un solo breve epigramma alla Quasimodo: "Nove mesi alla puzza, e ffinissce co l’inferno".
Tutto comincia, non per caso, dallo schifoso ventre materno. Anche in Jacopone da Todi e S.Bernardo, come nell’amara satira belliana, c’è il disprezzo cattolico per un essere condannato a nascere dal sesso, ovvero de sanguine menstruali della donna e dallo sperma foetidum dell’uomo (Vigolo).
E il realismo popolaresco attenua ma non cancella il dramma. Non c’è neanche umorismo, almeno finché non ci si accorge del sarcasmo blasfemo dei due ultimi versi: un Dio assente o lontano, un po’ ridicolizzato nell’intercalare popolare che qui fa da atroce contrasto e c’entra come i cavoli a merenda, e l’assoluta incredulità nella comprensione e benevolenza divina nel presunto Aldilà. Altro che Paradiso, almeno per i poveracci, pare voler dire il Belli: la tanto sbandierata ricompensa postuma è una fregnaccia per i gonzi. A noi ci spetta, come del resto in vita, solo l’Inferno.
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LA VITA DELL'OMO
Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:
poi p'er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
cor torcolo e l'imbraghe pe ccarzoni.
Poi comincia er tormento de la scòla,
l'abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalìa, la cacca a la ssediola,
e un po' de scarlattina e vvormijjonì.
Poi viè ll'arte, er diggiuno, la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,
er zol d'istate, la neve d'inverno...
E pper urtimo, Iddio sce benedica,
viè la morte, e ffinisce co l'inferno.
Roma, 18 gennaio 1833
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Versione. La vita dell'uomo. Nove mesi passati nella puzza [dell'utero materno], poi in fasce, tra sbaciucchiamenti continui, croste lattee e pianti a dirotto: poi tenuto al laccio con una cinghia [era l’uso popolare dell’800], dentro un girello [crino], con una vesticciola, con un cercine [sorta di turbante che proteggeva la testa del bambino dalle cadute] e le mutande al posto dei calzoni. Poi comincia il tormento della scuola, l'abbicci, le frustate [per punizione], il tormento dei geloni [a causa dei locali freddi], la rosolia, la cacca sul vasetto, e un po’ di scarlattina e di vaiolo. Poi viene il lavoro, il digiuno [che la Chiesa pretendeva a partire dai 21 anni], la fatica, l'affitto, il carcere, le prepotenze del Governo, l’ospedale, i debiti, il sesso, il caldo in estate e la neve d'inverno... E per ultimo, che Dio ci benedica, arriva la Morte, e finisce con l'Inferno.
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"Grandissima l'arte e la potenza del Belli – aveva scritto il Carducci – ma in una poesia che nega, deride e distrugge" (Arte e poesia in "Opere", Zanichelli 1937).
E’ il "popolano filosofo", non necessariamente l’uomo romanesco, ma l’Uomo in generale, che parla con le parole del Belli in questo celebre sonetto, insieme cattolico e anticattolico, religioso e antireligioso, poetico e cinico, come molti altri sonetti belliani. Stavolta non c’è nulla di politico, e poco di sociologico, visto il tema antico, anche se certamente va considerato che dietro l’immaginario collettivo che sta dietro al popolano-filosofo pensato dal Belli c’è la Roma ancora medievale del Papa Re, lo Stato più arretrato d'Europa. Dove perfino la religione, onnipresente nella vita quotidiana, ha fallito, se è vero che la Chiesa ha dimenticato il suo messaggio di consolazione e di speranza prospettando ai popolani che vivono il loro inferno quotidiano nulla più che la prossima venuta di un altro inferno. Anzi, il romano dell'epoca, che credesse o no, avrebbe anche potuto rispondere alle minacce del parroco o del confessore facendo notare che l'aldilà non gli faceva cosi tanta paura, visto che il suo inferno era già tra i vicoli, le piazzette, gli archi, le fontane, i portoni, le scalette, le logge, le botteghe e i cortili di Ponte, Ripa, Regola, Pigna, S.Eustachio, Parione, S.Angelo, Colonna, Trevi, Campo Marzio, Campitelli, Monti e Trastevere ("i rioni del Belli").
Quindi vita e morte, paradiso e inferno, stanno insieme, e la morte non è la fine della sofferenza, ma l'inizio di una nuova, solo più misteriosa, tragedia che si consuma in un Aldilà che la superstizione popolare, aizzata dai preti, dipinge a tinte fosche con tutti i toni del rosso (le fiamme, i diavoli), le ombre, la scenografia e gli struggimenti sadomasochisti del barocco, lo stile che meglio rappresenta la teatralità estetizzante del Cattolicesimo..
Non c'è quindi scampo nella vita dell'Uomo: dallo sgradevole utero materno ai fastidi e dolori piccoli e grandi della vita, elencati, centellinati con un certo morboso compiacimento, fino al regalo finale con le sofferenze atroci dell’inferno che ci propina lo stesso "misericordioso" Padreterno. Un crudele controcanto popolaresco alla visione propalata dai predicatori nelle chiese.
Insomma, per paradosso, proprio la credenza popolaresca e religiosa nell’Aldilà e nell’inferno finisce per aggravare il pessimismo dell’uomo belliano. Mentre negli illuministi e razionalisti le pene della vita finiscono, almeno, con la morte che riscatta e premia (di qui la retorica dell’atto eroico o del suicidio nei romantici), nella visione del cattolicesimo disperato e barocco del Belli, neanche la morte dà la tanto sperata pace all’Uomo. E’ la sconfitta dell’Uomo, ma anche della Religione cattolica.
Un pessimismo totale, universale, più che leopardiano, perché in Leopardi – altro suddito del Papa, guarda caso – almeno c’è una Ragione che in qualche modo ci salva, ma nel Belli non c’è neanche questa. Un nichilismo radicale che sarà forse la molla che spingerà l’autore dei Sonetti su posizioni reazionarie. Leopardi, invece, oscilla tra due poli nel suo pessimismo. Da una parte, come nota il Vigolo, fa così parlare il filosofo Porfirio nel Dialogo con Plotino: "Il genere umano, esempio mirabile d’infelicità in questa vita, si aspetta non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di avere ad essere, dopo quella, assai più infelice". Ma poi, in tanti altri brani Leopardi mostra di avere in qualche modo fede nei Lumi, nella grande forza della Natura e nell’eterno spirito dell’Uomo. E con la sua "morale della compassione" continuerà a sperare nella solidarietà che nasce dal comune dolore della vita, come ultima risorsa per l’avvenire del genere umano.
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IMMAGINE. Vita ed età dell'Uomo (Stampa popolare dell'Ottocento)