2 febbraio 2012

Perfino i santi ha generato. Ecco i 53 modi per denominarlo.

Panini fallici
E’ vero che “gli organi genitali hanno sempre avuto una grande importanza nella vita dei popoli latini, e specialmente nella vita del popolo italiano” e che “la vera bandiera italiana non è il tricolore, ma il sesso, il sesso maschile” (Curzio Malaparte). Ma curiosamente, il termine più usato e più antico, popolare o no, per indicare l’organo sessuale maschile, cazzo, è stato ed è tuttora usato più come intercalare ossessivo, imprecazione e parola di irritazione e disappunto (come il francese merde), oppure per denotare una cosa da nulla, cioè come dispregiativo, che per denotare effettivamente l’organo sessuale. Ed è un paradosso. Ben diverso è l'uso e l'origine dell'equivalente nome dell' organo femminile, come si può vedere in un interessante e colorito articolo dedicato.
      Nella tragedia del grande Marlowe, The Jew of Malta (L’Ebreo di Malta, 1589-90), che si ritiene abbia ispirato Il Mercante di Venezia di Shakespeare, e ricca anch’essa di antigiudaiche connotazioni di carattere, il protagonista Barabas, ricco ebreo che Marlowe fa apparire cinico e crudele aderendo allo stereotipo razzista, risponde irato al servo Ithamore che gli chiede (atto IV scena I): “Non sei addolorato per la morte di tua figlia” [che doveva morire con le altre monache del convento]? (Do you not sorrow for your daughter's death?). “No – risponde Barabas – mi addolora piuttosto che sia vissuta tanto a lungo. Una nata ebrea, diventata cristiana: cazzo, diavolo!” (“No, but I grieve because she liv'd so long, An Hebrew born, and would become a Christian: cazzo, diabolo!”). Queste due ultime parole sono in italiano.
      Parolacce globalizzate, anzi, intercalari popolari che escono dai confini nazionali, già allora, nel tardo Cinquecento, come il francese merde, l’inglese fuck you e, appunto, l’italiano cazzo. Da cui si ricava, con sorpresa di molti Italiani di oggi, che il membro maschile era ed è rimasto una vera fissazione nazionale, la più tipica “cattiva parola”, quella che meglio ci rappresenta.
      In una nota un commentatore inglese dell’epoca, il Gifford, spiega ai suoi connazionali che cazzo è da intendersi come “a petty oath, a cant exclamation, generally expressive, among the Italian populace, who have it constantly on their mouth, of defiance and contempt”, cioè, più o meno, “una volgare imprecazione o esclamazione di disprezzo e disappunto, espressiva per tutto il popolaccio italiano, che l’ha sempre sulla bocca”.
      Nulla di sessuale, quindi, eppure si era in pieno teatro elisabettiano, dove ne accadevano di cotte e di crude, sul palcoscenico, in platea e nei palchi. E comunque, altro che parola moderna!
      Ecco dunque, e di fonte inglese antica, il terzo significato, forse il più diffuso, quello del disappunto (come dire: “dannazione!”), fra i tre possibili, dell’italianissimo, antichissimo ma tuttora censuratissimo termine cazzo
      Il secondo significato, preceduto da “un”, equivale a “per niente”, “nient’affatto”, “nessuno” o anche “una nullità”, una cosa da nulla, “uno sciocco”, “un minchione”, appunto un cazzone (Cfr.: film Il Marchese del Grillo: “Perché io so’ io, e voi nun sete un cazzo”). Anche l'ironica espressione romanesca "'sti cazzi!" fa parte di questo secondo significato, volendo denotare sarcasmo, forte ironia, dileggio, presa in giro, massimo disinteresse per una vanteria o frase roboante nella quale non si crede minimamente o a cui non si dà la minima importanza. Come dire: "me cojioni!", "hai detto un prospero" (un fiammifero usato), "hai detto niente!"
      Il primo significato, invece, quello originario ma poi nell’uso (si pensi al Belli) decisamente secondario, è quello riferito all’organo sessuale maschile.
      E siamo alla fine del Cinquecento! Ma secoli prima, già nell’anno 1266, secondo gli etimologi Cortellazzo e Zolli, era presente nelle fonti come soprannome latino (medium cazum= “mezzo cazzo”, come dire “mezza cartuccia”) ad Arco (Trento).
      E ancora, il disinibito e geniale Leonardo da Vinci (1452-1519) lascia tra i suoi appunti privati una filastrocca infantile e scherzosa che suona così: “Nuovo cazzo, cazzuolo, cazzellone, cazzatello, cazzata, cazzelleria, cazzo inferrigno e cazzo erbato”.
      Negli stessi anni il grande diplomatico e scrittore Niccolò Machiavelli (1469-1527), si lamenta in una lettera all’Alemanni che l’Ariosto non lo abbia ricordato, addirittura, tra i poeti memorabili. Lui anche grande “poeta”? Che faccia tosta! “Ho letto l’ Orlando Furioso dello Ariosto et veramente il poema è bello tutto, et in molti luoghi è mirabile. Se si trova costì, raccomandatemi a lui, et ditegli che io mi dolgo solo che, havendo ricordato tanti poeti, mi habbi lasciato dietro come un cazzo.”
      E come un cazzo, cioè uno sciocco, un minchione, doveva restare, fuori della lista dei poeti, chi era invece un grande tra gli scrittori di storia, diplomazia, politica e – oggi diremmo – psicologia del Potere.
      Sorprende ancor di più che anche l’intimista, delicato, e – lui sì – grande poeta Giacomo Leopardi usasse il medesimo termine volgare proprio nel secondo significato sopra detto, cioè come rafforzativo e sinonimo di “niente”. Solo in uno scritto privato, s’intende, perché la parola era, com’è tuttora, vietata nei discorsi o testi formali e tra persone di riguardo: “Sono guarito [dai geloni, N.d.R.] in grazia dell’aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti.” (in Epistolario).
Caos, vaso ceramica h30 cm portafortuna con falli (Angela Campanile 2010 picc.)      Ma la parola è chiaramente antica, come rivelano numerose fonti convergenti sullo stesso nome che riportano ai suoi vari significati. P.es. il latino cassus vuol dire vuoto, inutile. Plinio: cassi labores (lavori inutili, “lavori der cazzo” direbbe il Belli). E Plauto: cassa memorare, dire sciocchezze, ricordare cose inutili (“parlà a cazzo”). Saltando ai tempi moderni, è metafora di cazza (dal lat. cattia), termine dialettale lombardo che significa mestolo ma anche il caratteristico pentolino alto dal manico lungo eretto, da cui l’it. antico cazzarola e per curioso  eufemismo prude casseruola (dunque, è la seconda che deriva dalla prima, e non viceversa!). Anche cazzuola, spatola con manico eretto, conferma l’origine. Infatti nei versi del Pulci, “cazz e cuccé - quel primo in cul ti stia!” (mestolo e cucchiaio [in lombardo], e il primo ti entri in culo), si è in piena metafora oscena. Potrà sorprendere, dunque, ma in origine era sostantivo femminile: cazza e non cazzo. E in Rustico Filippi: Fastel, messer fastidio della cazza” (Prati1-2 e Sanga3) c’è anche l’origine dell'epiteto “rompicazzo” e dell’espressione “rompere il cazzo”. Una vicinanza semantica potrebbe avere anche il verbo (oggi solo marinaresco) cazzare (cfr it. cacciare, lat. càpere e captiare, spagn. cazar, ted. haz), cioè alzare, ma anche spingere con forza.
      Il Belli usa la parola in tutti i suoi significati, ma raramente nel significato di membro sessuale maschile. Cade, quindi, paradossalmente l’accusa di “parola oscena”, come nota giustamente il Ravaro nel Dizionario Romanesco. Più di frequente come interiezione, oppure col significato di “buono a nulla” o di “niente”, per esempio parlando del famoso teatrino delle marionette di Palazzo Fiano in piazza in Lucina:

ma cquer boccetto poi de Casandrino,
n’un c’è un cazzo da dì, ppare un cristiano! 

[ma quel vecchietto poi di Cassandrino, non c’è niente da dire, sembra un cristiano!]

Oppure nel significato di “sciocco”, usando per di più usando la desinenza accrescitiva-dispregiativa in –accio frequente nel popolino romano. Quindi “grande imbecille”, un “vero stupido”:

Papa Grigorio, nun fà ppiù er cazzaccio 
(primo verso del sonetto “Mormoriale ar Papa”).

Da registratore metodico e pignolo delle parole del volgo che raccoglieva nelle osterie, nelle botteghe, per strada o parlando con la servitù, il Belli doveva aver raccolto in qualche suo quadernetto anche tutti i sinonimi ed eufemismi della lingua romanesca per dire il membro maschile. E abilissimo nel mettere in rima perfino gli elenchi, lavorando di metrica e di rima, cercando musicalità e assonanze interne, o – com’è il caso di questo sonetto – finendo in Gloria con un exploit umoristico finale, ecco che si cimenta nell’acrobatico divertimento intitolato genialmente Er padre de li Santi, in cui adatta alla forma sonetto ben 52 sinonimi. "A Belli piacevano gli elenchi”, notava il critico Enzo Siciliano. “Elencava nomi, sinonimi: li metteva in fila, ritmandoli in splendidi endecasillabi, disegnandoli nell'arco di un sonetto che – scrisse Gadda – "sgorga di vena e chiude di necessità" (Corriere della Sera, 15 marzo 1984).
      E qui la “necessità” è comica: mettendosi come sempre dalla parte di un presunto e idealizzato “popolano”, spesso però troppo saggio e colto e curioso per essere realistico, il Belli conclude che di fronte alle rozze e cacofoniche definizioni del volgo, se il colto medico o farmacista, compresa la sua signora, chiamano il membro maschile “cotale”, “fallo” o “pene”, è segno per Dio che non gli tira bene! Che vuol dire la vendetta delle classi subalterne!
      Per inciso, va aggiunto che si tratta anche di uno dei migliori titoli, se non addirittura il migliore, dei Sonetti, col gemello La madre de le Sante, che merita un articolo a parte. Il Belli che, diciamolo, non è un felice titolista, e troppo spesso intitola in modo fuorviante o balzano, puntando magari su un particolare secondario (il che fa spazientire lettori e studiosi che si dannano l’anima per trovare un sonetto che hanno in mente), qui stranamente ha un irresistibile, felicissimo, colpo d’ala di fantasia e ironia. Ma è una occasione sprecata, che si risolve solo nel titolo, senza nessun riscontro al contenuto in versi. Come se gli servisse da puro lasciapassare preventivo, per parare il colpo di eventuali critiche di critici letterari o della Chiesa stessa, magari con l’accusa di scurrilità. Volgare – sembra voler mettere le mani avanti il Belli – parlare di un organo che ha generato anche i Santi? Quel titolo, insomma, lo mette in una botte di ferro…
      Andando ai sinonimi, è curioso, infine, che l’autore si dimentichi di un’ulteriore modo di dire, pinco, che poi userà in un altro sonetto, L’omo e la donna (v. nei tre versi più sotto), lasciando al lettore il compito di aggiungerla idealmente – come dice lui stesso espressamente in nota – alla lista. E quindi, in tutto, i sinonimi ed eufemismi usati dal Belli nei suoi sonetti per denominare Er Padre de li Santi arrivano, salvo errori, a 53.
 
ER PADRE DE LI SANTI
Er cazzo se pò ddí rradica, uscello,
ciscio, nerbo, tortore, pennarolo,
pezzo-de-carne, manico, scetrolo,
asperge, cucuzzola e stennarello.
Cavicchio, canaletto e cchiavistello,
er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,
attaccapanni, moccolo, bbruggnolo,
inguilla, torciorecchio, e mmanganello.
Zeppa e bbatocco, cavola e tturaccio,
e mmaritozzo, e ccannella, e ppipino,
e ssalame, e ssarciccia, e ssanguinaccio.
Poi scafa, canocchiale, arma, bbambino:
poi torzo, crescimmano, catenaccio,
mànnola, e mmi’-fratello-piccinino.
E tte lascio perzino
ch’er mi’ dottore lo chiama cotale,
fallo, asta, verga, e mmembro naturale.
Cuer vecchio de spezziale
disce Priàpo; e la su’ mojje pene,
seggno per dio che nun je torna bbene.

Roma, 6 dicembre 1832

Due anni dopo, nel sonetto L’omo e la donna (30 aprile 1834) Belli inventa un dialogo in cui affida, come spesso gli accade, alla femmina l’effetto insieme di vivacità e ingenuità che è il sale del sonetto. L’uomo pretende di aver ragione, di comandarci, di fare i lavori più complicati, perfino la guerra. Ma, insomma, chiede la donna all’amico, che cos’ha l’uomo più di noi?

Cos’ha dde ppiú? una mano, un piede, un stinco,
una bbocca, un’orecchia, un occhio, un naso?».
Allora io: «Nu lo sapete? un
pinco4».


Lo scrittore inglese Anthony Burgess, spirito eccentrico che visse a Roma abbastanza per conoscere la lingua romanesca e i sonetti del Belli, tradusse in inglese vari sonetti belliani, tra cui Er Padre de li Santi, sostituendo sinonimi ed eufemismi con quelli popolari inglesi (in particolare – sostiene il Burgess – ricorrendo al dialetto di Manchester). Nel suo libro Abba Abba (1977), che conteneva The Father of The Saints, immagina un incontro tra il Belli e il poeta inglese John Keats:

THE FATHER OF THE SAINTS5
 Here ere some names, my son, we call the prick:
The chair, the yard, the nail, the kit, the cock,
The holofernes, rod, the sugar rock,
The dickory dickory dock, the liquorice stick,
The lusty Richard or the listless Dick,
The old blind man, the jump on twelve o’clock,
Mercurial finger, or the lead-fill’d sock,
The monkey, or the mule with latent kick.
The squib, the rocket, or the roman candle,
The dumpendebat or the shagging shad,
The love-lump or the hump or the pump-handle,
The tap of venery, the leering lad,
The handy dandy, stiff-proud or a-dandle,
But most of all our Sad Glad Bad Mad Dad.
And I might add
That learned pedants burning midnight tapers
Find Phallus, apt for their scholastic papers,
And one old man I know calls it Priapus.
His wife has no word for it but a sigh —
A sign that Joy has somehow past her by.


NOTE

1. A.Prati, "Vicende di parole", L'Italia Dialettale 13 (1937), 77-125; 15 (1939), 187-204.
2. A.Prati, Vocabolario Etimologico Italiano, Milano, Garzanti, 1951.
3. G.Sanga, "Postille gergali al DELI" [Diz Etim Lingua It], Atti Sodal. Glott. Mil. 27 (1986), pp. 30–39.
4. Nota il Belli: “Vedi il Sonetto... [Er padre de li Santi, N.d.R.], al quale questo vocabolo può servire di appendice”. Noi notiamo da parte nostra che questo uso belliano getta nuova luce sull’espressione, giunta fino a noi, “pinco pallino”.
5. Anthony Burgess, “Revolutionary Sonnets and Other Poems”, Carcanet Press 2003.

IMMAGINI. 1. Maritozzi di forma fallica fotografati di recente in una pasticceria francese. Segno che il dio Priapo non conosce epoche né confini. Il fallo nell’Antichità era considerato beneaugurante, secondo l’uso atavico che associava il fallo alla fecondità e alla prosperità. 2. Vaso beneaugurante con falli (“Caos”, ceramica h 30 cm, Angela Campanile 2010). “Potente amuleto contrastante gli effetti dell’invidia e propiziatore di prosperità – scrive l’autrice nella presentazione - il fallo si incontra in tutte le città antiche sulle mura, sui marciapiedi e sui basoli delle strade. A Pompei esso era spesso usato, scolpito su placche di tufo nei cantonali delle case, a proteggerle. Altrettanto tipica è la sua presenza sulle facciate delle botteghe e sui forni dei panifici”.

AGGIORNATO IL 21 AGOSTO 2019

2 commenti:

Nico Valerio ha detto...

Interessante dal punto di vista semantico e del vocabolario romanesco e italiano un post di polemica politica del dicembre 2018 riferito al giovane e inesperto ministro Di Maio, accusato di sapere tutto, anche le quisquilie, delle magagne dei padri degli avversari Renzi e la Boschi (“Sapeva tutti i cazzi dei padri degli altri”); ma di non sapere nulla di quelle del proprio padre (“Non sa un cazzo di quello che faceva il suo”).

Anonimo ha detto...

Geniale repertorio raffinatissimo su una materia tanto imbarazzante oggi! Complimenti.

 
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