24 maggio 2010

Vizi capitali. I frati e la gola: il cioccolato come lasciapassare

Casti legumi, minestre di pane, zuppe di verdure da poverelli, diete vegetariane? Macché, questo esiste solo nei racconti per bambini, o nell’ingenuo immaginario popolare indotto dal calendario di Frate Indovino. La realtà storica e psicologica è un’altra.
Frati e monache, per tacere dei preti secolari, avevano ed hanno tuttora fama di ghiottoni senza pentimento e senza speranza. Basta ricordare nomi legati al cibo come strozzapreti e il "boccon del prete". La gola, insomma, succedaneo di altri vietati piaceri, compensazione dei sacrifici del sesso e della libertà.
Fatto sta che gli stessi formaggi, le uova, i legumi, e addirittura i pesci prelibati, sono cibi ormai venuti a noia nei conventi fin dal povero Medioevo. Le monache, si sa, stravedono per dolci e tagliatelle fatte a mano, ma i monaci? Diciamo che pensano ai più concreti e allusivi piaceri della carne. Lo hanno scoperto e provato accurate ricerche:
“Maiali arrostiti o lessati, grasse giovenche, conigli e lepri, oche sceltissime, galline ed ogni tipo di quadrupedi e di volatili domestici riempiono la mensa dei santi monaci”. Non basta? No: "il monaco non si sente pieno (e siamo nel Medioevo, NdR) se non può mangiare capre selvatiche, cervi, cinghiali, orsi. Perciò si perlustrano i boschi, si ricerca l’aiuto dei cacciatori, si uccellano fagiani, pernici, tortore, perché il servo di Dio non muoia di fame” (M.Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Laterza 1988, p.73).
Le cose sono continuate più o meno così, solo con meno carne già ai tempi del Belli, e non perché si trattava di monaci, ma perché si scoprì che l’eccesso di carne favorisce la gotta, e oggi anche molte altre malattie.
La golosità e l’avidità di frati, monache e preti era ed è comunque cosa nota, e colpisce negativamente il popolo, che specialmente in tempi e aree di povertà diffusa, come la Roma del Belli, immaginava e tuttora immagina i religiosi come persone diverse, più virtuose della gente comune, e perciò non è disposto a perdonar loro neanche i vizi, come appunto quello della gola, che all’uomo della strada neanche verrebbero contestati.
La cioccolata e il cioccolato, bevanda o tavoletta che siano, storicamente sono “il conforto dei religiosi”: furono i preti cattolici ad importare per primi il cacao, istituendo il primo monopolio in nome della cattolicissima regina di Spagna. “Bevanda dell’anima”, fu definita dai Gesuiti, nonostante che quella originaria non fosse neanche dolce, ma puro cacao amaro in acqua bollente. Basta dire che il cioccolato e il caffè - guarda caso, le bevande dei preti - per decisione delle autorità ecclesiastiche “non interrompono il digiuno” per la comunione. Perché “liquidum non frangit jejunum”. Interesse privato in atti ecclesiastici? “Loro se la suonano e loro se la cantano”, commentava il popolino.
In un perfido sonetto del ’36 (La carità ddomenicana), il Belli descrive addirittura il Grande Inquisitore domenicano che mentre aizza i confratelli ad aumentare le torture al povero disgraziato, intinge cinicamente i biscotti nella sua bevanda preferita: il caffè con la cioccolata, a Roma popolarmente chiamato “mischio”.
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Llì a sséde intanto er gran inquisitore,
che li fa sfraggellà ppe llòro bbene,
bbeve ir suo mischio e ddà llòde ar Ziggnore.
“Forte, fratelli”, strilla all’aguzzini:
“Libberàmo sti fijji da le pene
dell’inferno”; e cqui intiggne li grostini.

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Versione. Lì a sedere, intanto, il Grande Inquisitore che li fa flagellare per il loro bene, beve il suo caffè con la cioccolata e dà lode a Dio. “Forte, fratelli”, urla agli aguzzini, “liberiamo questi figli dalle pene dell’inferno”; e a questo punto intinge i biscotti.

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Insomma, la cioccolata e il cioccolato erano per eccellenza “robba da preti”. Perciò non meraviglia che in un gustoso sonetto il Belli usi il cioccolato, in questo caso solido, come passepartout che apre ogni porta, soprattutto quella del convento, se il frate portinaio appare riluttante e il frate richiesto si fa negare perché “sempre impegnato”. Ma un certo deteriore costume italiano tocca tutti. Basta sostituire al frate portinaio la segretaria d’un qualsiasi deputato, assessore, professionista o giornalista, per avere un quadretto analogo: il regalino, goloso o no, apre tutte le porte.
Sul piano linguistico, infine, incuriosiscono gli efficacissimi “dico” e “dice” (“disce”) più volte ripetuti. Lo stesso Belli spiega in nota ai non romani che “rappresentano nel discorso volgare le transizioni dall’uno all’altro interlocutore”. Come un microfono che passa da una persona all’altra.
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LA PORTERIA DER CONVENTO
Dico: "Se pò pparlà ccor padr'Ilario?"
Disce: "Per oggi no, pperché cconfessa." -
"E ddoppo confessato?" - "Ha da dì mmessa." -
"E ddoppo detto messa?" - "Cià er breviario."
Dico: "Fate er servizzio, fra Mmaccario,
d'avvisallo ch'è ccosa ch'interressa."
Disce: "Ah, cqualunque cosa oggi è ll'istessa,
perché nnun pò llassà er confessionario." -
"Pascenza," dico: "j'avevo portata,
pe cquell'affare che vv'avevo detto,
ste poche libbre cqui de scioccolata..."
Disce: "Aspettate, fijjo bbenedetto,
pe vvia che, cquanno è ppropio una chiamata
de premura, lui viè: mmó cciarifretto."
30 dicembre 1832
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Versione. La portineria del convento. Dico: "Si può parlare con padre Ilario?" Dice: "Per oggi no, perché confessa." - "E dopo aver confessato?" - "Deve dire messa." - "E doppo la messa?" - "Ha il breviario." Dico: "Fate il favore, fra Macario, di avvisarlo che è cosa importante." Dice: "Ah, qualunque cosa oggi è lo stesso, perché non può lasciare il confessionario." - "Pazienza", dico: "gli avevo portata, per quell'affare che vi avevo detto, queste poche libbre qui di cioccolata..." Dice: "Aspettate, figlio benedetto, perché, quando è proprio una chiamata di premura, lui viene: ora ci rifletto."
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IMMAGINI. 1. Frati beoni in una vignetta umoristica. 2. Frate guardiano (dis. di Pezzini).

21 maggio 2010

“Mastai coi liberali o contro?” Pio IX, tragico sor Tentenna

SOVRANO "MODERNO": LA VISITA DI SORPRESA ALLA VEDOVA.
Giovanni Maria Mastai Ferretti e Giuseppe Gioachino Belli erano coetanei, il primo del 1792, il nostro poeta del 1791. Il futuro papa Pio IX aveva dimostrato le sue inclinazioni liberali durante i moti del 1831 quando, delegato straordinario a Spoleto e Rieti, trattò un accordo fra gli insorti e le truppe pontificie, impedendo un massacro a Spoleto e concedendo un lasciapassare ai liberali che avevano deposto le armi.
Eletto Papa nel conclave del giugno 1846 fu osteggiato fino all'ultimo dall'Austria, che aveva per questo inviato a Roma il vecchissimo cardinale von Gaisruck, arrivato però troppo tardi, quando Pio IX era ormai stato eletto.
Le idee liberali del nuovo Papa produssero profondi rinnovamenti nella struttura dello Stato pontificio. Quando nel 1848 scoppiarono moti insurrezionali in tutta Italia, concesse una forma di Costituzione e si spinse fino ad inviare un corpo di spedizione di regolari pontifici al comando del generale Giovanni Durando, insieme a una brigata di volontari del generale Andrea Ferrari, per combattere insieme ai piemontesi ed altri reparti militari inviati dal Regno di Napoli e dal Granducato di Toscana contro gli austriaci, già impegnati dagli insorti lombardi (Cinque Giornate di Milano).
A questo punto un colpo di mano della Curia, con una speciale commissione cardinalizia, impose a Pio IX lo sganciamento dal movimento patriottico italiano e l'annullamento della guerra all'Austria. Da notare che l'atmosfera risorgimentale era cosi forte che gran parte delle truppe pontificie scelsero di non obbedire al contrordine e parteciparono alle operazioni militari contro l'Austria. Il Durando fu sconfitto a Vicenza e, costretto alla resa, passò poi al servizio dei Savoia. Questa era l'aria che si respirava durante il primo biennio di pontificato del nuovo Papa.
Anche il Belli resta un po' sconcertato e un po' affascinato dal nuovo corso, dedicando a Pio IX numerosi sonetti. Incitandolo prima a essere più deciso con le riforme, che venivano osteggiate dai cardinali reazionari, proteggendolo poi dalle critiche che lo dipingevano come un posapiano e rinunciatario: ("e in quanto a Papa Pio nostro sovrano, lassamoje aggiustà cosa per cosa. Chi va piano va sano e va lontano") nel sonetto "Li vivoli in saccoccia" . E schierandosi poi dalla sua parte contro il clero reazionario nell'altro sonetto: "Er papa e li frati" ("Er Zanto-Padre è un bon fijolo; ma li frati a forza de tiranne giù, ve lo fariano crede un Berzebbù").
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UNA VISITA DE NOV'IDEA
Ar terzo momoriale ecco una sera
sente sonà a la porta er campanello,
opre, e vvede du’ abbati, uno arto e bbello,
l’antro ppiú bbasso e de grazziosa scera.
Allora er primo, co bbona maggnera,
la salutò ccacciannose er cappello:
"È llei, disce, la vedova di quello
che llegava le ggioglie? È llei che spera...".
Ma cqui, mmentre l’abbate, bbono bbono,
seguitava a pparlà cco ttant’amore,
’na fijjetta strillò: "Mamma, è Ppio nono!".
Cosa vòi! quela povera pezzente
stette guasi llì llì ppe avé l’onore
de morijje d’avanti d’accidente.

28 gennaio 1847
M
Versione. Una visita inconsueta. Dopo aver inviato la terza supplica (memoriale) ecco una sera sente suonare il campanello della porta, apre e vede due abati, uno alto e bello l'altro più basso e di grazioso aspetto (cera). Allora il primo, con buone maniere la salutò levandosi il cappello: è lei, dice, la vedova di quello che incastonava le pietre preziose (gioie)? E' lei che spera... Ma qui mentre l'abate, buono buono, seguitava a parlare, con tanto amore, una bambina gridò: mamma è Pio nono! Cosa vuoi! quella povera pezzente stette quasi per avere l'onore di morirgli davanti d'un colpo al cuore.
Questo è uno degli ultimi sonetti del Belli, meno "romaneschi" e più vicini alla lingua italiana. Il nostro poeta sta per divorziare dalla sua grande e geniale invenzione, il suo "monumento alla plebe romana". Abbiamo scelto da questa ultima fase della sua produzione una lirica dolce e carezzevole su uno stupefacente, per i tempi, fatto di cronaca: la visita improvvisa e non preannunciata del Papa Pio IX a casa di una povera donna inferma.(Paolo Bordini)
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IL "PAPA TENTENNA" E IL RISORGIMENTO.

Debole, incostante, di scarsa cultura e personalità, Pio IX illuse a lungo gli Italiani. I cattolici liberali, che furono la spina dorsale del Risorgimento, sperarono a lungo in lui come possibile presidente d’una Federazione Italiana, secondo l’utopia di Gioberti. A Roma e in tutt’Italia non si contarono le manifestazioni popolari al grido di "Viva Pio IX". Ma anche politici e intellettuali sbagliarono a prenderlo sul serio. Il presidente del Consiglio del Regno di Piemonte, Ricasoli, e perfino Mazzini e Garibaldi, gli inviarono appelli e lo guardarono con simpatia. Ma era tutto un equivoco: Papa Mastai si contraddiceva in continuazione, e come se non bastasse era condizionato da una Curia vaticana conservatrice. Basti dire che due giorni dopo aver promulgato una Costituzione, un condono e leggi più permissive sulla libertà di parola e di stampa, premiò le guardie che avevano represso nel sangue i moti liberali. Nel ’48 inviò un contingente di truppe a combattere gli Austriaci insieme coi liberali, ma subito dopo lo richiamò indietro. Tanto che il Segretario di Stato, Gizzi, si dimise affermando non essere possibile a nessun ministro collaborare per più di sei mesi con un uomo di così patologica "incostanza". E infatti, da presunto o immaginario "moderato liberale" divenne alla fine un effettivo duro reazionario, capace di far giustiziare patrioti per futili motivi, scomunicare tutti i liberali e i politici del Regno di Piemonte, compreso il re Vittorio Emanuele, ed equiparare in un’enciclica il liberalismo al comunismo. Tale fu l’odio dei liberali traditi, che ai suoi funerali alcuni esagitati tentarono di gettare il suo cadavere nel Tevere. (Nico Valerio)
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IMMAGINI. Pio IX dopo la sua elezione (incisione) e, in basso, un "santino" popolare con l'immagine del Papa a colori.

14 maggio 2010

Potenti corrotti? Certo, ma (almeno, ieri) attenti a coprirsi

L'esercizio del potere ha sempre visto il proliferare dei reati di corruzione e concussione. La corruzione è l' offerta di denaro o altri beni a un potente per indurlo a compiere favori illeciti. La concussione è la richiesta da parte del potente di una prebenda per favorire qualcuno, ma talvolta anche per far "camminare" una pratica perfettamente legale, che altrimenti resterebbe fraudolentemente bloccata.
Il Belli usava per questo fenomeno criminoso il termine popolare romanesco "strozzo": prezzo di corruttela o prevaricazione, come si legge in una nota al sonetto "La scala de li strozzi", che ironizza sul modello comportamentale dei corruttori dell'epoca: la Roma dei Papi. Anche Dante, nell'Inferno, si occupava di questa categoria, chiamando "barattieri" i pubblici amministratori sensibili al fascino del denaro sporco.
Ma veniamo ai giorni nostri, con la cronaca che sta scoperchiando un vaso di Pandora, con inchieste e sospetti sui potenti di tutte le razze: dai politici ai membri di Governo, pubblica amministrazione e giornalisti, che senza molte cautele sembra abbiano ceduto alla suggestione di questo antichissimo e fraudolento sistema di fare soldi. E' vero che il modo di fare gli "strozzi" si è aggiornato con il passare dei tempi, ma non sempre in termini migliorativi.
Alla corte pontificia dei primi dell'800 si usavano cautele oggi sconosciute, come racconta il seguente sonetto.
Intanto, era assolutamente improponibile tentare di corrompere direttamente un "capoccione", cioè colui "che tiè in mano la penna ar Cardinale", e se qualche sprovveduto ci voleva provare - dice il Belli - "c'è d'abbuscasse un carcio a li cojoni", cioè c'è da rimetterci le penne.
Oggi i potenti sono molto più disinvolti, e sembra siano propensi a trattare lo "strozzo" direttamente, con poca o nessuna cautela, rischiando però di abbuscare loro stessi un "carcio a li cojoni", magari dal magistrato di turno. Tornando ai tempi del Belli, "Qua pe sti giri ce so le su scale, come da le suffitte a li portoni", insomma c'è una rigorosa trafila di persone da corrompere. S'intende che il "suggetto prencipale", cioè il Capo, rispetta un preciso codice che gli vieta assolutamente di trattare il prezzo della corruttela. Il corruttore doveva partire dal basso, dal segretario del segretario del segretario: "e la strozzata s'ha da spigne all'inzù de mano in mano".
Così, il potente dell'epoca si teneva perfettamente al riparo da ogni mala lingua, perchè con tanti passamani, tutti di estrema e collaudata fiducia, poteva sempre dire che nulla sapeva e non aveva avuto niente. Al massimo, se la tresca veniva scoperta, qualche straccio, qualche pesce piccolo, andava per aria, o veniva trasferito ad altro convento, come era l'uso.
Un tempo si parlava di "zecchini e dobboloni" [dobloni, NdR], accettando volentieri il concetto dell' imperatore Vespasiano che soleva dire "pecunia non olet", il denaro non puzza. Già, purchè segua la "scala degli strozzi". Oggi, forse perchè l' odore del denaro da fastidio ai nostri potenti, si preferisce accettare valori di diverso genere, prodotti finiti, al riparo dal rischio di svalutazione e sopratutto legati all'edilizia, di immediata fruizione, ma anche di facilissima tracciabilità. Sono obsoleti i tempi dei rotoli di banconote nascosti e trasportati nelle mutande dei galoppini di turno, trucco troppo nauseabondo e rischioso. Il malloppo potrebbe puzzare e andare perso, e poi chi si fida più dei mezzani di oggi, autisti, portaborse, comprese le fidanzate di turno, facili voltagabbana se qualche cosa va storto? E' vero che oggi le fidanzate, mogli e sorelle della mala stanno assumendo ruoli sempre più importanti nella gestione delle cosche. Ma la cronaca degli ultimi anni ha mostrato la inaffidabilità delle fidanzate pro-tempore dei potenti, moderna trasposizione delle "etére", leggiadre fanciulle che si dedicavano a sollazzare i sensi dei Saggi dell' Antica Grecia.
Dunque? I potenti corrotti di oggi, che ricevono regali molto più puzzolenti del denaro, si espongono al già citato "carcio a li cojoni" e al pubblico ludibrio, anche attraverso la gogna di impietosi mass-media. E' la giusta punizione, in attesa di quella dei giudici.
E a proposito di punizioni, Dante poneva all' Inferno canto XXI, cerchio ottavo dei fraudolenti, bolgia quinta, i barattieri, cioè i corrotti e corruttori, immersi nella pece bollente e arpionati e scuoiati dai diavoli capeggiati da Malebranche.
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LA SCALA DE LI STROZZI
Caro lei, va a ttentà li capoccioni,
e ffiotta poi si jj’arïessce male?!
Cqua ppe sti ggiri sce sò le su scale
come da le suffitte a li portoni.
Offerenno zecchini e ddobboloni
addrittura ar zoggetto prencipale
che ttiè in mano la penna ar Cardinale,
c’è dd’abbuscasse un carcio a li cojjoni.
Er Zegretàr-de-Stato ha er zù mezzano:
questo ha er zuo: l’antro un antro; e la strozzata
s’ha da spiggne a l’inzú dde mano in mano.
Er piú ggrosso, se sa, nnaturarmente
se vò ssempre tené a la riparata
de poté ddí cche nnun ha avuto ggnente.
26 aprile 1834
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Versione. La scala della corruttela. Caro signore, lei prova a corrompere i potenti e si lamenta se non ci riesce? Qua per questi intrighi ci sono le opportune scale, come dalle soffitte ai portoni. Offrendo zecchini e dobloni addirittura al soggetto principale che tiene in mano la penna del Cardinale c'è da ricevere un violento e netto diniego. Il Segretario di Stato ha il suo mezzano, questo ha il suo: l'altro ne ha un altro; e la corruttela deve spingersi in sù, di mano in mano. Il potente, si sa, naturalmente si vuole sempre tenere al sicuro, in modo da poter dire che non ha avuto niente.
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IMMAGINI. 1. L'obolo di S.Pietro. Vignetta satirica creata per l'occasione, con un monsignore segretario e un cardinale dei tempi del Belli che commentano l'ennesima fonte di reddito disonesto caduta come manna dal Cielo (disegno di N.Valerio). 2. Un prete di Botero. L'ombrellino è perfetto per il sonetto del Belli: come si cautelano (anzi, cautelavano) i segretari dei segretari dei segretari, in tonaca nera o in doppiopetto grigio, pur di coprire il Capo dalla responsabilità della corruzione!

11 maggio 2010

Il culmine dell’eros: “Geltrude tutta sorca, io tutt’uscello”

Si può scrivere un sonetto su due amanti aggrovigliati sul letto? Altroché, la letteratura ne è piena. Poesia, non poesia? Arte o non-arte? Se c’è il sesso di mezzo, il sospetto è che dilemmi del genere vengano in mente solo quando si vuole censurare, cioè vietare anche agli altri ciò che non piace a noi, forse perché risveglia oscuri sensi di colpa.

Ma l’uomo comune che si disinteressa di estetica e d’arte, e alle volte perfino un critico, si pone questo quesito arte-non arte, guarda caso, solo quando un quadro, una foto o un sonetto – come questo famoso del Belli che descrive con somma maestria un raptus erotico, un violento scontro di corpi e di sensi, insomma una "scopata selvaggia" – tocca la realtà d’ogni giorno, cioè la Vita. Mai che si ponga raffinati quesiti del genere quando l’opera d’arte, quasi sempre con esiti sottoculturali e dolciastri, riguarda, che so, la "luna", un "tramonto", un "amore infranto", un "sogno", una "fantasia", o anche una "serenata", un "pianoforte nella notte", una "rosa". Questi, secondo il popolino, sarebbero temi tipici da poesia, mentre gli altri, come quelli legati alle funzioni del corpo, per dirne una, sarebbero tutt’al più indicati per la prosa, e anche la più deteriore.

Insomma, siamo all’ "estetica" della casalinga, alla "critica" dell’impiegato. Che però contano, perché anche i poeti devono vendere e vivere. Senza contare che sul loro "pensiero", non su quello degli intellettuali, si fonda il concetto giuridico di "comune senso del pudore" che in passato, non solo ai tempi dei Papi-re e del Belli, ma anche in democrazia, ha fatto da supporto alla censura.

Molti, quindi, perfino tra commentatori e critici, hanno guardato con sospetto ai tanti sonetti erotici o osceni del Belli, così come a certe liriche o satire di Aretino e Apollinaire, Catullo e Baffo, Verlaine, Porta e infiniti altri. Sfugge all’uomo-massa che l’espressione artistica riguarda, anzi può, deve, riguardare ogni aspetto della vita. Anche quelli che un insopportabile e falsissimo romanticismo deteriore – che sublima la vita in un comodo nulla di vezzi scontati e moine stilizzate – ha deciso che non sarebbero adatti agli "alti sentimenti".

Così non è, invece. L’arte nacque come fotografia della vita, e ha il compito di descrivere la realtà, com’è vista dall’artista, s’intende. E anzi, l’oggetto è secondario, mentre sono il modo, la forma, la musicalità, il ritmo, la pregnanza, la potenza espressiva, la capacità di trasmettere a tutti il messaggio, a distinguere semmai l’arte dalla non arte, la poesia dalla non poesia. La capacità, per dire, di sintetizzare in pochissime parole, altamente pregnanti, cioè cariche di significati e sfumature (ecco l’abilità ulteriore del poeta, sia pure satirico, rispetto al prosatore), i caratteri, le situazioni, i contrasti, i concetti, i sentimenti, che in realtà sono di tutti.

Il Belli, poi, aggiunge di suo alla magistrale descrizione realistica di situazioni e caratteri eterni nell’Uomo, il gusto onomatopeico della parola o delle lunghe sequele di parole. Arte in cui è maestro.
L'incisciature, è fra i primi sonetti scritti a Morrovalle, a casa dell’amica contessa, nel 1831. E’ "uno dei sonetti apparentemente piú spinti", scrive Giorgio Vigolo nel "Saggio sul Belli" in prefazione ai Sonetti. Ma "si vedrà come nonostante lo specifico erotismo dell'argomento, tutto vi si risolva in una risentita orchestrazione verbale col gusto tipicamente belliano per i crescendo ritmici e fonici, i consonantismi, gli elenchi di parole ribattuti e martellanti, nel gusto di un mottetto; come infine questo sonetto valga principalmente, dal primo all'ultimo verso, quale l'onomatopea di un calorosissimo amplesso". A cominciare dall’incipit geniale:

Che sscenufreggi, ssciupi, strusci e ssciatti...

sciolilingua tipico d’un raffinato studioso e ironico cultore della parola, linguista prima ancora che poeta satirico, qual era il Belli:
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L’INCISCIATURE
Che sscenufreggi, ssciupi, strusci e ssciatti!

Che ssonajjera d’inzeppate a ssecco!
Iggni bbotta peccrisse annava ar lecco:
soffiamio tutt’e dua come ddu’ gatti.
L’occhi invetriti peggio de li matti:
sempre pelo co ppelo, e bbecc’a bbecco.
Viè e nun viení, fà e ppijja, ecco e nnun ecco;
e ddajje, e spiggne, e incarca, e strigni e sbatti.
Un po’ piú che ddurava stamio grassi;
ché ddoppo avé ffinito er giucarello
restassimo intontiti com’e ssassi.
È un gran gusto er fregà! ma ppe ggodello
più a cciccio, ce voria che ddiventassi
Giartruda tutta sorca, io tutt’uscello.
Morrovalle, 17 settembre 1831
Versione. Le scopate. Che esplosione di colpi, strusci e lamenti, che batteria di inzeppate a secco! Ogni botta, per Cristo, andava a segno. Soffiavamo tutti e due come gatti. Gli occhi invetriti peggio dei matti: sempre pelo contro pelo, bocca a bocca. Venire e non venire, fa e piglia, ecco e non ecco; e dagli, e spingi, e incalca, e stringi, e sbatti. Se durava un po’ di più stavamo freschi! Perché dopo aver finito il giochetto restammo immobili come sassi. E’ un gran gusto scopare! Ma per goderlo appieno bisognerebbe che diventassimo, Gertrude mia, tu tutta fica, io tutt’uccello.
Notava il critico Enzo Siciliano: "A Belli piacevano gli elenchi. Elencava nomi, sinonimi: li metteva in fila, ritmandoli in splendidi endecasillabi, disegnandoli nell'arco di un sonetto che – scrisse Gadda – "sgorga di vena e chiude di necessità" (Corriere della Sera, 15 marzo 1984).
C’è grande abilità tecnica, molta erudizione (gli esperti hanno colto varie citazioni di precedenti autori erotici), ma il tutto è servito in questo sonetto con una sintesi geniale, che anzi non ha nessuna di quelle cadute che deludono in una quartina o all’ultima terzina come in altri sonetti. No, questo sonetto è perfetto. Difficile, anche da leggere, come sempre i sonetti belliani: bisogna leggerlo ad alta voce, come facevano gli Antichi, due o tre volte, per apprezzarlo appieno.
Il lettore comune può essere disorientato, avverte il Vigolo: "Certo, di fronte a un innegabile gusto della turpitudine e della enormità della turpitudine che molte volte appaia il Belli a Rabelais o a Marziale, ci si torna a chiedere fin a quale limite il potere di riscatto della parola e del metro possa valere sul lezzo della materia".
"Ora, la risposta a questa dubbiosità (e insieme la piú ampia assolutoria del Belli) – prosegue il Vigolo – è che questo riscatto avviene costantemente, perché anche nella oscenità piú sfrenata non avverti mai il prurito di una immaginazione libidinosa o di una viziosa vogliosità (che il comico stesso basterebbe ad eliminare) ma sempre il genio prepotente della rappresentazione e della parola. Tale genio si manifesta qui nel caratterismo estremo di quella commedia di maschere elementari che sono i simboli sessuali, quasi feticci di una idolatria primordiale, rozzi idoli della fantasia popolare: in essi la parola non si è ancora distaccata dal corpo, e al tempo stesso nei nomi turpi vorrebbe distaccarsene, portando alla espressione "le vergogne" di ciò che non si nomina.
"Il lato geniale dei sonetti del Belli in tale campo è di avere compiuto una esplorazione inedita nel linguaggio di quei simboli, di quegl'idoli, di quei feticci e delle loro affabulazioni piú inverosimili; non solo, ma di avere poi immesso con risultati singolarissimi nel fatto verbale, metrico, plastico quella violenza espressiva, quel continuo abbrivo della parola come scagliata contro il limite della decenza".
"In realtà è proprio in questi sonetti – conclude Vigolo – che il Belli aveva massimamente attuato, nel modo piú totale e originario, la fondamentale aspirazione e ispirazione della sua poesia: la rivolta contro l'ipocrisia del costume, contro il "ceremoniale dell'incivilimento" e il gioioso, a malgrado tutto, panico e salutare ritorno alla Natura"..
IMMAGINE. Bartolomeo Pinelli: una tavola erotica in una raccolta di incisioni poco note.

3 maggio 2010

"Io so’ er cocchiere d’Austria, e ho sempre la precedenza!"

Qualche potente deve aver improvvisamente scoperto che il suo autista è rimasto senza punti sulla patente, cioè non può più guidare la sua personale e intoccabile auto di servizio. L'auto blu infatti in molti casi non paga le multe, ma fino a ieri almeno la patente dell'autista era soggetta alle regole dei comuni mortali.
Ma i mass media riferiscono che i nostri parlamentari stanno programmando l'impunità per la patente dei loro automedonti. Comodo, no? Passi con il semaforo rosso, superi il limite di velocità, sempre "per ragioni di servizio", naturalmente, anche quando non è vero. Tutto nella completa e legale impunità. Cose dell'altro mondo, direte, cose mai viste! Macché.
Leggiamo il sonetto "Er legno privileggiato" per scoprire che ai tempi del Papa Re le cose non erano molto diverse. Con i suoi potenti, ambasciatori, aristocratici e cardinali, Roma ha sempre visto scenette come questa raccontata dal Belli. "I cocchi degli ambasciadori – scrive il Belli stesso in nota al sonetto – ed alcuni altri, godono a Roma il privilegio di passare in ogni momento e per ogni verso dove tutti gli altri debbono osservare delle regole". Così, una strettoia delle strada, un incrocio, ed ecco che la carrozza privilegiata è bloccata da una carrozza comune. Non sia mai. Nasce il diverbio ma a senso unico, come vedremo nel sonetto.
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Questioni di traffico? No, di civiltà. Anche i "pizzardoni" dell'epoca, le guardie civiche che portavano un vistoso copricapo a due punte (pizzarda), dovevano abbozzare davanti al privilegio quando passava l’insegna di un potente. Che poteva essere un alto prelato o anche un ambasciatore. E se qualche carrozza comune si metteva di traverso, il cocchiere del potente di turno, in questo caso l'Ambasciata d'Austria, sproloquiava in modo arrogante minacciando una denuncia al Monsignor Governatore: "La precedenza spetta a me: sono Casa d’Austria". E il titolo del padrone per un istante sembra passare al cocchiere.
Attualità del Belli: ieri le carrozze a cavalli con stemma sugli sportelli, oggi le auto blu, spesso con relativa scorta. Non si sa quali più arroganti.
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ER LEGGNO PRIVILEGGIATO
Largo, sor militare cacarella:
uprimo er passo, aló, ssor tajja-calli:
ché sti nostri colori ner’e ggialli
nun conoschen’un cazzo sentinella.
Sò Ccasa-d’Austria, sò, ddio serenella!
Dich’e abbadat’a vvoi, bbrutti vassalli,
perch’io co sta carrozza e sti cavalli
pozzo entrà, ccasomai, puro in Cappella.
E ddoman’a mmatina, sor dottore,
ciariparlamo poi co Ssu’ Eccellenza
davant’a Monziggnor Governatore.
Guardate llí ssi cche cquajja-lommarda
da soverchià er cucchier d’una Potenza,
e nun portà rrispetto a la cuccarda!

9 aprile 1834
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Versione. La carrozza privilegiata. Largo signor militare di nessun valore: fatemi largo, andiamo (alò, dal francese allons), signor taglia-calli (nome di spregio: la carrozza avversaria è di un medico): perché i nostri colori neri e gialli non obbediscono neanche a una sentinella di guardia. Sono Casa d'Austria, per Dio serenella! [imprecazione] E state attenti a cedere il passo brutti vassalli perchè io con questa carrozza e questi cavalli posso entrare se necessario pure in cappella papale. E domani mattina, signor dottore, ne riparliamo davati a Monsigor Governatore e in presenza di Sua Eccellenza (che sta trasportando). Ma guarda che razza di quaglia lombarda (pezzo di merda) da voler soverchiare il cocchire di una potenza (l'Austria) e non portare rispetto alla coccarda (visibile sulla carrozza).
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Privilegi di ieri e di oggi. Speriamo che non sia approvata questa nuova furbesca iniziativa che vuol passar sopra alle infrazioni degli autisti delle disinvolte e pericolose auto di rappresentanza. Forse i milioni di automobilsti e motociclisti italiani potrebbero dire la loro e invitare i potenti di turno a rispettare le regole di tutti, a non fare insomma come i prepotenti della Roma ottocentesca del Papa Re.
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IMMAGINI. Carrozze a cavalli dell'800 restaurate e ancora in uso oggi in occasione di cerimonie particolari. La carrozza dell'ambasciatore sarà stata probabilmente più lussuosa, con insegne vistose sugli sportelli, e con un tiro a quattro.
 
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