28 settembre 2010

SPQR, Roma e i preti. Ecco che significa davvero questa sigla

Che vuol dire? Che è un invito irresistibile per i giochi di parole. In ogni epoca gli spiritosi da taberna o thermopolium (oggi diremmo "da bar"), per lo più in provincia – ahimé, ingenuamente sicuri di sé, capaci di tutto e senza vergogna: tipico dei provinciali – si sono sempre esercitati sulla bellissima e orgogliosa sigla che denota la Res Publica, cioè lo Stato di Roma antica: SPQR.
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Che vuol dire questo acronimo formato dalle iniziali di altre parole (dal greco antico àkron=estremità e ònoma=nome)? Come tuttora pochi sanno, significa Senatus Populusque Romanus: il Senato e (è il que aggiunto in coda ad un nome, che vale et, atque o ac messi davanti ma staccati) il Popolo Romano, le due entità che avevano il potere costituzionale e politico. Una diarchia fondata sul diritto, che anticipa genialmente le liberal-democrazie moderne.
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Freud, creatore della psicanalisi, ha scritto un pregevole saggio sui "giochi di parole" e i "motti di spirito", specialità in cui l’italianuzzo medio, convinto a torto di essere spiritoso, crede di eccellere, come si ascolta nei corridoi di tutti gli uffici da Trepalle a Pantelleria. Non c'è impiegato romano di oggi, per esempio, che non dica ancora "olive dorci" (olive dolci) al posto di "arrivederci", imitando Stanlio e Ollio. E non parliamo delle insegne penosamente fantasiose dei negozi della Penisola, da "Scarpe diem" per una bottega di calzature, all'ironico "Non solo fiori" per un fioraio che vende invece soltanto fiori, fino al doppio Kitsch geniale di "Cinecittà" per un negozio di cose cinesi in una via dedicata ad un regista di cinema... A proposito di "Puntini, puntini...", è il negozio di sartoria di una mia amica. Ormai aprire un esercizio commerciale significa cadere in qualche gaffe lessicale, e fare una battuta quando si è inadeguati vuol dire cadere in una figuraccia.

Le sigle, poi, hanno sempre stimolato la fantasia satirica del popolo. La targa SCV della Città del Vaticano, di solito abbinata a lussuose automobili scure di rappresentanza, è ovviamente letta dai romani, che non sono mai stati teneri col clero, "Se Cristo Vedesse". Naturale che l'antichissima SPQR si sia prestata a innumerevoli interpretazioni. Una leggenda da internet, ovviamente infondata e anacronistica, vuole che cominciassero i Sabini, a nord di Roma, fieri e duri come la gente di montagna, ad interpretare SPQR come, nientemeno "Sabinis Populis Quis Resistet?", cioè "Chi potrà resistere ai popoli sabini?" Chiunque. Infatti, furono subito sconfitti e assimilati dai Romani. Che allora erano la gente più tosta di tutte, altro che quei mollaccioni di oggi. E guai a confondere, come fanno ancor oggi i provinciali nelle battute spiritose, i Romani di allora con i romani di oggi. Come passare dal fuoco all’acqua, dal ferro alla ricotta.

Ed è un vecchio vezzo: i soliti nullafacenti amanti della satira a buon mercato e senza conseguenze penali, sicuramente romani medievali, s’inventarono perfino uno "Stultus Populus Quaerit Romam", ovvero "La gente stolta ama Roma".

Noi tutti, da bambini, soprattutto a Roma, ma anche in parecchi luoghi al Sud e al Nord, abbiamo scherzato su una sigla per noi familiare che sta dappertutto: dal sinbolo del Municipio in Campidoglio, allo stemma dell’Azienda Tranviaria ATAC, fino ai tombini dell’acqua e delle fognature. Senza contare le iscrizioni su lapidi e architravi antichi. Ma da piccoli. Naturale che all’asilo, a sei anni di età, e proprio a Roma, ci si consideri spiritosi e anticonformisti con "Sono Porci Questi Romani". Non credo che a Bergamo, a Bari, Sassari o a Enna i bambini di sei anni farebbero altrettanto spirito con la sigla della propria città. C’è anche una graduatoria nella naturale stoltezza dei bambini: ebbene, i piccoli romani sembrano in questo un po' più auto-ironici, dunque più saggi, dei loro coetanei di provincia. Di qui una nota obbligatoria di encomio per i bimbi romani, pur con tutto il male possibile che pensiamo dei romani di oggi, cioè dei pugliesi, siciliani, napoletani, marchigiani, laziali, abruzzesi, calabresi, umbri, sardi ecc., che più o meno abusivamente vivono (viviamo), e senza ringraziare, a Roma. E, di contro, con tutto il bene possibile che pensiamo dei Romani antichi.

Ma quando fanno gli spiritosi, come i bambini romani, degli anziani signori di provincia, in questo caso del Nord? Non impressiona che abbia fatto in ritardo lo spiritoso con una barzelletta di 80 o 250 anni fa, che già non faceva più ridere nell’800 e che oggi a Roma ripetono solo i bambini dell'asilo, un politicante provinciale, anzi il simbolo stesso dei provinciali furbi che hanno fatto una carriera fondata sul nulla, senza avere nessuna eccellenza, senza saper far nulla nella vita (e sempre con la stessa mentalità ristretta), passando come se niente fosse dal paesotto alla Metropoli, in cui possono finalmente comandare senza farsi ridere dietro da compaesani, figli, parenti e moglie (in questo caso, guarda caso, siciliana: province di Nord e Sud unite).

D’altra parte, perfino il Comune di Roma utilizza facendo lo spiritoso la propria sigla (impropria, perché ora Roma non è uno Stato a sé, ma è solo uno degli 8000 comuni dell’Italia, e quindi non ha un suo Senato, e neanche più i finti e ridicoli "senatori" del Medioevo), e si inventa la campagna di sensibilizzazione di giovani volontari per la tutela del patrimonio artistico e culturale, con tanto di errore d’italiano, un sostantivo anziché l’imperativo: "Salvaguardia, proteggi, qualifica Roma".

Evviva il Belli, allora, che nel suo periodo più fecondo dà alla sigla SPQR una geniale interpretazione satirica, quindi etico-politica, facendo parlare un prete istitutore. E come riferisce il grande Stendhal nel suo Viaggio in Italia, nel Regno Pontificio ad ogni stranezza, incongruenza, ingiustizia o prepotenza, c’era sempre un barbiere, un farmacista, un professore, un negoziante, un artigiano, che alla meraviglia o lamentela del forestiero o turista straniero, quasi a scindere le proprie responsabilità aprendo le braccia si scusava: "Che volete, signore, qui siamo governati dai preti!". Così qui. Con l’aggravante del cinismo, più che dell'autoironia: in questo caso a parlare, infatti, è addirittura un maestro-prete (visto il "don"):

SPQR
Quell’esse, pe, ccú, erre, inarberate
sur portone de guasi oggni palazzo,
quelle sò cquattro lettere der cazzo,
che nun vonno dí ggnente, compitate.
M’aricordo però cche dda regazzo,
cuanno leggevo a fforza de frustate,
me le trovavo sempre appiccicate
drent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.
Un giorno arfine me te venne l’estro
de dimannanne un po’ la spiegazzione
a ddon Furgenzio ch’era er mi’ maestro.
Ecco che mm’arispose don Furgenzio:
“Ste lettre vonno dí, ssor zomarone,
Soli preti qui rreggneno: e ssilenzio”.
Roma, 4 maggio 1833

Versione. SPQR. Quell’esse, pi, qu, erre, inalberate sul portone di quasi ogni palazzo, sono tutte lettere che non valgono niente e compitate non significano nulla. Mi ricordo però che da ragazzo, quando leggevo a forza di frustate, me le trovavo sempre tutte insieme nell’abbeccedario. Un giorno finalmente mi venne il desiderio di chiederne la spiegazione a don Fulgenzio, [il prete] che era il mio maestro. Ecco che mi rispose don Fulgenzio: "Queste lettere vogliono dire, sor somarone, Solo Preti Qui Regnano". E silenzio".

1 commento:

Nico Valerio ha detto...

Oggi il meridionale (rispetto alla Svizzera, alla Germania, alla Gran Bretagna, alla Svezia ecc) e funzionario romano (lavora a Roma nell'apparato dello Stato) on. Bossi si è scusato coi romani per il suo SPQR ("sono porci questi romani"). Nessun problema: i romani non sono razzisti verso chiunque sia meridionale rispetto a qualcun altro e lavori nell'impiego pubblico. Anche se... che produttività garantisce questo funzionario?

 
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