30 settembre 2010

Bestemmiatori, bari e violenti? Quei dannati giocatori di carte

Siamo lieti di ospitare un contributo sulle carte da gioco nella Roma dei Papi, della dott.ssa Marina Morena, dell'Archivio di Stato:
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Il “tempo libero”? L’idea stessa di tempo libero nelle epoche passate non esisteva. E’ un concetto moderno, collegato all’attuale organizzazione del lavoro. E c’è chi sostiene che, in fondo, non sia altro che un mezzo per allentare le tensioni psicologiche e sociali, e migliorare il rendimento del lavoro stesso.
A Roma, in passato, oltre agli svaghi organizzati dalla comunità (feste patronali, Carnevale, tombole, giostre, corse di cavalli…) un passatempo molto popolare era quello delle carte da gioco, diffuse in Europa dalla fine del Trecento, e che nel Quattrocento conobbero una espansione notevole grazie alla nascita dell'arte della stampa.
Ma alcuni aspetti trasgressivi legati a certi giochi di carte attirarono sùbito l’attenzione dei governanti. L'abitudine di puntare denaro, il fatto che la vincita dipendesse dalla fortuna, e i comportamenti correlati al gioco d’azzardo, provocavano un accanimento tale da indurre chi li praticava a una vita oziosa, incline alla bestemmia, ai furti e alle risse. Il linguaggio scurrile e le parole forti erano comuni tra i giocatori, come testimonia il Belli. E anche una semplice parolaccia, riferita al parroco, che allora vigilava sui costumi, portava addirittura ad una pena pecuniaria (La penale, 3 dicembre 1832):

...giucanno co ccerti vitturini,
come me vedde vince un lammertini,
disse pe ffoja: "Eh bbuggiarà Ssantaccia!"

Ovvero, giocando [a carte] con alcuni vetturini, quando mi vidi vincere [dal mio avversario] un Lambertini [moneta d'argento di 2 paoli], sbottai per l'ira: "E vada a farsi fottere Santaccia!" [figura proverbiale di prostituta a Roma].

In particolare la bestemmia, abitualmente in bocca al giocatore, era considerata un reato molto grave per la morale cattolica. Lo testimoniano i bandi generali, emanati periodicamente per ricordare al popolo tutto ciò che era proibito. La bestemmia era il reato che veniva nominato per primo. E che fosse collegata alle carte da gioco ce lo ricordano non solo un sonetto del Belli (v. sotto: Er padraccio) ma anche i cartelli affissi fino a pochi decenni fa nelle osterie di paese o di periferia dove si giocava a carte: “I giocatori sono pregati di non bestemmiare!”

Le pene? Chi offendeva Dio, Gesù Cristo, Maria Vergine e i Santi era punito la prima volta con tre tratti di corda in pubblico, la seconda con la pubblica frusta, la terza con la galera per cinque anni. Non si ammetteva come attenuante lo stato di ubriachezza, o l’eccesso di collera.
Barattieri, giocatori, osti e bari costituivano un microcosmo che ruotava intorno al gioco, diffusissimo sia fra i nobili che fra i popolani.
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La rapida diffusione delle carte da gioco, aveva persuaso alla fine del secolo XVI “er papa tosto” Sisto V a tassare questo settore. Detto, fatto. Si delegò ad un appaltatore privato il diritto esclusivo a fabbricare, bollare e vendere le carte da gioco. In cambio egli avrebbe pagato una somma consistente, che Sisto V volle assegnare come rendita all’Ospedale dei poveri mendicanti (il suo San Sisto). Anche più tardi la politica dei papi fu ambigua, sempre in bilico fra tolleranza, per non rinunciare alle entrate connesse, e severità, per cui si vietarono spesso i giochi per i noti fenomeni di disordine sociale.
Le carte da gioco, per essere vendute e poter circolare a Roma e nello Stato pontificio da quel momento in poi avrebbe dovuto avere il bollo. L’idea fu talmente vincente da arrivare, con varie correzioni, fino ai nostri tempi.
Esistevano due tipi di bolli per le carte da gioco: quelle per i mazzi che si usavano in casa e quello per i mazzi che si usavano nei luoghi pubblici.
Tale organizzazione provocò spesso delle infrazioni: il costante uso di carte di contrabbando migliori e più economiche, l’impiego di mazzi non bollati ecc (v. in basso l’intestazione di uno dei tanti Editti contro le carte false).
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Per i ceti nobili e benestanti alcuni giochi di carte erano un passatempo alla moda per impiegare il tempo giocando nelle lussuose dimore, durante feste e balli, scampagnate, oppure nei caffè, nei biliardi. Si ha notizia di consistenti patrimoni nobiliari andati persi sul tavolo del gioco d’azzardo.
Il popolino romano, nonostante i pochi mezzi a disposizione, era caratterizzato da un desiderio costante di svago, in contrasto con le difficili condizioni di vita. E così ogni spazio era buono per tirare fuori un mazzo di carte: nella piazza del mercato, vicino alle chiese e alle fontane, nei “giochi lisci” (campi di bocce) e nelle osterie.
Per motivi di ordine pubblico, nel corso dei secoli, a Roma furono ripetutamente proibiti i giochi di carte nelle strade e piazze, e nelle osterie, dove si beveva la classica fojetta* di vino e giravano le prostitute. Possiamo immaginare l’ira, e le lamentele degli appaltatori di turno, che vedevano così decurtati i loro utili. Erano diffusissimi a Roma nell’Ottocento gli spacci di carte da gioco.
Infine una curiosità: all’epoca del Belli, dopo varie vicissitudini, il settore che si occupava di bollare le carte da gioco era stato affidato proprio all’Amministrazione del Bollo e Registro (ufficio in cui proprio il Belli aveva lavorato dal 1813 al 1828).
Quanto di tutto questo si trova nei Sonetti belliani? Senza distinzione alcuna fra plebe, nobili e preti, la Roma del Belli frequenta l’osteria, gioca a carte e bestemmia (non solo giocando a carte). Anzi, i sonetti costituiscono un’importante fonte di conoscenza per i giochi in uso nell’Ottocento. Belli infatti in più occasioni cita i giochi di carte dell’epoca: faraone, zecchinetto, briscola, tressette, primiera, naso-e-primiera, mercante in fiera.
Un sonetto del Belli, intitolato La partita a ccarte, è dedicato ad un giocatore incallito che a detta d’un amico si atteggia ad esperto, ma invece è una schiappa, dice che la partita lui l’ha “regalata”, ma in realtà di ogni perdita fa un dramma, bestemmiando a più non posso:
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LA PARTITA A CCARTE
Arigalata, eccí! cche bber rampino!
Vedi un po’ de vennécce er zol d’agosto!
Tu mmó a sto ggioco sce fai tanto er tosto,
e nu la vôi capí cche ssei schiappino.
Inzomma è ppatto-fatto c’a ’gni costo
hai da vince ogni sera er tu’ lustrino.
Ma nun zai stacce un cazzo ar tavolino.
Và ar muricciolo, và, quello è ’r tu’ posto.
Guarda io, che cco ttutta la mi’ jjella
pago com’un zignore la mi’ pujja
senza d’ariscallamme le bbudella.
E nun fò ccom’e tté ttutta sta bbujja,
che appena vedi un pò de svenarella,
te bbiastími er pastèco e lla lelujja.
Roma, 19 novembre 1832.
Versione. La partita a carte. Regalata, dici? Eccì! Che bella scusa! Non cercare di venderci il sol d’agosto! Ora tu a questo gioco fai tanto l’esperto, ma non lo vuoi capire che sei una schiappa. Insomma, che cos’è, un contratto, che tu ogni sera devi ad ogni costo vincere il tuo lustrino [grossetto, mezzo paolo d’argento]? Ma non sai stare al tavolo di gioco: va' al muretto, va', quello è il tuo posto. Guarda me, con tutta la mia sfortuna pago come un signore il mio gettone senza riscaldarmi le budella. E non faccio come fai tu tutto questo lamento, che appena vedi che inizia una perdita continua ti metti a bestemmiare il pax tecum e l’alleluja..
La popolare zecchinetta (v. l'incisione del Pinelli), o zecchinetto per il Belli, e la sua variante forse più aristocratica detta faraone, erano giochi d’azzardo per eccellenza. Come tali duramente puniti se scoperti dalle guardie. Ma anche nel Belli il riferimento al gioco è utilizzato comunque sempre per descrivere la zona buia del personaggio in questione. Così è per il padre giocatore che non assolve ai doveri di padre (nel sonetto Er Padraccio):
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ER PADRACCIO
Vestí li fiijj? lui! Santa pascenza!
Che cc’entra lui co li carzoni rotti?
A llui j’abbasta d’annà a li ridotti
a ggiucà a zzecchinetto; ecco a cche ppenza.
Ebbè, cquanno ho strillato? me dà udienza
com’er Papa dà rretta a li sciarlotti.
Bbisoggna che l’abbíla io me l’iggnotti;
nun c’è antro da fà, ssora Vincenza.
Tutto er mi’ studio è ppregà Iddio che vvinchi.
Nò cc’allora sce speri quarc’ajjuto
ma ppe avè mmeno carci in ne li stinchi.
Quela bbestiaccia io la conosco ar pelo;
e quanno torna a ccasa c’ha pperduto,
sora Vincenza mia, òprete scelo!
14 aprile 1835
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Versione. Il pessimo padre. Vestire i figli, lui? Santa pazienza! Che c’entra lui con i calzoni rotti? A lui basta andare nelle salette a giocare a zecchinetta; ecco a che pensa. Ebbene, quando ho strillato? Mi ascolta come il Papa dà retta ai ciarlotti [specie di uccelli: proverbio]. Bisogne che la bile io me la inghiotta, non c’è altro da fare, signora Vincenza. Tutta la mia preoccupazione è pregare Dio che lui vinca. Non per sperare di avere qualche aiuto, ma per avere meno calci negli stinchi. Quella bestiaccia io la conosco dal pelo: quando torna a casa ed ha perso, signora Vincenza mia, apriti Cielo!
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Lo stesso si dica per rappresentare il quadro desolante dei preti romani nel sonetto Li Chìrichi, del 29 novembre 1833. Qui in particolare potrebbe trattarsi di religiosi minori (forse adibiti alle funzioni di sacrestani, dice una nota del Vigolo, ma il Belli usa altrove il termine “sagristano”):
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Li chirici de Roma, crosc e spine!
Dove te vài scavà ppeggio gginìa?
Uno ruffiano, uno gatto, uno spia
uno…inzomma canajja senza fine,
ggiucheno a zzecchinetto in zagrestia…

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Versione. I chierici di Roma, croce e spine! Dove vuoi andare a scavare peggior razza? Uno è ruffiano, uno ladro, uno spia, uno… insomma canaglia senza fine, giocano a zecchinetta in sacrestia…
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E infine il mondo privilegiato dei nobili nella Bbonifiscenza (il secondo sonetto con questo titolo, quello del 5 aprile 1836), in cui sotto il falso nome di “beneficienza” l’amministrazione pontificia scialacqua tanti soldi faticosamente raccolti, addirittura una pensione, per far divertire col gioco delle carte una principessa Chigi.
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Cinquanta scudi ar mese de penzione
a na vecchiaccia frascica de vizzi,
ppe’ mmetteli su un asso ar faraone.

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Versione. Cinquante scudi al mese di pensione ad una vecchiaccia fradicia di vizi, per consentirle di puntarli su un asso al faraone.
MARINA MORENA
IMMAGINI. 1. Il cavaliere di Coppe (carte da gioco prodotte da C.Roxas, 1810). Le carte di stile spagnolo erano diffuse anche a Roma, non esistendo le carte "romane". 2. "Comitiva di oziosi, giocando alla zecchinetta in Roma" (incisione di B. Pinelli, 1816, part.). Da originale in Archivio di Stato, Roma: Nuova raccolta di 50 costumi pittoreschi incisi all'acquaforte da Bartolomeo Pinelli. 3. Un'antica carta da gioco italiana: il Re di Spade. 4. Carte da gioco viterbesi, di Scipione Moscatelli, prodotte a mano, per tutto l'Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento. Erano vendute anche a Roma. 5. Un editto contro le carte da gioco di contrabbando, cioè senza bollo.
* Piccola bottiglia di vetro chiaro trasparente da 500 ml a bocca svasata, con linea della misura esatta e il bollo di Stato. Tipica di Roma e delle Marche. Fu introdotta infatti, per limitare le ricorrenti frodi degli osti, dal papa marchigiano Sisto V.

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