16 luglio 2010

Caldo e fastidi dell’estate nella sonnolenta Roma dei Papi

L'afa, una calura infernale, il respiro che manca, il sole che s’infila dappertutto (i pochi portici li costruirono i piemontesi dopo il 1870), l’ombra che diventa all’improvviso un bene prezioso, introvabile, tranne che nei vicoli stretti dei rioni centrali, o nelle chiese. Ma anche molte chiese e conventi, oltre a botteghe e uffici, da mezzogiorno alle 3 del pomeriggio erano chiusi. L’addormentata "città-chiesa" dei Papi, dove gli unici eventi erano le processioni, le novene, le nuove indulgenze e le rappresentazioni sacre, non doveva badare molto alla produttività, tantomeno in estate.
Col caldo dell’estate Roma diventa una città morta. Il solleone dei pomeriggi di luglio e agosto spaventa Papa, Sacro Collegio, nobili, diplomatici, alti prelati, preti, frati, popolani. I primi, che possono, con la scusa del pericolo del colera o della malaria, fuggono nelle ville estive, magari ai Castelli. Ma gli ultimi, che non possono, sono rintanati in casa, a far finta di non esserci. "A piazza di Spagna, se vedi qualcuno camminare, sarà o un gatto o un francese", è l’ironico detto popolare riferito con gusto da Henry d’Ideville, nel suo Diario diplomatico romano (a cura di G.Artom, Milano 1966).
Questa era Roma all’aperto nelle giornate di piena estate. Un bellissimo inferno. E tra le fiamme della calura che si sollevavano dai "sampietrini", il silenzio regnava sovrano, rotto forse solo dal miagolio d’un gatto, dal frullar d’ali d’un piccione, e dallo zampillare delle mille fontane che allietano e rinfrescano ogni piazza o borgo, una grande ricchezza che ha sempre fatto di Roma una città unica al mondo.
Una quiete che in una città abituata a vivere fuori casa non può mai essere totale. Così, un vero fastidio sono i rumori molesti dei giovani che nei cortili, sotto un fico o nelle strade in ombra, incuranti dei divieti dei vecchi, urlano, scherzano, litigano, giocano a bocce, a ruzzica, alla morra, e tirano sassi. E che danno terribilmente ai nervi, fino a causare un’ira incontenibile, a chi vuol riposare, a tapparelle abbassate, nella "pennichella". Il sonetto seguente esprime bene l’esasperazione irosa di un tipico romano disturbato dalle grida e dai giochi rumorosi di giovinastri strafottenti sotto casa.
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A LI CAGGNAROLI SULL'ORE CALLE
Bastardelli futtuti, adess'adesso
si nun ve la sbiggnate tutti quanti,
viengo giù, ccristo, e vve n'ammollo ttanti,
tutti de peso e cco la ggionta appresso.
Che sso! mmai fussim'ommini de ggesso,
da piantà llì cco la fronnetta avanti!
Guarda che sconciature de garganti!
Fùssiv'arti accusì, ttanto è l'istesso.
È ggià da la viggilia de Sanpietro
che vve tiengo seggnati uno per uno
pe ggonfiavve de chicchere er dedietro.
Pregat'Iddio, fijjacci de nisuno,
pregat'Iddio d'arisfassciamme un vetro,
e vvedete la fin de sto riduno.

1 ottobre 1831
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Versione. A quelli che fanno chiasso nelle ore calde. Bastardelli fottuti, se non filate via tutti quanti, adesso scendo giù, per Cristo, e ve ne dò tanti [di sganassoni], di forza e con la giunta. E che! nemmeno fossi un uomo di gesso [quindi insensibile a tutto e incapace di reagire] da piantarsi fermo come una statua con tanto di foglia di fico davanti! Guarda tu che sconcio da gradassi prepotenti! Anche se voi foste alti così [cioè ragazzini] sarebbe lo stesso. E’ già dalla vigilia di San Pietro che vi ho catalogati uno per uno per farvi il sedere gonfio di botte. Pregate Dio, figliacci di nessuno, pregate Dio di rompermi di nuovo un vetro, e vedrete che fine farà la vostra combriccola.
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In un suo saggio intitolato Afa. Antologia sull’insopportabile caldo romano, Luigi Ceccarelli (celebre come romanista con lo pseudonimo di "Ceccarius") ha riunito i vari sinonimi riportati dai linguisti romani. E’ afa, ma anche bafa, callaccia o addirittura sbafa, l’aria afosa opprimente, il caldo soffocante e snervante (G.Vaccaro, Vocabolario romanesco belliano e italiano-romanesco, Roma 1969). Conviene il Chiappini, per cui callaccia è l’afa, il caldo fastidioso, la calura (Vocabolario romanesco, Roma 1992). All’afa, però, Roma ha, o meglio aveva, l’antidoto: il "ponentino". Una brezza che spira da Ponente cioè dal mare verso Roma e che si leva al calare del sole rinfrescando l’aria arroventata dei pomeriggi estivi. E’ una delle caratteristiche climatiche della città, a causa della sua posizione tra il mare e catene di colline, ma al presente il continuo dilagare di nuove costruzioni sulla costa e nei quartieri occidentali della città, sta mano a mano alterando la configurazione del terreno, ed il "ponentino" non riesce ormai più a giungere sino al centro della città (F.Ravaro Dizionario romanesco, Roma 2000).
Così desiderato è ogni genere di refolo d’aria o brezza che a Roma esiste perfino un "vicolo de’ Venti" (rione Regola, a S.Caterina della Rota). Dove, in ogni stagione e ora del giorno si dovrebbe notare sensibilissimo il soffiare dei venti (A Rufini, Dizionario etimologico-storico delle strade, piazze,borghi e vicoli della città di Roma, Roma 1847).
E Ceccarius fa bene a ricordarsi di due versi del grande Zanazzo, il più belliano degli studiosi ed eredi del Belli, tratti da una sua poesia del 16 aprile 1882 (G.Zanazzo, Poesie romanesche, a cura di G.Orioli, Roma 1968), in cui nelle segrete Camere pontificie la spossatezza domina perfino tra Li servitori in anticammera durante er Concistoro delli Cardinali:
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Che sbafa! Che callaccia! Opri le porte
armeno gioca l’aria…
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Il Belli, che era freddoloso e morì con uno scaldino in mano, dedica al caldo e all’estate due realistici sonetti, però curiosamente scritti in pieno inverno, il 7 e l’8 febbraio. E allora, tra i rigori del gelo, deve trattarsi d’una rievocazione (M.Teodonio), se non addirittura d’un acuto desiderio, tecnicamente ben servito dal sistema di appunti e varianti di "rime pronte" a cui poteva ricorrere in ogni momento dell'anno l’organizzatissimo sonettista:
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ER CALLO
Uff! che bbafa d’inferno! che callaccia!

Io nun ho arzato un deto e ggià ssò stracca:
oh cche llasseme-stà! ssento una fiacca,
che nnun zò bbona de move le bbraccia.
Sto nnott’e ggiorno co li fumi in faccia,
sudanno a ggocce peggio d’una vacca;
che inzino la camiscia me s’attacca
su la pelle. Uhm, si ddura nun ze caccia.
Ho ttempo a ffamme vento cor ventajjo,
a bbeve acqua e sguazzamme a le funtane:
è ttutto peggio, perché ppoi me squajjo.
P’er maggnà, ccrederai? campo de pane.
E nnun te dico ggnente der travajjo
de ste purce, ste mosche e ste zampane.

Roma, 7 febbraio 1833

Versione. Il caldo. Uff! Che afa d’inferno! Che calura! Non ho fatto il minimo movimento, eppure sono già stanchissima: oh, che apatia! Sento una debolezza tale che non posso neanche alzare le braccia. Notte e giorno ho le caldane sul viso, sudando a gocce peggio di una vacca, tanto che perfino la camicia mi si attacca alla pelle. Uhm, se dura questa situazione non se ne esce. Tempo sprecato a farmi vento col ventaglio, bere acqua, e sguazzare nelle fontane, è peggio, perché poi mi squaglio. In quanto al mangiare, ci crederai?, vivo di pane. E non ti dico nulla del fastidio di queste pulci, mosche e zanzare.
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In un crescendo di enfasi che ha punte drammatiche vagamente dantesche, il Belli adombra in una piccola "fine del Mondo" di stampo popolare la leggenda – suffragata anche da qualche medico – che il gran caldo estivo portasse addirittura le terribili febbri contagiose (la "mal aria", appunto) di cui Roma allora era infestata, prima delle grandi riforme dello Stato unitario, a causa degli acquitrini che la circondavano, delle condizioni di vita poco igieniche e della conseguente debolezza verso le infezioni di cui soffriva la popolazione, nella totale indifferenza della Chiesa.

L’ISTATE
’Na caliggine come in cuest’istate
nu la ricorda nemmanco mi’ nonno.
Tutt’er giorno se smania, e le nottate
beato lui chi rrequia e ppijja sonno!
L’erbe, in campaggna, pareno abbrusciate:
er fiume sta cche jje se vede er fonno:
le strade sò ffornasce spalancate;
e sse diría che vvadi a ffoco er Monno.
Nun trovi antro che ccani mascilenti
sdrajati in ’gni portone e ’ggni cortile,
co la lingua de fora da li denti.
Nun piove ppiú dda la mità dd’aprile:
nun rispireno ppiú mmanco li venti...
Ah! Iddio sce scampi dar calor frebbile!
Roma, 8 febbraio 1833

Versione. L’estate. Una caligine come in quest’estate non la ricorda neanche mio nonno. Tutto il giorno si smania, e di notte beato chi ha requie e prende sonno! Le erbe in campahna sembrano bruciate: il Tevere è così povero d’acqua che gli si vede il fondo, le strade sono fornaci spalancate, e si direbbe che vada a fuoco il Mondo. Non trovi altro che cani macilenti straiati in ogni portone e cortile, con la lingua fuori dai denti. Non piove dalla metà di aprile, non respirano più neanche i venti… Ah Iddio ci scampi dal calor febbrile!

"12 luglio 1845. Dal 6 al 9 abbiamo avuto un caldo che talvolta fece ascendere il termometro di sopra i gradi 28 (gradi Réaumur, pari a 35°C. NdR). Ai 7 ascese a gradi 28,6 (pari a 36°C, NdR). Dal 1842 non avemmo un caldo simile (N.Roncalli, Cronaca di Roma 1844-1848, vol I, Roma 1972. E ancora, scriveva lo storico Gregorovius in Diari romani il 19 agosto 1861: "Il caldo straordinario ha mandato a monte i miei lavori, i risultati di 44 giorni sono molto meschini" (Ceccariuis). A noi moderni, con l'aumento delle temperature medie degli ultimi decenni, un caldo simile sembra normale: si verifica ad ogni estate. Ad ogni modo, se vivesse oggi a Roma, d'estate, Gregorovius scriverebbe solo grazie all'aria condizionata!

Un altro diario. "26 giugno 1801: fa da ieri in qua un grandissimo caldo". "1 luglio 1801: caldo grandissimo". Il principe Chigi, che registrava nel suo diario con maniacale fissazione aristocratica ogni variazione di calore e umidità, cercava refrigerio alla fontana di piazza del Popolo. Ebbene, per assicurarsi che ci fosse un refolo di vento vi immergeva, essendo il dito troppo proletario, la punta del bastone: osservando che una parte si asciugava prima dell’altra si accertava della direzione e dell’esistenza stessa del vento.

E dal caldo veniva il colera, si pensava allora. "26 luglio 1831: oggi è cominciato un triduo nella chiesa dell’Anima con indulgenza per implorare la cessazione del flagello del cholera, che ha penetrato in qualche parte degli stati dell’Imperatore. 6 agosto 1835: oggi è cominciata una divozione di dieci giorni in 16 chiese dedicate alla Madonna, oltre alla chiesa di S Rocco, con indulgenza plenaria per chi v’interverrà 7 volte, ad effetto d’impetrare l’allontanamento del morbo che ci minaccia". 9 agosto 1835 Essendosi riconosciute insufficienti le 16 chiese destinate per l’indulgenza, ne sono state accresciute altre 8, delle più vaste. Nello stesso tempo si è annunziata la riduzione da 7 volte a 5 per l’acquisto dell’indulgenza (C.Fraschetti, Diario del Principe Agostino Chigi dal 1830 al 1855, con un saggio di curiosità storiche sulla vita della Roma dell’epoca (Tolentino 1906).

Insomma, sempre i soliti, i Papi Re! Il colera lo combattevano non con i medici o l’igiene, ma a colpi di massicce preghiere. Tridui e novene, anziché canalizzazioni agricole. Sconti last minute sulle indulgenze, anziché estratto di chinina. Tanto, si sa, malati o sani, sarebbero andati tutti comunque all'inferno.
Anche per questo, il colera terrorizzava tutti, preti, nobili e popolo. E la preoccupazione di Chigi era quasi un presentimento: la moglie muore di colera nell’epidemia del 1837, e anche lui morirà nel 1855, colpito probabilmente dallo stesso morbo (Ceccarius). E che l’estate romana equivalesse alle malattie, lo dice anche il Belli nel sonetto terroristico L’aria cattiva (5 giugno 1845) che oggi farebbe inviperire l'Ufficio del Turismo. E se pensiamo all'attuale Estate Romana, quant'è lontana la Roma di oggi dalle epidemie papaline!:
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Scappate via, sloggiate, furistieri:
fora, pe ccarità, cch’entra l’istate.
Presto, fate fagotto, sgommerate,
ché mmommò a Rroma so affaracci seri.

Ché cqui er callo è un giudizzio univerzale:
l’aria de lujji e agosto ammazza tutti.

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Così, da metà giugno a fine settembre Roma si svuotava di Papa, Sacro Collegio, alti prelati, diplomatici, aristocratici e borghesi benestanti, perché - altro che inverno - si riteneva che la "malaria" infuriasse col colera e altri morbi proprio nel mezzo dell'estate. Tutti quelli che potevano andavano ai castelli nelle ville di Albano, Castelgandolfo, Frascati, o ai bagni di mare. La malaria, in senso stretto, poi, era tipica dell’estate romana, le campagne essendo paludose e infestate di zanzare. Nessun quartiere romano ne era esente, soprattutto la periferia (Ceccarius).
Perciò, non appena un popolano diventava un minimo benestante, sùbito faceva mostra di "andare in villeggiatura", ai Castelli, come la "sora Irene" del sonetto seguente, che non avendo una carrozza privata ci va in diligenza. "Smanie della villeggiatura", le aveva chiamate Goldoni, graffiando anch’egli le tipiche pretese piccolo-borghesi dei neo-ricchi:
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LA PARTENZA PE LA VILLEGGIATURA
Sor’Irene, e ccusí? ss’arivà ffora?
E ss’è lléscito, indove? Eh ggià, a Ffrascati,
a cqueli belli crimi imbarzimati.
Ecco cqua che vvor dí dd’èsse siggnora.
Ma ssa cche cco ste sciarle è vventun’ora,
e li cavalli ggià stanno attaccati?
Anzi, in ner leggno sciò vvisto du’ frati
che la prèsscia d’annà sse li divora?
J’hanno messa la robba, eh sor’Irene?
Oh bbrava: ma jj’avverto che vvò ppiove:
veda che ttutto sii cuperto bbene.
Ôh, ddunque, arivedèndola; e co cquesto
facci bbon viaggio, sce dii le su’ nove,
se diverti, s’ingrassi, e ttorni presto.

24 settembre 1835
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Versione. La partenza per la villeggiatura. Signora Irene, si va di nuovo fuori, è così? E dove, se è lecito? E già, a Frascati, con quel bel clima balsamico. Ecco che vuol dire esser signora. Ma sa che con queste ciarle siamo arrivati alle 21, e i cavalli sono già attaccati? Anzi, in carrozza ho visto due frati che la premura di andare si divora. Le hanno caricato i bagagli, eh, signora Irene? Oh, brava, ma l’avverto che sta per piovere: veda che tutto sia coperto bene. Oh, dunque, arrivederla; e con questo faccia buon viaggio, s’ingrassi e torni presto.
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E il popolo? L'unico refrigerio che gli era consentito era di andare a vedere i nobili che in carrozza "si rinfrescavano" con curiose e spettacolari passeggiate sull'acqua in una piazza Navona allagata (dove a bagnarsi, però, erano solo le ruote e le zampe dei cavalli). Altrimenti una bella fetta di cocomero, molto raramente un gelato, perché i sorbetti offerti dai "sorbettari ambulanti" del Centro costavano cari. Altrimenti, doveva industriarsi ad evitare il sole camminando acrobaticamente lungo le "linee d'ombra" dei palazzi nobiliari. Ma con un pizzico di conquista democratica che a Parigi e a Londra si sognavano, perché potevano godere del romanissimo diritto ai "trapassi". Per lunga tradizione, i grandi palazzi aristocratici con più portoni erano gravati da una singolare servitù di passaggio: chiunque vi poteva entrare, probabilmente sotto lo sguardo di occhiuti guardaportoni, poteva percorrere lunghi e freschi corridoi, cortili e giardini, e uscire da un altro portone. Perfino nel più grande di tutti, il palazzone papale del Quirinale, anche il giovane "cascherino" del fornaio col pane da consegnare, la lavandaia con la sporta o un ragazzino del popolo a piedi nudi, potevano entrare alle Quattro Fontane e uscire dalla porta della Dataria, praticamente su Fontana di Trevi. Lo scrive lo stesso Belli nel sonetto La strada cuperta.

Chi vvò vvienì da le Cuattro-Funtane
ssempre ar cuperto, ggiù a Ffuntan-de-Trevi
entri ar porton der Papa...
... Com'è arrivato a la Panettaria
... scappi dar porton de Dataria.

M.Bosi vi accenna nel saggio Un privilegio perduto: i trapassi dei portoni in "Strenna dei Romanisti", Roma 1972. Così il popolino evitava il caldo e il sole, e "tagliava" tortuosi percorsi sotto il sole cocente dell'estate nel Centro di Roma. E anche se le guardie civiche vigilavano e il "monsignor illustrissimo delle strade" in teoria vietava e puniva qualsiasi cosa, poteva sempre farsi un bel pediluvio nelle mille fontane romane. L'igiene dello Stato della Chiesa ne aveva tutto da guadagnare.
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IMMAGINI. 1. Piazza Navona allagata, una vecchia tradizione durata fino all'Ottocento che si ripeteva ad ogni estate come festa curiosamente riservata alle carrozze. 2. Il cocomeraro di piazza Navona (acquerello di A.Pinelli). 3. Il sorbettaro ambulante mostra ai passanti un gelato (stampa popolare). 4. Giovani giocatori di bocce. Tra urla, commenti e litigi, il clamore del gioco all'aperto rompeva la quiete dei caldi pomeriggi romani.

9 commenti:

Quasibaol ha detto...

Grazie. Bellissimo blog, lo adoro!

Nico Valerio ha detto...

Grazie a te: detto da te (ho visto i tuoi blog iconograficamente raffinati) vale un complimento doppio! E a proposito, nel caso che tu sia un grafico, non ti dico le difficoltà che incontro per trovare illustrazioni. Se trovo qualcosa (p. es. un'antica stampa scolorita), devo tagliarla, scontornarla o ricolorarla con Photoshop...

Paolo Bordini ha detto...

Due annotazioni per il tuo blog sul caldo nella Roma dei Papi.
A proposito del calor "frebbile" il popolino credeva che quando la temperatura saliva oltre i 37 gradi centigradi, temperatura della febbre, la febbre stessa entrasse nel corpo umano, producendo una sorta di epidemia febbrile.
A proposito della temperatura lamentata da un residente "28 gradi e fino a 28,6" si tratta di gradi della scala Reaumur, in uso ai tempi del Belli, che corrisponde rispettivamente a 35 e 36 gradi centigradi, come da nota Vikipedia.
La scala Réaumur ha ormai solo un interesse storico, essendo stata abbandonata da tutti. Essa fu proposta da René Antoine Ferchault de Réaumur, nel 1731 basandosi sulla dilatazione dell' alcool. I suoi due punti termidinamici sono quello di fusione del ghiaccio fissato a 0 gradi Réaumur, e quello di ebollizione del'acqua fissato ad 80 gradi Réaumur. I punti di riferimento fissati sono dunque gli stessi della scala Celsius, ma l'intervallo è suddiviso in 80 parti (anziché 100). L'uso della scala ottantagesimale invece della scala centigrada è dovuto al fatto che Réaumur graduò il tubo dove scorreva l'alcool in modo che la tacca di un grado corrispondesse alla millesima parte del volume del bulbo di alchool usato come termometro. In altre parole, Réaumur notò che al passaggio dal ghiaccio fondente al punto di ebollizione dell'acqua il volume del termometro aumentava di circa 80 millesimi del volume iniziale; volendo definire il grado come la millesima parte del volume del bulbo a 0° ottenne perciò 80 suddivisioni fra la temperatura del ghiacco fondente e quella dell'acqua bollente.

Nico Valerio ha detto...

E infatti, Paolo, mi sembrava molto strano: non pensavo che la scala Réaumur potesse essere ancora in uso nello Stato Pontificio. Ho provveduto a tradurre in gradi Celsius. Anche di fisica deve occuparsi questo sito!

Nico Valerio ha detto...

Viene in mente un sonetto di Crescenzo Del Monte in giudaico-romanesco (La staggione de “challasciudde”, del 21 luglio 1927):
O, menomale, ecco ‘na fontanella:
famme fa’ ‘na bevuta… aah! che reffiato!
‘St’acqua de Trevi t’aremette ‘o fiato
Ch’io mmai me staccherio de la cannella.

(Nuovi sonetti giudaico-romaneschi Cremonese ed Roma 1933).

Quasibaol ha detto...

Nico: no, ahimé, non sono grafico, e non ho nemmeno il photoshop, mi arrangio col Roxio Photosiute e con qualche altro trucchetto da principiante.
Ti segnalo però questa pagina di Facebook, dove forse puoi trovare qualcosina di interessante:
http://www.facebook.com/Roma.Sparita
Fine off topic.

Nico Valerio ha detto...

Grazie, Quasibaol. Bella pagina, che seguirò. E' che a me servono foto e stampe (specie di preti, ecclesiastici, donne di ogni età in costume, militari, artigiani ecc) di una Roma contemporanea del Belli, diciamo dal 1800 al 1860. Cioè le cose più rare di internet, anche nelle raccolte di "Roma sparita". Insomma, non basta la Topolino, serve la carrozza a cavalli.

Quasibaol ha detto...

Su molte bancarelle, ad esempio quella sotto porta del Popolo, vendono a pochi spiccioli quei libri della Newton Compton sulla Roma dei bei tempi, quelli con la copertina rosso scuro, per capirci; dentro quei libri ci sono un pò di disegni e stampe che con uno scanner potresti forse utilizzare per il blog.
Boh, può essere un'idea...

Nico Valerio ha detto...

Sì, è la prima cosa che ho fatto. Ma resta il fatto che le donne e i preti della Roma dei Papi - i grandi protagonisti dei Sonetti - sono quasi assenti nelle banche immagini.

 
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