4 giugno 2010

La bottega del calzolaio: un po’ commercio e un po’ teatro

Roma, prima metà dell'800, una bottega di calzolaio, dove si prendono gli ordini, si misura, si scelgono i materiali, si lavorano, si provano scarpe, stivali e alla fine si consegnano al cliente, che resterà più o meno soddisfatto. In caso di alti prelati o grandi aristocratici tutto questo si svolge a domicilio del committente di prestigio, che va assolutamente soddisfatto.
Ma il cliente normale, che non dispone di altro potere che quello dei soldi per pagare le scarpe, viene spesso gabbato da "mastro Grespino" (Crispino), nome proverbiale di calzolai e ciabattini, a quanto scrive in una nota il Belli, smentito però dal La Stella (Antichi mestieri di Roma, ed. Newton Compton, 2005, p.103), la cui lista di calzolai del 1864 non riporta neanche un Crispino. Insomma, deve essere accaduto come a mastro Titta, il più famoso boia di Roma, nome divenuto poi leggendario e appioppato a tutti i carnefici.
"Però il cliente faccia attenzione, perché "calzolari e ciavattini ingannan molte volte con la robba che ti danno, perché son buoni da venderti un montone per un vitello, o darti per una scarpa nuova una ciavatta rinnovata", e addirittura "nel cucire tengono i punti larghi a posta" (La Stella, citando lo storico Garzoni).
Alla stregua del barbiere, dell'oste, un po' anche del farmacista, mastro Grespino è una piccola autorità, la sua bottega è un punto di riferimento di sfaccendati di quartiere, minenti, bulli (B.Rossetti, I bulli di Roma, ed. Newton Compton, 2006, didascalia p.133) e, ci scommettiamo, qualche paino, magari di origine popolana.
Questo luogo di ritrovo, oltre che di operosa attività artigianale, ce lo lascia intravedere il Belli in una coppia di divertenti sonetti, dove mastro Grespino, forse davanti a una piccola platea, magnifica il frutto della sua attività, gabellando i difetti per improbabili qualità delle sue calzature. E dando al cliente anche qualche fregatura, cioè sempre a proposito di suole vecchie messe come nuove, la classica "sòla", come si dice oggi a Roma. La voce è citata per la prima volta da Pasolini (Una vita violenta, 1959), come riporta il linguista P. D'Achille (Roma Tre).
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MASTRO GRESPINO I
Stretti?! Ma gguardi llì, stanno attillati
che jje fanno un piedino ch’è un piascere.
Sòle schiette, se sa, ppelle sincere:
sò stivali, e nno zzànnoli de frati.
Che ccosa se ne fa, ssor cavajjere
de quelli fanfaroni squatrassciati
che ddoppo un’ora o ddua che ll’ha ccarzati
je diventeno un par de sorbettiere?
Sbatti er piede, accusí, ffacci de questo:
ma ggià, er vitello come sente er callo
cede da lui medémo e ppijja er zesto.
Oggi e ddomani ar piú cche sse li mette,
lei sti stivali cqui pposso accertallo
che jj’anneranno sú ccom’e ccarzette.
30 novembre 1836
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Versione. Mastro Crispino 1. Stretti? Ma guardi lì, sono attillati che le fanno un piedino che è un piacere. Suole di qualità, si sa, pelle vera: sono stivali e non sandali di frati. Che cosa se ne fa, signor cavaliere, di quelle scarpe goffe e larghe che dopo un'ora o due che le ha calzate le diventano un paio di sorbettiere? Sbatta il piede cosi, come faccio io, perchà la pelle di vitello come sente il caldo cede da sola e si assesta sul piede. Oggi o domani al massimo che se li mette, questi stivali, glielo garantisco, le andranno su come calzette.
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MASTRO GRESPINO II
Larghi sti bbordacchè?! Llavoro a ttanti
e oggnuno li vò ggranni ppiú de quelli.
Quanno lei commannava du’ bbudelli,
sor Conte mio, poteva dillo avanti.
Questi ar meno je vanno com’e gguanti
senza che cce se sforzi e ss’appuntelli:
nun c’è ar meno bbisoggno de mettelli
a ffuria de sapone e de tiranti.
Nu la sente che ppasta de gammàle?
La prim’acqua che vviè cquesto aritira;
e, ssi strozza, o nun j’entra o jje fa mmale.
Carzi commido, carzi: er tropp’è ttroppo.
Eppoi pe ffà er piedino se sospira
co li calli e ssoprossi e sse va zzoppo.
30 novembre 1836
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Versione. Mastro Crispino 2. Larghi questi borzacchini? (brodequins - stivaletti con tomaia grigia in pelle di daino usati per passeggio) Li faccio per tanti clienti e tutti li vogliono più grandi di questi. Se lei voleva avere due budelli, signor conte mio, lo poteva dire prima. Almeno questi le vanno come guanti, senza che si sforzi e si impegni (per infilarli): non c'è alcun bisogno di metterli a forza di sapone e di calzanti. Non la sente che tipo di pelle è il gambale? La prima acqua che prende, questo si ritira; poi, se è stretto, o non entra o le fa male. Calzi comodo, calzi, il troppo è troppo. Poi per fare il piedino si soffre con i calli e i soprossi (deformazioni articolari da scarpe strette) e si cammina zoppo.
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Insomma mastro Grespino un po' la fa cotta un po' la fa cruda, a seconda dei casi, dei clienti e degli errori dei suoi calzolai. Le scarpe ai tempi del Belli erano il caval di San Francesco per la gran parte del popolo e dovevano calzare bene e fare tanta strada, ma non sempre il mastro Grespino di turno ci azzeccava.
Il Belli ha composto un buon numero di sonetti su questo mestiere. Leggiamo in nota al sonetto Er carzolaro dottore: "In Roma i calzolai e i barbieri sono i dottori del volgo". Le loro affermazioni erano pertanto difficilmente contestabili dagli avventori. Ma per i ricconi e l’alto clero il discorso era un po' diverso e le loro esigenze, come oggi, erano per calzature belle e alla moda.
Comunque anche per loro l'arrivo del calzolaio per consegnare o provare a domicilio le scarpe era un avvenimento importante che poteva giustificare l'interruzione di udienze o affari di Stato. Nel sonetto La risposta de Monziggnore (10 ottobre 1835) l'arrivo improvviso del calzolaio per consegnare o provare le scarpe di Monsignore è un giustificato motivo per interrompere brutalmente l'udienza di un povero postulante:
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Ner mejjo der discorzo, er calzolaro
venne a pportajje un par de scarpe nove,
e mme mmannòrno via com’un zomaro.

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IMMAGINE. La bottega di calzolaio ai tempi del Belli era anche un affollato luogo di ritrovo e pettegolezzo per eleganti paini, minenti arricchiti, sfaccendati di quartiere e bulli senza arte né parte (stampa di A. Pinelli).

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