12 marzo 2010

Popolani arricchiti in trattoria: cercano il Bengodi della carne.

E’ un bell’ottobre romano, tiepido e assolato, che sembra quasi estate (“ottobrata”), e sull'alta carrozza affittata il vociante gruppo delle "minenti" (popolane arricchite di Trastevere, volgari e vistosamente abbigliate e ingioiellate), va al tradizionale pranzo in trattoria "fuoriporta". Che poi, in molti casi, voleva dire solo nel vicino Testaccio…
La festa o l’ottobrata fuori porta, magari sotto un pergolato, era un momento tipico della vita dei popolani romani dell'800, ma non certo di quelli poveri, perché viaggio e pranzo costavano, anche allora. Dopo un pranzo eccezionale (la “magnata”), i resoconti e i commenti tra amici erano e sono tuttora quasi un dovere sociale. Certo, più in campagna che in città, più nei villaggi che nei grandi centri, più tra gli ex-poveri che tra i benestanti. Ancor oggi è così, quando il cibo è perfino troppo abbondante e facile da procurarsi, figuriamoci nell’800, tra il popolino romano di artigiani e piccoli bottegai, quando il pasto quotidiano, perfino per chi non era poverissimo ma molto “sparagnino”, doveva essere molto spartano, e mangiare tanto da saziarsi, anzi da ingozzarsi, era un raro evento da raccontare a tutti! Dopo un signor pranzo, riuscito o no, se ne parlava magari per giorni o settimane. E a quanto pare non solo il menù pesante – vedremo più avanti – ma anche il conto poteva essere di difficile digestione.
Pranzo fuori porta a colori (medio) (Pinelli) Qui, al centro dell’attenzione del cronista-bozzettista Belli ci sono due pranzi paralleli: uno dei minenti maschi, l’altro delle minenti femmine, presumibilmente le loro mogli. Tutti tipicamente trasteverini. Che dopo il doppio evento confrontano i rispettivi trattamenti in trattoria, quantità, qualità, menù e prezzi. Diciamo subito che vincono le donne 5 a 0: hanno pranzato molto meglio, abbuffandosi addirittura, con migliore qualità e a poco prezzo. Invece, alla tavolata dei maschi il trattore riserva un trattamento pessimo: menù poco vario, scarsa quantità e qualità, e pure a caro prezzo. Un disastro.
Ma chi erano questi "minenti"? Erano gli "eminenti non per status sociale, ma per ricchezza" sul popolino, cioè i popolani arricchiti con i mestieri, i traffici e alcuni forse anche con gli espedienti e il malaffare, dal calzolaio al rigattiere, dal cerusico al piccolo prestatore strozzino, al minuto commerciante ambulante, e così via. Maschi o femmine che fossero, vestivano il perfetto abito del popolano romano, scrive in una nota incompleta il Belli, che dimentica di aggiungere che tale abito era l’abito ricco della festa che i poveri neanche potevano permettersi. E mostravano un’eleganza volgare, colori appariscenti, sovrabbondanza di ori e ornamenti, insomma un esibizionismo cafone. E come ci tenevano ad apparire diversi, superiori, cioè appunto "eminenti", sul resto del popolo!
Le donne, per esempio, erano famose per i tradizionali orecchini d'oro pesante con pendagli, detti “scioccaje”, gli uomini per le grosse catene d’oro dell’orologio, le vistose fibbie di argento sulle scarpe, e addirittura per gli orecchini d’argento a fettuccia, così grossi – scrisse un cronista satirico – che sembravano cerchi di botte! I classici burini arricchiti, esibizionisti, gradassi, ma poi, al dunque, come si vede al momento di pagare il conto in trattoria, pure spilorci (cioè tirchi, avari).
Questa, alla luce di tanti riscontri (disponibilità di ori e argenti, ricchezza del vestiario, apparenza nella festa, ma poi volgarità, comportamento e anche vitto abituale come tutti gli altri popolani) sembra essere l’interpretazione dominante e più attendibile, fatta propria anche dagli studiosi più seri (es. sito del Museo romano del Folklore, Samaritani), che spazza via le acrobatiche e poco sensate interpretazioni di minenti come "emarginati", "malavitosi", "abitanti di Trastevere" o addirittura semplici "popolani tipici".
Dunque, si tratta di comitive di popolani arricchiti, esagerati, tronfi e pieni di sé. Il pensiero corre irresistibilmente al liberto arricchito Trimalcione del Satyricon di Petronio). Nei giorni festivi e nelle mitiche gite fuori porta durante le ottobrate, carichi di ori luccicanti, fibbie, nastri, penne di tacchino, velluto, buon panno e seta, vanno in carrozza in trattoria per una epica "magnata", che nelle loro aspettative dovrebbe compensarli del pessimo e povero vitto di ogni giorno, del tutto analogo a quello degli altri popolani. Da che cosa lo si deduce?
E’ la stessa sovrabbondanza incredibile di carni e cacciagione – nel menù delle donne, gratificate dal trattore – che parla in questo senso. E’ una piccola parodia della cena di Trimalcione, con molti primi e secondi di carne raddoppiati e ripetuti. Gli uomini, invece, che avrebbero voluto abbuffarsi allo stesso modo, tornano a casa col borsellino vuoto e lo stomaco semivuoto. E se ne lamentano con le mogli. Uno, non più tirchio degli altri ma più sincero, recrimina che per quel pranzo mediocre si è dovuto pure impegnare al Monte dei pegni un paio di orecchini della moglie.
Pegno? Un lettore superficiale potrebbe pensare che, allora, si trattava di un povero. No, un povero non si impegna certo gli orecchini per un pranzo. L’episodio va letto nel senso che a quei tempi, con moneta circolante scarsa, era d’uso comune farsi anticipare liquidi depositando per un breve periodo argenterie e gioielli. Che bisognava avere. E se ne deduce anche che questi minenti erano abituati a pranzi festivi del genere, e relative spese, di gola o di prestigio che fossero.
Dal punto di vista nutrizionale e dietetico, ovviamente, si tratta di pranzi pessimi, molto sbilanciati ed eccessivi, oggi ritenuti ad alto rischio, certo da non imitare. Spiegabili solo come infrazione della norma quotidiana, assai spartana. Vera e propria compensazione. Da notare come curiosità i testicoli (granelli), più probabilmente di montone che di toro, alternati nello spiedo ai carciofi, che la sorte assegna curiosamente alle donne ma non agli uomini, gli antichi gnocchi di semola ("gnocchi alla romana"), ben superiori dal punto di vista nutritivo e salutistico a quelli di patate, e comunque di forma più grande e diversa, tipo pappardelle, il riso con i piselli che testimonia già dell’uso popolare ma solo festivo del costoso riso nell’Italia centrale dell’800, la scarsità assoluta, eloquentissima, delle verdure, che i popolani invece mangiavano in abbondanza tutti i giorni, e spesso solo quelle, il caffè vero, non l'orzo del popolino, già allora dato a fine pasto come digestivo, il rosolio dolce per le donne, tipica moda dell’800.
E infine, il miglior condimento, un po’ di alterigia o esibizione di status. Le "signore" popolane arricchite e snob tengono, eccome, alla distanza di censo e la vorrebbero spacciare per distacco sociale. Mentre è soltanto economica, fa notare F. Samaritani in un suo commento. Ecco quindi la "benevolenza" esibita verso l’inferiore vetturino o cocchiere che si degnano di far pranzare con loro offrendogli il pranzo, circostanza fatta debitamente notare. Un viziaccio che dura anzi imperversa a tutt’oggi: anche quando rozzi, ignoranti o intellettualmente poco dotati, i cafoni arricchiti e i ricchi in genere si ritengono élite in tutto. Per fortuna incontrano sempre qualcuno che gli ricorda chi sono in realtà. Ma qui non vorrei finire con la morale delle favole di Fedro o Esopo…
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ER PRANZO DE LI MINENTI
C’avessimo? un baril de vin asciutto,
du’ sfojje co rragajji e ccascio tosto,
allesso de mascello, un quarto arrosto,
e ’na mezza grostata: ecchete tutto!
Ce fussi stato un frittarello, un frutto,
o un piattino ppiú semprice e ccomposto!...
Cert’antra ggente che ce stiede accosto
c’ebbe armanco deppiú fichi e presciutto!
Si ppoi vôi ride, mica pan de forno
ce diede, sai? ma ppagnottoni a ppeso,
neri arifatti de scent’anni e un giorno.
Oh, tu azzecchece un po’ cquanto fu speso!...
Du’ testonacci a ttesta, o in quer contorno!
E cce vonno riannà? Bravo, t’ho ’nteso!
E io che mm’ero creso
d’impiegà un prosperuccio-lammertini,
ciò impeggnato a mmi mojje l’orecchini.
Terni, 8 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
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Versione - Che avevamo? Un barile di vino asciutto, due tagliatelle con interiori di pollo e formaggio grattugiato, lesso da macelleria [la carne più economica], un quarto arrosto [di bacchio o abbacchio, cioè agnello giovane, nota il Belli] e una mezza crostata, ecco tutto! Ci fosse stato, chessò, un fritto, un frutto o un piattino di contorni! Eppure altri clienti attorno a noi ebbero almeno fichi e prosciutto in più! Se vuoi ridere, neanche panini freschi ci diede, ma pagnottoni a peso, neri, rifatti, vecchi di cent’anni e un giorno. E indovina un po’ quanto fu speso! Due testoni a testa [2 monete d’argento da 3 paoli], e per un pranzo del genere! E c’è chi ci vuole tornare? Bravo, t’ho capito! E io che avevo immaginato di spendere solo un "prosperuccio lambertini" [2 paoli, cioè 1 lira. Dal nome d’un cardinale], ho dovuto impegnare gli orecchini [d’oro] di mia moglie.

ER PRANZO DE LE MINENTE
Mo ssenti er pranzo mio. Ris’e ppiselli,
allesso de vaccina e ggallinaccio,
garofolato, trippa, stufataccio,
e un spido de sarsicce e ffeghetelli.
Poi fritto de carciofoli e ggranelli,
certi ggnocchi da fàcce er peccataccio,
’na pizza aricresciuta de lo spaccio,
e un’agreddorce de ciggnale e ucelli.
Ce funno peperoni sott’asceto
salame, mortatella e casciofiore,
vino de tuttopasto e vvin d’Orvieto.
Eppoi risorio der perfett’amore,
caffè e ciammelle: e tt’ho llassato arreto
certe radisce da slargatte er core.
Bbè, cche importò er trattore?
Cor vitturino che mmaggnò con noi,
manco un quartin per omo: e cche cce vòi?
Terni, 8 ottobre 1831 - D’er medemo
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Versione. Ora senti il pranzo mio. Riso e piselli, lesso di vacca e di gallina, manzo in umido garofanato, trippa, stufato, e un spiedo de salsicce e fegatelli di maiale. Poi fritto di carciofi e granelli [testicoli], certi gnocchi [di semola] da peccato di gola, una pizza comperata, agrodolce di cinghiale e uccelli. Ci furono peperoni sott’aceto, salame, mortadella e formaggio fresco, vino da tavola e d’Orvieto. E poi rosolio del perfett’amore, caffè e ciambelle. E ho dimenticato certi ravanelli da allargarti il cuore. Ebbene, quanto ci fece pagare il trattore? Col vetturino che pranzò con noi, neanche un quarto [di zecchino] a testa: e che volevi di meno?
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IMMAGINI. 1. L'acquerello è di Achille Pinelli, figlio del grande Bartolomeo, che ha uno stile pittorico molto diverso. A differenza del padre, aulico e classicheggiante, ha un tocco satirico quasi da vignettista umorista e caricaturista: un piccolo “Belli dell'acquerello". 2. Il tradizionale pranzo “fuori porta” avveniva spesso allestendo tavoli e panche sui prati davanti alle trattorie. E dopo pranzo si suonava e ballava (B. Pinelli).

1 commento:

Madama Dorè ha detto...

Un quadretto gustosissimo e minuzioso! Sembra di esserci. Mi hai suggerito un altro epiteto: certe amiche acchittate e volgari che si vestono tra albero di natale e mignotte le chiamerò "minenti". Sperando che non leggano questo blog...:-)
Grazie Nico e un abbraccio.

 
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